Il lavoro è tornato al centro del dibattito pubblico ma spesso più come “parola d’ordine” che come impegno concreto. In un Paese segnato da disuguaglianze, salari stagnanti e precarietà diffusa, la sfida non è solo creare occupazione, ma restituire senso e dignità al lavoro. La piena e buona occupazione torna così a delinearsi come il banco di prova della giustizia sociale e della tenuta democratica dell’Italia. Ma non basta invocare “più lavoro”: occorre interrogarsi su quale lavoro si intenda creare, in che condizioni e con quale equilibrio tra dignità, produttività e giustizia sociale. Dopo decenni di neoliberismo e flessibilità spinta, il risultato è un mercato caratterizzato da occupazione povera e instabile, incapace di garantire sicurezza e prospettive. Dopo un lungo ciclo di deregolamentazione, flessibilità e contratti precari, l’Italia si trova a fare i conti con un paradosso: più occupati ma più poveri. La crescita quantitativa dell’occupazione non è bastata a garantire sicurezza, stabilità e prospettive.
In Italia, dove circa il 12% dei lavoratori percepisce meno di 9 euro lordi l’ora, un minimo salariale rappresenterebbe un argine alla concorrenza al ribasso tra imprese
Milioni di persone vivono con redditi inferiori alla soglia di dignità, spesso con contratti a termine, part-time involontari o collaborazioni atipiche[1]. Eppure, l’articolo 36 della Costituzione non lascia dubbi: ogni lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. È questa la bussola che dovrebbe orientare la politica economica. Nel dibattito politico assume rilievo l’introduzione di un salario minimo legale, in vigore in ventuno Paesi dell’Unione europea[2]. In Italia, dove circa il 12% dei lavoratori percepisce meno di 9 euro lordi l’ora, un minimo salariale rappresenterebbe non solo una soglia di tutela, ma anche un argine alla concorrenza al ribasso tra imprese. Insomma, non bastano i numeri dell’occupazione: servono contratti stabili, percorsi formativi, possibilità di carriera, valorizzazione delle competenze e, soprattutto, una regia pubblica capace di orientare investimenti verso sanità, istruzione, rigenerazione urbana e ambientale, evitando l’illusione che il mercato da solo possa garantire piena occupazione⁴.
Entro il 2034 la popolazione in età lavorativa calerà di quasi tre milioni di unità, una riduzione del 7,8%
Il tema è tanto più urgente se si considera che i differenziali territoriali nel costo della vita restano marcati: vivere in una grande città può costare fino al 60–70% in più rispetto a un piccolo comune del Mezzogiorno, con effetti evidenti sul potere d’acquisto dei salari nominalmente uguali[3]. Le diseguaglianze territoriali non si esprimono soltanto nei prezzi, ma anche nelle opportunità occupazionali. L’Italia è un Paese a più velocità: le aree metropolitane attraggono investimenti, talenti e innovazione, mentre i territori interni e rurali soffrono di disoccupazione giovanile elevata e scarsa mobilità. A questa frattura si aggiunge quella generazionale: secondo le proiezioni demografiche, entro il 2034 la popolazione in età lavorativa calerà di quasi tre milioni di unità, pari a una riduzione del 7,8% (Istat 2024). Un declino che rischia di comprimere la crescita e la sostenibilità del sistema previdenziale.
Un paradosso evidente: da un lato mancano competenze qualificate, dall’altro stipendi troppo bassi non incentivano né l’ingresso né la permanenza nel mercato del lavoro
Accanto alla piaga dei salari bassi, dunque, l’Italia si trova ad affrontare un’altra emergenza: il deserto occupazionale. Questo significa meno forza lavoro disponibile, proprio mentre le imprese faticano a reperire figure professionali adeguate alle esigenze produttive. Il paradosso è evidente: da un lato mancano competenze qualificate, dall’altro stipendi troppo bassi che non incentivano né l’ingresso né la permanenza nel mercato del lavoro. È un’Italia a rischio caduta, come segnala l’Ufficio studi della CGIA di Mestre, che evidenzia come tutte le 107 province del Paese registreranno una variazione negativa, a dimostrazione che la crisi colpirà indistintamente Nord, Centro e Sud (OECD, AI and the Future of Work, Policy Brief, Parigi 2023). Le ripercussioni saranno profonde e riguarderanno settori strategici, comportando una contrazione strutturale del Pil e mettendo a repentaglio la sostenibilità stessa del nostro modello economico.
