Ha un senso oggi parlare, nel nostro Paese, di comunità? Quand’é che un insieme di persone diventa una comunità e in quale circostanza perde questa sua connotazione? Il termine viene usato, generalmente, in senso positivo. Non esiste una sua accezione negativa. È comunità quella che si crea online ‒ le cosiddette communities; è comunità l’Unione europea che, non a caso, per i suoi detrattori è solo l’Unione, che può raggruppare indifferentemente positivi o negativi; è comunità quella degli anziani in un ospizio e può esserlo quella dei detenuti in carcere. Senza considerare che la parola riporta quasi inevitabilmente al passato, alla tradizione, con un effetto nostalgia che prevale e che privilegia un modo di stare insieme, di aggregarsi sulla base di valori condivisi, di entrare in relazione, di percepire un comune sentire, di far parte di una identità culturale o spirituale.
Ebbene, è lecito chiedersi oggi quanto e in che modo gli italiani si sentano parte non solo di una nazione, di un territorio con dei confini, ma anche e soprattutto di una comunità? Perché va detto che la caratteristica della “appartenenza” che il concetto di comunità richiama non viene, in questo caso, sbandierata in contrapposizione ad un’altra ma come elemento distintivo di un modo di essere e di sentirsi parte di qualcosa che va oltre i particolarismi e le differenze.
La comunità, inoltre, può essere ideale, mentale, spirituale e, in questo caso, di sua immaterialità, evidenzia la sua natura pacifica e tollerante. Ma, tornando alla domanda iniziale, ossia se in Italia prevalga o meno l’idea di una comunità, serve sottolineare che oggi prevalgono aspetti utilitaristici che poco possono avere a che fare con un autentico spirito comunitario.
In un’epoca contraddistinta da individualismo e spersonalizzazione dei rapporti, oltre che da trasformazioni velocissime, mantenere una visione e una identità comunitaria risulta sempre più problematico. Sia chiaro: non mancano di certo le occasioni per aggregarsi e per fare squadra, dalle associazioni ai gruppi, ma è della comunità, e solo di essa, la dimensione della partecipazione e della comunicazione ‒ dalle idee, ai sentimenti, dalla progettualità ai mezzi per raggiungere l’obiettivo finale. Le piazze virtuali hanno soppiantato quelle fisiche, le chat hanno preso il posto dei luoghi della conversazione. Con la conseguenza che ci siamo un po’ persi. Dice bene Marco Aime (Comunità, edizioni Il Mulino): «Una comunità è quella entità a cui uno appartiene, più grande della famiglia, ma più piccola di quella astrazione che chiamiamo società».
In questa prospettiva, occorre quindi chiedersi se ci si senta parte di una qualsivoglia comunità oltre a sentirsi parte di una famiglia naturale e di una società, di uno Stato e di una nazione. I social media, di cui oggi tutti facciamo parte ‒ da Facebook, a Twitter, da Instagram a Youtube ‒ colmano forse questa esigenza di riconoscersi parte di una comunità? Ma in questi casi siamo solo utenti di una piattaforma digitale condivisa oppure membri di un club con delle regole predefinite, dei comportamenti comuni e uno stesso modo di intendere la vita, l’impegno e certi comportamenti? E ancora, la partecipazione ai social media con l’uso di testi, video e immagini, può essere considerata una forma di partecipazione attiva e di confronto? È sufficiente essere connessi per potersi ritenere attori di una interazione? Questa semplice riflessione sul concetto di comunità non vuole comunque ignorare le responsabilità della politica attuale in cui la scomparsa dei partiti tradizionali e dell’impegno politico e sociale ha lasciato il posto a egoismi ed a populismi che hanno privilegiato le differenze e le diversità sociali piuttosto che favorire aggregazioni sulla base di progetti, idee e valori. E allora, quali spazi restano agli italiani per coltivare appartenenze e quindi uno spirito comunitario che non sia solo il risultato di odio e invidia sociale ma promozione di ideali alti? Esistono e non possiamo ignorarlo, grandi esperienze di sostegno ai più deboli, nel volontariato, nell’associazionismo ambientale e religioso, nello sport, nel settore del no profit e della disabilità. Territori in cui è ancora possibile esercitare spazi di altruismo e di condivisione, di riconoscimento identitario e di forme di comunità, ma diventa sempre più difficoltoso alimentarli, espanderli e frequentarli. Il fenomeno della globalizzazione e quello della digitalizzazione, inoltre, ponendo in discussione i concetti di tempo e di spazio, hanno reso tutto molto più fluido ed evanescente. E le accelerazioni hanno causato alienazioni e perdita di identità sociale e territoriale. Ma alle responsabilità della politica, incapace di creare legami e visioni, si affiancano quelle della cultura variamente intesa, legata ad una prospettiva di breve termine e con armi spuntate nei confronti di dinamiche finanziarie e commerciali che hanno ben altre priorità. Il valore di una comunità è dato dalla possibilità della persona di realizzare, all’interno di essa, le proprie capacità e di identificarsi in una dimensione di dialogo e di scambio e il fatto che la nostra epoca non ne favorisca la formazione non può che essere un indizio della sua opacità.
Comunità sostituite da “communities”. L’identità corre sui social
di
Alfonso Lo Sardo
