La rivolta di Reggio Calabria. La destra eversiva aizzò la guerriglia urbana

Il 14 luglio ricorre il 50° anniversario della rivolta per Reggio Calabria, il primo e sinora unico, esempio di guerriglia urbana armata, dell’Italia repubblicana. La causa della rivolta fu la scelta del Governo di indicare la città di Catanzaro come sede del capoluogo regionale calabrese, scelta che fu ritenuta, e non senza buone ragioni, ingiusta, offensiva e discriminatoria nei confronti della città di Reggio Calabria. Reggio, infatti, aveva oltre il doppio della popolazione di Catanzaro, vantava antiche origini magnogreche – essendo stata fondata dai Calcidesi nell’VIII secolo a.C. –, era terminale ferroviario e autostradale, dotata di un aeroporto (all’epoca unico aeroporto regionale) e di un porto di transito di persone e merci tra le due sponde dello Stretto. Il motivo principale di quella scelta risiedeva nel fatto che Catanzaro era sede della Corte d’Appello e di altri uffici regionali, ma Reggio, a sua volta, era sede di numerosi uffici regionali, tra i quali il Compartimento delle Ferrovie dello Stato, che estendeva la sua competenza sino a Sapri, in Provincia di Salerno. A rafforzare il suo primato, nel 2016 Reggio è stata riconosciuta città metropolitana, comprensiva dei 97 comuni della Provincia e risulta un controsenso che l’unica città metropolitana della Regione non ne sia anche capoluogo.
La rivolta – innescata dal discorso alla città del sindaco Piero Battaglia nella data del 14 luglio – conobbe, quel giorno stesso, episodi di violenza che si andarono aggravando ed estendendo sempre di più, con la costruzione di barricate, lancio di molotov e di pietre, danneggiamenti a edifici pubblici, sbarramenti di strade, scioperi e molto altro ancora. La repressione fu dura quanto immediata. Polizia e Carabinieri rispondevano con largo uso di candelotti lacrimogeni, manganelli, fermi, cariche quotidiane contro i manifestanti e sfondamento delle barricate. Ben presto furono impiegate, da parte dei rivoltosi, armi da fuoco ed esplosivi. Si contarono tre vittime tra i dimostranti e due tra le Forze dell’ordine, oltre ai sei morti del treno a Gioia Tauro e i cinque anarchici nel settembre dello stesso anno. La rivolta durò diversi mesi, tanto da essere stata paragonata a fenomeni terroristici come l’ETA in Spagna e l’IRA in Irlanda, paragone che appare enfatizzato oltre misura, ma che dà l’idea dell’impressione suscitata nella pubblica opinione e nei commenti della stampa.

Negli anni successivi, vari brevi saggi si occuparono della rivolta con tono apologetico, considerandola sempre come un fenomeno locale, un’espressione dell’indignazione popolare, giustificata dalla privazione del ruolo di capoluogo, nel solco di una “partitocrazia” che ignorava le esigenze economiche e sociali della città. Tuttavia, nessuna di queste ricostruzioni allargava il proprio sguardo in direzione del contesto spaziale e temporale in cui la rivolta si inseriva, come il compito dello storico richiederebbe. Si preferì decontestualizzare una vicenda di rilevante importanza nazionale e di eccezionale gravità, per ridurla ad icona del coraggio, della determinazione di una intera città (questa la definizione data dall’antropologo Luigi Lombardi Satriani in Reggio Calabria. Rivolta e strumentalizzazione, pubblicato il primo gennaio 1971, ancora nel pieno della rivolta). Lo storico Pasquale Amato, nel suo libro Reggio capoluogo morale, si riporta alla fondazione di Reggio Calabria, avvenuta nel 760 a.C., prima città fondata in Calabria dai Greci Calcidesi, la città più ateniese della Magna Grecia.