Oggi circa la metà degli utenti dei servizi pubblici per l’impiego ha difficoltà a utilizzare strumenti digitali complessi
Non meno cruciale è il rapporto tra lavoro e tecnologia. La rivoluzione digitale, accelerata dall’Intelligenza Artificiale, sta trasformando radicalmente i processi produttivi e la domanda di competenze. In molti settori, le professioni di oggi non esisteranno domani; altre, ancora sconosciute, nasceranno nei prossimi anni. È quindi necessario costruire un ecosistema formativo che accompagni i lavoratori lungo l’intero arco della vita, investendo in competenze digitali, green e relazionali. La sfida è fare in modo che l’innovazione non sostituisca l’uomo, ma lo potenzi, liberandolo dalle mansioni ripetitive e restituendogli valore creativo. Tuttavia, la digitalizzazione non può essere la nuova linea di frattura. Oggi circa la metà degli utenti dei servizi pubblici per l’impiego ha difficoltà a utilizzare strumenti digitali complessi[4]. Ciò impone un duplice intervento: alfabetizzazione tecnologica diffusa e rafforzamento del personale pubblico con competenze informatiche, statistiche e orientative. Solo così le piattaforme di matching e gli algoritmi potranno realmente facilitare l’incontro tra domanda e offerta, anziché generare nuove esclusioni.
La povertà lavorativa interessa quasi due milioni di persone, mentre l’inflazione, pur ridimensionata all’1,6%, continua a erodere il reddito delle famiglie
Il quadro macroeconomico riflette queste tensioni. Nel secondo trimestre 2025, il tasso di occupazione si è attestato al 62,6%, con disoccupazione al 6,3% e inattività al 33% (ISTAT, Il mercato del lavoro – II trimestre 2025). Numeri apparentemente positivi, ma dietro cui si nasconde la fragilità di un sistema basato su lavori a basso valore aggiunto e salari stagnanti. Parallelamente, la povertà lavorativa interessa quasi due milioni di persone, mentre l’inflazione, pur ridimensionata all’1,6%, continua a erodere il reddito reale delle famiglie a basso reddito (ISTAT, Prezzi al consumo e condizioni di vita 2025). In questo contesto, la politica fiscale e industriale deve tornare a essere protagonista. Gli investimenti pubblici non sono un costo, ma una leva per la crescita inclusiva: infrastrutture sociali, sanità territoriale, rigenerazione urbana e transizione ecologica generano effetti moltiplicativi sul Pil più elevati delle misure di riduzione fiscale[5].
Gli incentivi alle assunzioni possono aiutare, ma senza una visione d’insieme rischiano di generare solo occupazione temporanea
Le disuguaglianze, del resto, non si colmano soltanto con i trasferimenti, ma con lavoro di qualità: servono contratti stabili, percorsi di carriera e partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali. Occorre valorizzare la contrattazione collettiva, non aggirarla. Gli incentivi alle assunzioni possono aiutare, ma senza una visione d’insieme rischiano di generare solo occupazione temporanea. Come ha ammonito il Presidente della Repubblica nel corso dell’ultima Festa del Lavoro, «salari troppo bassi mettono in difficoltà le famiglie, e le morti sul lavoro restano una piaga intollerabile». Accanto alla dimensione normativa e salariale, il lavoro deve tornare cuore della cittadinanza democratica.
Senza lavoro dignitoso non c’è progresso: è attraverso l’occupazione che le persone costruiscono identità, relazioni, senso di appartenenza
Senza lavoro dignitoso non c’è progresso. È attraverso l’occupazione che le persone costruiscono identità, relazioni, senso di appartenenza. Ridurre il lavoro a variabile economica significa dimenticare la sua natura di diritto e di dovere sociale, come sancito dall’articolo 1 della Costituzione. La dottrina sociale della Chiesa, dalla Rerum Novarum in poi, ha ribadito che il lavoro non è solo mezzo di sostentamento, ma fondamento della giustizia e della pace. Oggi come allora, “rimettere il lavoro al centro” significa restituirgli dignità, non come parola retorica ma come progetto politico fondato su un diverso paradigma. Significa garantire a ogni cittadino la possibilità di vivere del proprio lavoro, di formarsi, di contribuire al bene comune senza precarietà né povertà.
[1] E. Reyneri – M. Fullin, Sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, Bologna 2022.
[2] Commissione Europea, Minimum Wages in the EU, Eurostat Report 2024.
[3] Elaborazioni su dati ISTAT 2024-2025, Condizioni economiche delle famiglie e disuguaglianze, Roma 2025.
[4] Ministero del Lavoro e INPS, Rapporto sul Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa (SIISL), Roma 2025.
[5] FMI, Fiscal Monitor 2024: Public Investment for Inclusive Growth, Washington DC 2024.