L’incertezza della recidiva: se insieme al Covid cresce la paura del futuro

Il Covid mette a repentaglio le vite nel mondo, in generale cambia le abitudini. Collettive o individuali, importanti o meno, magari piccole e insignificanti, che però hanno assunto valore col tempo. L’intero orizzonte personale è stravolto anche quando non c’è pericolo per la salute o non si è contratta l’infezione; emergono mutamenti nel quotidiano, fatti di rinunce, limiti, divieti.

La perdita che registriamo in termini di possibilità di fare e muoverci, riduzioni dei margini di libertà, pesa di più e non dipende dalla quantità del sottratto. Le vite di tutti, anche in questi momenti, non sono affatto semplici, ma più di prima ci sfugge quel concetto, una sorta di mantra, che permetta, stavolta come ieri, di dire che andrà tutto bene. Un augurio rasserenante e incoraggiante.

Accade di nuovo che si debbano adottare restrizioni dure, dopo il temporaneo sollievo estivo. Ce ne rendiamo conto solo ora: fragile e insicuro il momento appena vissuto. La durezza di oggi è la conseguenza del rallentamento dell’attenzione. Ci hanno traditi l’eccesso di confidenza e la misura troppo ampia del ripristino delle vecchie abitudini. È sembrata una conquista, era l’illusione d’esserne usciti solo perché, intorno, i segnali si erano attenuati: in realtà si erano solo nascosti bene.

Un altro tiro l’ha giocata la speranza di riprendere la vita di prima come se nulla fosse accaduto, esattamente come era, senza cambiare mentalità, dopo tante chiacchiere. Il lavoro intelligente, le città sostenibili con meno traffico ed inquinamento, i luoghi più sicuri rispetto all’insorgenza delle malattie, il tempo speso sulla qualità: concetti presto messi da parte.

Tutte queste cose si sono aggiunte alla scarsa previdenza di chi sapeva e non ha provveduto. È mancata la preparazione al peggio che sarebbe arrivato. Una colpa non solo di esperti e politici, però. Ciascuno ha avuto la sua parte di responsabilità: ci siamo – imprudentemente – fatti cullare dall’illusione d’esserci gettati il passato alle spalle, ormai definitivamente e non era affatto così.

Il virus addormentato, se non proprio scomparso o sconfitto, era una cattiva idea. Anche rifiutando le cialtronerie di negazionisti e scettici, qualsiasi fuga in avanti nell’irresponsabilità, essa rimaneva una percezione sbagliata ed ingannevole. Premessa di condotte scriteriate, antefatto della seconda ondata, causa vertiginosa di accelerazione della pandemia.

Era inevitabile che ne fossimo accerchiati dopo l’estate, anche in maniera più pressante ed insidiosa. Stavolta il virus è apparso più vicino: presente nelle case, negli ambienti frequentati (la scuola dei figli, i luoghi di lavoro e studio). Mai è sembrato che il virus avesse fatto tanta strada verso di noi, raggiungendoci nella sfera personale.

Le giornate sono plasmate da regole che mutano di contenuto in un attimo, giustificate da indici dai nomi incomprensibili, di cui abbiamo imparato a conoscere il contenuto nefasto e la tendenza: in aumento si accompagnano a sciagure, restrizioni, nuovi guai. Al momento, quei fattori sono contrassegnati solo dal segno “più”, la crescita del pericolo.

Rappresentano il numero dei tamponi e degli infetti, la riduzione della capienza nei reparti di terapia intensiva, la proporzione tra casi risolti e esiti infausti, e naturalmente il termine finale, che dà senso tragico a tutto: il numero di chi non ce la fa, e la composizione sociale ed anagrafica delle nuove vittime. Crescono i morti e c’è un abbassamento nell’età delle persone colpite. Tutti – non solo gli anziani e salvo forse i giovanissimi – possono essere infettati.

Il caleidoscopio delle etichette, – giallo, arancione, rosso – assegnate alle regioni non è sinonimo di energia e allegria, come farebbe pensare la vivacità dei colori scelti. È piuttosto la raffigurazione materiale di condizioni diverse ma sempre sciagurate, la previsione di una “scala” di eventualità per ora a senso unico, nella direzione del maggior pericolo, segnala la caduta in mezzo a restrizioni più acute.

I confini tra un colore e l’altro, la soglia oltre la quale non si è più l’uno ma l’altro, sono provvisori ed esili, basta poco perché tutto cambi. Nessuno, dopo aver appresso di trovarsi meno peggio di altri, è davvero al riparo. Mai i confini sono stati così incapaci di separare i destini personali, di distinguerli con sicurezza. Nemmeno per poco tempo. Non si ha modo di tirare un sospiro di sollievo ed ecco, il giorno dopo, nuovi numeri stravolgono la situazione.

Si passa dai “salvati” ai “dannati” in un attimo, con un annuncio nel cuore della notte, non c’è tempo per sentirci tranquillizzati. Chissà se si tornerà indietro nella discesa agli inferi. Meglio: quando se ne uscirà? Dubbi e domande che hanno il sapore dello scongiuro di fronte a scarse certezze. L’annuncio di vaccini al traguardo dà speranze ma lascia incerti: quando li avremo? Faremo in tempo a beneficiarne, o nell’attesa saremo infettati?

A proposito di esiti: si salveranno almeno gli amori? I legami affettivi, le relazioni sociali, in una parola: i rapporti umani? Supereranno le distanze, i distacchi, la mancanza di contatti? Verrebbe da pensare di sì, con lo slancio che ci resta. Ma sarà dura. Sono le storie che turbano gli anni giovanili, che talvolta rimangono sempre verdi e non cessano di stupire, che sopraggiungono, mai troppo tardi, prima che il sipario chiuda per l’ultima volta e in sala si spengano le luci.