Errore grave che ha impedito per decenni di comprendere come, invece, quella rivolta era stata aizzata prima, e strumentalizzata poi, dalla destra eversiva, per fini che non avevano nulla a che vedere con la battaglia per Reggio capoluogo. E non era difficile arrivarci. La rivolta si collocò, infatti, praticamente a metà strada tra la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969, inizio del ciclo della strategia della tensione) e il tentato golpe Borghese (nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970). A distanza di oltre vent’anni, grazie al lavoro della Magistratura ed in particolare all’operazione “Olimpia” della DDA di Reggio Calabria, con le nuove importanti acquisizioni probatorie, venne dimostrato ciò che le prospettazioni della prima ora avevano cercato accuratamente di occultare. Nel corso del 1969, sin dal 3 gennaio, vi furono in Italia ben 145 attentati dinamitardi (dodici al mese), dei quali 96 di sicura matrice fascista. Alcuni di questi avvennero a Reggio. Nella notte tra il 20 e il 21 aprile due bombe devastarono le sedi della DC e del PLI. Altri attentati furono diretti contro la Chiesa parrocchiale di San Bruno e i Grandi Magazzini Standa. L’episodio più grave avvenne nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 1969, quando un ordigno, composto da 300 grammi di tritolo, esplose nell’atrio del palazzo della Questura di Reggio Calabria, nella centralissima via dei Correttori, nei pressi di piazza Duomo. Restò ferito l’appuntato di servizio Antonio Pirrone. A togliere ogni dubbio circa l’origine fascista della bomba, fu la rapida individuazione degli autori, Giuseppe Schirinzi e Aldo Pardo, arrestati a Roma il successivo 17 dicembre, entrambi appartenenti a formazioni della destra eversiva, entrambi componenti del gruppo di italiani che, nella primavera del 1968, si era recato nella Grecia dei colonnelli per partecipare ad un campo di addestramento. Nel gruppo, composto da circa cinquanta elementi, i reggini erano nove, a dimostrazione di come la presenza in città di elementi fascisti avesse una certa consistenza. Il motivo dell’attentato si può interpretare come una rappresaglia al comportamento del Questore che il 25 ottobre 1969 aveva dato l’autorizzazione, poi revocata, al comizio di Junio Valerio Borghese in piazza del Popolo, con conseguenti violenti disordini da parte dei sostenitori del Fronte Nazionale di cui Borghese era il capo. Per inciso, il giorno dopo si tenne il summit di Montalto – ovvero la tradizionale riunione della ’Ndrangheta – questa volta però tenuto in luogo diverso da quello degli altri anni (Montalto, per l’appunto, preferita alla località di Polsi nel Comune di San Luca) e in data anch’essa diversa (fine ottobre, non più prima settimana di settembre). Non è del tutto certo che Borghese abbia partecipato alla riunione, ma molto probabile, dato che la sua presenza fu data per certa da vari collaboratori di giustizia. La riunione doveva decidere l’adesione delle cosche al progetto golpista del principe nero, previsto per quell’anno, subito dopo la strage di Piazza Fontana. Successivamente, infatti, il terrorista Vincenzo Vinciguerra, autore confesso della strage di Peteano, riferirà che erano circa quattromila gli uomini della ’Ndrangheta pronti ad appoggiare il golpe. Quando a Roma fu dato l’ordine di bloccare l’operazione “Tora Tora”, fu Felice Genoese Zerbi che in Calabria fu informato dell’improvviso stop.

Rimasero probabilmente delusi i direttori dei quotidiani nazionali Il Tempo e La Notte e quelli locali Gazzetta del Sud e Tribuna del Mezzogiorno, che avevano immediatamente riferito che «la città di Reggio è indignata per il gesto criminale dei dinamitardi di sinistra contro uno dei templi del potere costituito». «L’ufficio politico della Questura ha richiamato ancora quelle dieci, massimo quindici persone che, a Reggio, si sa, hanno agganci negli ambienti anarchici e maoisti». E ancora: «Uno degli elementi sul quale lavorano gli inquirenti è il giovane con barba alla Che Guevara». Quest’ultimo indizio – la barba – aveva semmai fatto pensare ad anarchici e maoisti come autori delle tre imprese che hanno scosso l’opinione pubblica reggina.
