L’eccellenza made in Italy che se ne va all’estero

Vendute, ricomprate, spesso passate da una proprietà all’altra, da un paese all’altro. È la storia di molti marchi d’eccellenza nati in Italia, ma che di italiano oggi hanno ben poco. Un fenomeno che va visto e vede protagoniste in negativo le piccole e grandi imprese del Made in Italy. Di fatto le multinazionali straniere acquistano marchi italiani di prestigio e di grande valore, affidando ad altri la realizzazione di prodotti di alta qualità con conseguenti benefici in termini di ricavi e di utili di bilancio. Tradizionalmente i protagonisti degli acquisti in Italia sono stati Francia, Stati Uniti, Germania, Regno Unito, in tempi recenti sono in crescita le operazioni di acquisizione da parte di paesi non occidentali come India e Cina, anche Giappone, Corea, Qatar, Turchia e Thailandia.

Eurispes e UILPA hanno identificato quelle aziende fondate in Italia, simbolo della nostra migliore produzione artigianale e che hanno vissuto momenti di successo e di crisi, fino a cambiare proprietà e bandiera. Un database che raccoglie una selezione di 130 importanti marchi che soprattutto negli ultimi 20 anni per motivazioni differenti hanno registrato cambiamenti nella proprietà.

Molte delle nostre migliori realtà imprenditoriali sono state schiacciate dalla congiuntura economica negativa, unita all’iperburocratizzazione della macchina amministrativa, a una tassazione iniqua, alla mancanza di aiuti e di tutele e all’impossibilità di accesso al credito bancario. L’intreccio di tali fattori ha inciso sulla mortalità delle imprese creando una sorta di mercato “malato” all’interno del quale la chiusura di realtà imprenditoriali importanti per tipologia di produzione e per know-how si è accompagnata spesso a una svendita (pre o post chiusura) necessaria di fronte all’impossibilità di proseguire l’attività.

L’afflusso di capitali esteri nel nostro Paese non è quindi avvenuto secondo le normali regole di mercato e le aziende si sono dovute piegare a una vendita “sottocosto” rispetto al loro reale valore.

In più, si assiste di frequente ad un’altra deriva particolarmente preoccupante. Spesso le nostre aziende vengono acquistate da altre aziende di paesi stranieri, vengono svuotate dei macchinari e del know-how, e mai riaperte. Anzi un’azienda può vivere la strana condizione di soggetto “perennemente sul mercato” poiché la proprietà passa da un’azienda all’altra, da una società all’altra, da un paese all’altro, in un giro vorticoso che lascia quanto meno perplessi dal punto di vista della trasparenza. D’altra parte, in un mercato globalizzato all’interno del quale la lotta diventa ogni giorno più dura e senza esclusione di colpi, la concorrenza non si fa più solo attraverso l’innovazione di processo e di prodotto, ma anche o forse soprattutto, attraverso l’eliminazione dell’avversario diretto acquistandone l’azienda e dismettendone la produzione.

All’interno di un sistema finanziario sempre più immateriale e senza patria diventa ancora più arduo ricostruire l’origine e i percorsi dei capitali impiegati così come dei vari interessi a essi riconducibili. È certo però che questi interessi, il più delle volte, non corrispondano a vere vocazioni imprenditoriali, ma siano organizzati secondo la logica del massimo profitto.

La svendita della nostra rete produttiva quindi ci impoverisce sia dal lato economico – poiché siamo costretti giocoforza a vendere a un prezzo inferiore rispetto a quello reale – sia per la perdita di asset immateriali, a volte di difficile quantificazione economica, perché vengono meno la tradizione, l’esperienza e la storia insita in ciascuna delle aziende di cui ci priviamo. E la nostra imprenditoria, va ricordato, è fatta di imprese, costruite nel corso degli anni esaltando il concetto di qualità. Non solo. Accanto a questi problemi non si può tacere sulla condizione nella quale versano migliaia di lavoratori che si ritrovano in cassaintegrazione e, probabilmente invano, attendono la possibilità di un reintegro a ogni nuovo cambio di proprietà. Sempre sul versante dell’occupazione, quello che può accadere è purtroppo che, rilevata un’azienda che prima produceva in Italia, si trovi più conveniente delocalizzare la produzione in paesi con minor costo del lavoro, meno barriere burocratiche, ma anche normative assai diverse dalla nostra sia sul piano della sicurezza sul lavoro sia su quello della tutela della salute dei consumatori. Le conseguenze di ciò sono ben note: perdita di posti di lavoro, di personale specializzato e, inevitabilmente, abbandono degli standard di qualità del prodotto.

Le aziende italiane che si presentano nei mercati globali non solo vendono prodotti e servizi, ma trasmettono valori, tradizioni e una produzione artistica e artigianale che da sempre ha caratterizzato l’affermazione e l’attrazione per l’Italian Style nel mondo. Una maggiore tutela dei nostri marchi e di tutta la produzione artigianale insieme ad un piano serio di sostegno alle imprese sono fattori strategici per il nostro Paese. Questa consapevolezza si è ormai affermata, ma gli interventi per mettere mano ad una situazione a lungo trascurata non sono più rinviabili. Dobbiamo arrenderci definitivamente all’idea di non avere le caratteristiche per essere una potenza industriale, ma non ne difettiamo per essere una potenza culturale, un punto di riferimento nel mondo per qualità, bellezza, patrimonio artistico, capacità creative e innovative. E su questo lavorare.

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