Potrebbe non rimanere altro nel paniere, dopo il cataclisma che ha travolto il lavoro. In crisi i modelli tradizionali basati sulla presenza a causa del distanziamento, lo smart working è una necessità inevitabile, tuttavia adottata in fretta, senza studio e preparazione, per capire se e come praticarla utilmente nei diversi settori. Si pensi alla scuola, a quanto è difficile immaginare l’insegnamento da lontano. Chi riesce a lavorare in questo modo è già fortunato. L’alternativa è il lavoro sospeso o negato. Almeno per ora. Poi si vedrà.

Che ne sarà del mondo oltre il lavoro, fatto di arte, spettacolo, sport, cultura? Non perdite di tempo, cose inutili e prive di importanza, per riempire il vuoto. Attività già precarie per il poco tempo a disposizione, ora stigmatizzate, escluse dall’essenziale e dal consentito, un’area opinabile e limitata.

Impossibile soprattutto pronunciare quel nome, “divertimento”, diventato strano. Un assortimento vasto e eterogeneo di cose, oggi però raggruppate insieme all’insegna del negativo. Hanno il sapore sgradevole di ciò che fa male, a sé e agli altri, ed è espressione persino di incivile egoismo. Disdicevole.

Diamo tempo che tutto si sistemi, anche le peggiori e funeste, potremmo osservare con un briciolo di speranza, basta che le fratture del quotidiano trovino nuovi collanti, che il marasma diminuisca un po’. Che arrivino il vaccino e la cura, ci auguriamo. Se accadrà, rompendo ogni indugio, ci sarà luce alla fine del tunnel.

Daremmo qualsiasi cosa a questo punto per un lieto fine. Possiamo cambiare a piacimento il termine che lo definisce seguendo l’istinto e i desideri di ciascuno. Un “abbraccio”, un “contatto”, una “parola” purché ravvicinata, una semplice “risata” ma a cuor leggero e finalmente senza paure. Per ognuno il finale desiderato è diverso. Bello e intenso, comunque.

Cliccando a caso sulla tastiera, la scena non cambia. La sequenza dei letti d’ospedale occupati e scarsi, il viso sofferente dei pazienti e quello affaticato dei curanti, l’avvicendarsi – di nuovo – di esperti e politici, in un susseguirsi di opinioni, tesi, previsioni. Una sequenza straniante e disorientante, spesso. Piena di contraddizioni e divagazioni, quando si rinuncia al rigore dei dati e alla serietà delle deduzioni verificate. La comunicazione scientifica, sospinta dall’urgenza di dare risposte purchessia, sradicata dalle sue radici, diventa avventura e azzardo.

Non c’è spazio per altro, qualcosa che ricordi la vita di prima. Del resto sarebbe inopportuno, e quando c’è, pare stonato e fuori luogo, meglio tornare sul canale precedente. Il motto per cui lo show deve andare comunque avanti (the show must go on), a maggior ragione se ripetuto di questi tempi e riferito alle abitudini normali, è ancor più un’insopportabile idiozia. Quale show si potrebbe mai barattare con l’immagine di chi la vita non è riuscito a conservarla?

Avvertiamo a questo riguardo due verità opposte ed incontrovertibili, tutti vorremmo un lieto fine, e magari nel piccolo proviamo a costruirlo, e nel frattempo tutti abbiamo però paura. Ma questa osservazione è già conseguenza di un momento raro di lucidità e consapevolezza. Che porta a disegnare schemi, catalogare sentimenti ed idee, inventare caselle giuste per l’affanno che comprime la gola. Essere in una parola lucidi. Ma il senso di tutto continua a sfuggire.

Si avverte un senso di spaesamento. Alla lettera. La “mancanza di un paese” in cui abitare e sentirsi tranquilli. La sensazione della perdita di punti di riferimento: che siano una direzione di marcia, una meta possibile, uno scopo conclusivo capace di dare senso ai sacrifici. Proprio oggi ne avremmo bisogno. Lo stato di incertezza è aggravato dalla recidiva, dalla ripetizione del malessere, come se il passato non fosse servito a renderci migliori e a metterci in salvo, oltre il guado pericoloso. È proprio questa intollerabile reiterazione del male a creare angoscia, e a farci perdere le forze.

Il contagio non è certo la “forma” eterna della convivenza e della società. Passerà. Quando, è un altro discorso. Intanto il ribellismo, lo scetticismo, l’incredulità sono la risposta irrazionale ad una difficoltà percepita come oscura e insuperabile. L’ammissione di un’incapacità di confrontarsi con il male e di saperlo affrontare in tempi lunghi, proprio perché non smette di aggredirci.

Le dimensioni della vita sembrano essersi appiattite, passato e futuro sono compressi in un unico tempo che è il presente, pieno di angoscia e preoccupazione, senza memoria e speranza. La “normalità” del vivere non è ritorno al vecchio, spesso superato e ugualmente angoscioso: è riappropriazione del passo giusto per affrontare le difficoltà, la riscoperta dello scopo per cui tutto valga la pena. Il presente non è semplice promessa ingannevole di tempi migliori, ma anticipazione del futuro possibile.

*Angelo Perrone, giurista, è stato pubblico ministero e giudice. Cura percorsi professionali formativi, si interessa prevalentemente di diritto penale, politiche per la giustizia, diritti civili e gestione delle istituzioni. Autore di saggi, articoli e monografie. Ha fondato e dirige Pagine letterarie, rivista on line di cultura, arte, fotografia.

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