Si preparava già la grande operazione di depistaggio delle azioni terroristiche dalla destra eversiva alla pista anarchica, che vide insieme la stampa, la Polizia di Stato a tutti i livelli (in particolare la Direzione Generale degli Affari Riservati del Ministero dell’Interno), la Magistratura inquirente e giudicante di Milano e Roma.
La bomba in questura impedì, per la seconda volta a Junio Valerio Borghese (ospite in un albergo di Reggio dal 6 dicembre) di tenere in città il giorno successivo quel comizio non riuscito il precedente 25 ottobre; ma, anche questa volta, dovette rinunziarvi.
Nel casellario giudiziario dei due autori appare una serie incredibile di denunce (apologia di fascismo, danneggiamenti, rissa aggravata, lesioni personali etc.), ma mai una condanna. Il loro curriculum politico, alla luce dei tragici avvenimenti di quei giorni, è significativo: ex dirigenti nazionali della missina Giovane Italia, negli ultimi due anni avevano militato nei ranghi di Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese e di Ordine Nuovo.
Furono arrestati a Roma il 17 dicembre ma, ancora più inquietante, è il fatto che i due reggini fossero sicuramente a Roma il 12 dicembre quando, in contemporanea con gli attentati di Milano, vennero fatte esplodere tre bombe: due all’Altare della Patria, ed una (non esplosa) nei sotterranei della BNL di via Veneto. Di questi attentati non furono mai individuati gli esecutori riconducibili, tuttavia, alle organizzazioni eversive di destra.
L’immediatezza dell’inserimento della violenza su una protesta appena iniziata rende verosimile la tesi secondo cui essa sia stata, in qualche modo, preparata non solo con gli attentati del 1969, ma anche nella primavera del 1970 con il blocco ferroviario del 7 aprile nella stazione di Gioia Tauro. Quel giorno, i dimostranti (tra cui esponenti agrari, fascisti e mafiosi), si erano portati nel centro commerciale della Piana per dare corso a una manifestazione eversiva, con il pretesto del ritardato pagamento dell’integrazione dell’olio, chiaramente destinata a sperimentare metodi e forze poi utilizzati a Reggio. Il relativo processo, a carico di ben sessantacinque imputati, si concluse con la sentenza di condanna del Tribunale di Palmi dell’11 gennaio 1975. Tra gli imputati figuravano esponenti delle cosche della Piana, quali gli Albanese, gli Asciutto, i Piromalli, i Condoluci.
Certamente non potevano essere i cittadini reggini che parteciparono alla rivolta a detenere in casa cariche di esplosivo da usare in una rivolta che non sapevano neppure se sarebbe mai iniziata. Lo stesso può dirsi per l’esplosivo che nella data del 22 luglio – appena otto giorni dopo il 14 luglio – provocò il deragliamento del treno in arrivo alla stazione di Gioia Tauro e che provocò la morte di sei passeggeri e il ferimento di altre settantadue. La gran parte dei viaggiatori era composta da persone, per lo più donne, dirette in pellegrinaggio a Lourdes. Quell’episodio, immediatamente bollato come un incidente ferroviario colposo, addebitato a quattro dipendenti delle ferrovie, successivamente prosciolti in istruttoria, venne, ad oltre venti anni di distanza, accertato come strage riconducibile a due personaggi (morti nel corso degli anni) sicuramente vicini alla destra missina, come stabilì l’operazione “Olimpia”. Non si riuscì, invece, a risalire ai mandanti.

