Bersagli “mobili”, ma logiche “immobili”

L’attacco verificatosi lo scorso 28 giugno all’aeroporto internazionale Ataturk in Turchia, che ha causato 43 morti e 238 feriti, lascia un segno molto importante nel complesso scenario internazionale.

La scelta di un aeroporto quale bersaglio altamente remunerativo (la presenza di numerose persone e i danni indiretti provenienti da una contrazione, seppure a breve termine, del turismo), simbolico e di alto profilo, nonché la mancata tempestiva rivendicazione porta ad escludere la responsabilità di militanti del PKK. Le azioni di questi ultimi infatti sono sempre state dirette contro obiettivi militari o comunque verso rappresentanze del governo proprio per sottolineare la natura prettamente politica delle proprie azioni e la differenza con formazioni terroristiche di matrice politico-religiosa.

L’attenzione viene dunque rivolta allo Stato Islamico, il quale ha diversi motivi per desiderare di colpire la Turchia.

L’ambiguità politica del Presidente Erdogan ha nel corso del tempo consentito il rafforzamento di formazioni jihadiste, quali ISIS appunto, non prevedendo l’effetto boomerang di tale impostazione. L’attività pro Stato Islamico posta in essere al fine di contrastare il regime di Bashar Al Assad, sempre in funzione anti-curda, attraverso la concessione di facili passaggi per combattenti stranieri, nonché di rotte per il traffico di petrolio e altro materiale di contrabbando che ha finanziato le casse di Daesh, mal si coniuga con quanto ha iniziato a verificarsi lo scorso anno. La concessione ai caccia statunitensi della base aerea di Incirlik in funzione anti ISIS ha infatti rappresentato il momento di svolta della Turchia quale protagonista nel complesso ginepraio mediorientale. L’intenzione di operare a fianco della coalizione occidentale è stata interpretata come una sorta di tradimento da parte dei jihadisti dello Stato Islamico, i quali hanno iniziato a colpire il loro business partner principale.

Contestualmente a ciò va inoltre considerato che le azioni militari poste in essere per contrastare lo Stato Islamico nel cosiddetto Syraq, unite a quelle volte alla riconquista di importanti città (come ad esempio Falluja), hanno provocato una ingente perdita di territorio in capo a Daesh. Questo sta provocando una regressione dell’organizzazione terroristica all’interno dello spettro potenzialmente progressivo della conflittualità non convenzionale. Dalla fase dell’insorgenza, infatti, si assiste ad un ritorno ad azioni terroristiche di natura strategica piuttosto che tattica, le quali privilegiano l’esercizio di una capacità expeditionary dell’organizzazione posta in essere da combattenti formatisi in teatro operativo. Tale impostazione è inoltre confermata anche dai recenti proclami trasmessi dai canali informativi di ISIS, con i quali si invitano i simpatizzanti a non recarsi più in Siria o Iraq per combattere ma si chiede piuttosto di compiere azioni sul proprio territorio.

Nonostante non possa essere considerata quale causa dell’attacco di martedì scorso (in quanto l’esecuzione di un’azione come quella effettuata allo scalo aeroportuale prevede una lunga e articolata preparazione), va inoltre tenuta presente, per il futuro, l’apertura della Turchia verso Paesi particolarmente importanti nell’area mediorientale, quali Russia e Israele. Con il primo il governo turco sta infatti tentando di ricucire i rapporti incrinatisi a seguito dell’abbattimento del jet russo il 25 novembre 2015; con il secondo, invece, la Turchia sta ripristinando i rapporti interrotti a seguito dell’incidente avvenuto nel 2009, durante il quale la nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, venne assaltata da forze speciali israeliane per aver forzato il blocco navale imposto a Gaza. In riferimento ad Israele c’è però anche la questione energetica che potrebbe rappresentare un elemento molto importante nei futuri rapporti e alleanze nella zona. Ciò grazie ai nuovi potenziali equilibri derivanti dalla presenza del giacimento di gas denominato “Leviathan”, scoperto a largo delle coste israeliane, il quale risulta essere molto importante per l’approvvigionamento energetico della Turchia, e per il transito verso l’Europa, soprattutto dopo l’interruzione dei lavori relativi al progetto del gasdotto Turkish Stream. A fare da contrappeso a tale situazione ci sono i negoziati tra Egitto e Iran funzionali alla vendita di petrolio iraniano nel mercato europeo mediante sfruttamento delle infrastrutture egiziane, che verranno ulteriormente rafforzate a causa della scoperta di un altro importante giacimento di gas a largo delle coste egiziane, denominato “Zohr”.

L’equilibrio geopolitico dell’area medio orientale appare dunque in continuo mutamento. A questo punto viene naturale auspicare che le alleanze e le rimodulazioni degli assetti portino anche ad una maggiore cooperazione nell’attività di contrasto al terrorismo soprattutto attraverso un maggiore scambio informativo e mediante l’adozione di protocolli di sicurezza uniformi sacrificando, se necessario, la privacy di migliaia di persone che preferirebbero sicuramente fornire un’informazione in più piuttosto che essere vittime dirette o indirette di un’azione terroristica.

Per questo le logiche, a mio giudizio, restano “immobili”. Penetrazione e sfondamento, con fucili, poi autodistruzione dello shahid. Eppure bisogna agire. E in fretta. Con modalità anche non convenzionali, ove necessario.

*Ha collaborato Andrea Strippoli Lanternini
www.orft.it

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