Dai dati acquisiti dall’Archivio del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, e riportati nell’operazione “Olimpia”, si rileva che dal 20 luglio del 1970 sino al 22 ottobre del 1972, furono compiuti in Provincia di Reggio ben 43 attentati dinamitardi, la maggior parte dei quali lungo la linea ferroviaria della Regione, alcuni alla base di tralicci dell’alta tensione, altri ancora in danno di edifici pubblici. E non erano certo i reggini, indignati per la mancata assegnazione della sede del capoluogo regionale alla loro città, a collocare ben dieci cariche esplosive (di cui due non esplosero) sul percorso dei treni che portavano a Reggio i partecipanti alla grande manifestazione sindacale del 22 ottobre del 1972 la quale chiuse, definitivamente, quella triste pagina.
La conclusione che quella rivolta fu, forse, la prima prova generale di guerriglia urbana in una grande città, fu confermata dalle dichiarazioni del sindacalista della CISNAL, Ciccio Franco, postosi a capo della sommossa, il quale affermò: «Questa è la nostra rivolta, il primo passo della rivoluzione nazionale». C’era, dunque, un programma eversivo da sperimentare a Reggio e poi esportare a livello nazionale, nel contesto della strategia della tensione che travagliava il nostro Paese. Anche Pino Rauti ammise in seguito che vi era stata la tentazione e l’ipotesi di esportare la rivolta di Reggio a livello nazionale. Questo non poteva avvenire se non saldando la rivolta reggina con i tentativi di sovversione istituzionale e antidemocratica innestata dai neri con la strategia della tensione. Il tentativo di esportazione venne eseguito infatti nel 1973, sia pure con esito disastroso per i suoi organizzatori. Il 12 aprile di quell’anno l’On. Servello, Segretario della federazione del MSI di Milano aveva invitato Ciccio Franco a un corteo da tenersi in quella città. L’autorizzazione a tenere quella manifestazione, concessa dal prefetto Mazza, venne poi revocata per il pericolo di disordini dell’ordine pubblico, i quali erano largamente prevedibili e che, puntualmente, si verificarono con tragiche conseguenze.
Il corteo partì da piazza Fratelli Bandiera, composto dai giovani missini, ai quali si erano uniti anche i “duri” sanbabilini, e insieme caricarono lo schieramento di polizia posto ai lati del corteo. Il grido di battaglia era “L’Aquila, Reggio, Milano sarà peggio”. Furono lanciati sassi, bottiglie incendiarie, pezzi di legno, biglie d’acciaio. Seguirono due colpi di pistola, e il lancio di una bomba a mano, tipo SRCM. Due poliziotti si accasciarono al suolo. Uno fu solamente ferito, l’altro colpito in pieno petto morì, e anche il suo volto venne squarciato dall’esplosione. Il bilancio di quello che passerà alla storia come il “giovedì nero” fu pesante: 35 feriti, di cui 26 appartenenti a polizia e carabinieri. Tra i 9 civili, un ragazzo di 14 anni venne colpito da un proiettile al fegato. I fermi furono 64, quasi tutti denunciati a piede libero per adunata sediziosa; undici gli arresti. I presunti responsabili, furono individuati in Maurizio Murelli (19 anni) e Vittorio Loi, figlio del noto pugile (21 anni). Quest’ultimo era quello che aveva lanciato la bomba, fornita da Nico Azzi, terrorista di Ordine Nuovo. I nomi di Murelli e Loi apparvero l’indomani sulle pagine di tutti i giornali. Per il MSI quella manifestazione si era trasformata in un vero e proprio boomerang. Era morto un poliziotto e gli appartenenti alle Forze dell’ordine erano una importante componente dell’elettorato missino. Tentarono di rimediare promettendo una ricca ricompensa (cinquanta milioni di lire che andarono al funzionario della sezione missina che aveva denunciato i due giovani missini) e anticiparono la conferenza stampa dei Carabinieri con una propria che indicava i nomi dei responsabili.

Il giorno dopo il Corriere della Sera aprì la prima pagina con gli avvenimenti di via Bellotti. Nell’articolo di fondo Alfredo Pieroni scriveva tra l’altro che «l’assassinio – poiché d’incidente non si può parlare – è stato compiuto nel corso di una “marcia” su Milano di squadristi accorsi da molte città d’Italia. Pattuglie di uomini violenti, che sugli italiani anziani suscitano i ricordi più amari, sono convenute a Milano per dare l’appoggio della forza bruta a uomini che si professano difensori dell’ordine».
Un luogo comune degli “storici” della rivolta è stato, ed è ancora, quello mosso nei confronti del PCI, sia a livello locale sia nazionale. Si rimprovera la mancata comprensione dello spirito della rivolta, la perdita di un’occasione di porsi a capo delle aspirazioni della città. I fischi che accolsero il comizio di Ingrao ne sono testimonianza. Anche su questo punto si ripete l’errore di non guardare alla linea politica che il PCI si era imposto a livello nazionale già dall’inizio degli attentati del 1969. Linea manifestata pubblicamente dalla presenza dei duecentomila operai che in tuta parteciparono ai funerali delle vittime della strage di piazza Fontana, il 15 dicembre del 1969. Il PCI sapeva che la strategia stragista della destra eversiva mirava a provocare reazioni violente, e per questo vi si oppose con una linea di rigoroso rispetto della legalità a tutti i livelli dimostrando, nei fatti, che la difesa della democrazia andava fatta mediante il rispetto della Costituzione, dell’ordine e della risposta politica. Altrettanto fece durante il decennio di attività delle BR e fu una scelta vincente che, a ben guardare, portò al fallimento della strategia della tensione sia di matrice fascista sia brigatista.
Una tragica appendice avvenne il 26 settembre del 1970, quando cinque anarchici reggini persero la vita mentre si recavano da Reggio a Roma a bordo di una Mini Minor. L’auto sulla quale viaggiavano andò a sbattere violentemente contro un camion con rimorchio. La ricostruzione più probabile dell’incidente alla luce delle parti dei due automezzi danneggiate dall’urto (parte anteriore destra della Mini e parte posteriore sinistra del rimorchio), appare quella di un tentativo di sorpasso, reso impossibile dalla presenza di altro camion che affiancò la Mini, rendendo così inevitabile il violento impatto. L’incidente avvenne sull’autostrada del Sole, tra le località di Ferentino ed Anagni, alle 23:25. Tre dei giovani anarchici morirono sul colpo; il quarto, e la sua giovane moglie, morirono durante il ricovero nell’ospedale di Frosinone. I giovani portavano a Roma la documentazione che avevano raccolto sulla strage di Gioia Tauro, della quale non si trovò traccia, ma risultò sin da subito che a intervenire per prima sul luogo dell’incidente non fu la polizia stradale, ma la DIGOS di Roma. Così come avvenne per la strage di Gioia Tauro, anche in questo caso, a pochi mesi di distanza, la vicenda venne rapidamente archiviata (decreto del Giudice Istruttore n. 266 del 10 marzo 1971) come incidente stradale. Stranamente non venne disposta perizia per la ricostruzione tecnica dell’incidente sui mezzi entrati in collisione per verificare, come da prassi, l’efficienza dei rispettivi impianti frenanti, degli pneumatici, delle luci. Della copiosa documentazione che gli anarchici intendevano portare a Roma non fu trovata traccia, né furono restituiti alle famiglie i loro effetti personali. Si sa per certo che, in quanto anarchici, erano controllati dalla polizia e, probabilmente, seguiti durante quel viaggio. Nel libro di Fabio Cuzzola Cinque anarchici del Sud si riporta la telefonata ricevuta la sera prima della partenza dal padre di uno dei giovani da un suo amico agente di polizia dell’Ufficio politico di Roma: «Se ci tiene al figlio, non lo faccia partire con gli altri anarchici, o in Calabria o, prima di Roma, li fermeranno». I collaboratori di giustizia, interrogati sulla vicenda (Giuseppe Albanese, Carmine Dominici, Giacomo Lauro) riferirono tutti di avere appreso che si era trattato di un omicidio realizzato dagli uomini del principe Borghese. Molti inquietanti aspetti di un mistero non risolto.

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