Lo scorso 15 ottobre Eurispes ha presentato al Senato della Repubblica un’analisi innovativa sullo stato di salute del Belpaese, denominata “Indice di Esclusione in Italia”. Si tratta, in breve, di una elaborazione di statistiche ufficiali il cui scopo era la verifica dello stato di attuazione dei diritti costituzionali nelle varie regioni italiane. Al di là di ciò che emerge, è interessante riflettere intorno al senso non apparente di questo Indice, un complicato esercizio statistico descrittivo. Questo senso alberga in tre parole chiave: attenzione; consapevolezza; mobilità.
Richiamo d’attenzione
L’indice è un numero ma è anche il protagonista di un movimento, preciso e sensato. “Indice” infatti, viene da indicare, cioè “mostrare con il dito”. È un gesto antico, spesso solenne, che esprime l’afferrare qualcosa di scarso – la nostra attenzione – e dirigerla verso un punto preciso. Un indice porta perciò una prospettiva orientata, il cui senso è nel valore di ciò che offre alla nostra analisi. Un numero indice, in fondo, non è altro che questo: uno strumento razionale di orientamento, che ci aiuta a districarci in un paesaggio complesso, senza perderci nei dettagli e scegliendo un punto di focalizzazione.
Presa di consapevolezza
L’indice non è neutro, né tantomeno “oggettivo”. Paul Samuelson, un economista americano Premio Nobel, e di area liberal, soleva insegnare che “non esiste misurazione neutrale, perché scegliere cosa misurare è già scegliere cosa conta”. È un aspetto decisivo, questo, perché ogni gesto di orientamento implica anche una scelta di sguardo. E allora viene in mente un antico detto: quando il saggio indica la luna gli stolti guardano il dito. Dobbiamo essere consapevoli che viviamo tempi di economicismo cronico, in cui ogni aspetto della vita viene letto attraverso il metro del denaro. Questa deviazione valoriale potrebbe indurre a considerare l’esclusione come un fatto economico – vuoi che ne sia la causa o l’effetto. Ma la luna che l’Indice ci invita a guardare è altrove. Sta all’intersezione di tre parole spesso abusate ma ancora necessarie: pace sociale, sviluppo, mobilità. Tre parole che misurano, a modo loro, la salute di una democrazia e che posizionano il tema dell’esclusione nelle orbite dell’economia, certo, ma anche della politica, della società, della demografia. Un indice è, per definizione, un numero sintetico. E come ogni numero, ha una virtù e un limite. La virtù è quella di rendere il reale leggibile. Il limite, come ricordava Einstein, è che “non tutto ciò che conta può essere contato, e non tutto ciò che può essere contato, conta”. I numeri ci rassicurano: sembrano oggettivi, stabili, scientifici, ma, come gli specchi, riflettono sempre da un certo angolo, perdendo le prospettive differenti. Un indice è, dunque, una convenzione logico-razionale, non una verità rivelata.
La mappa lunare cui l’indice punta
L’Indice di Esclusione ci racconta che l’Italia è un Paese diseguale nei diritti, non solo nel reddito, o nel lavoro, ma nell’accesso ai servizi, nella salute, nella fiducia nelle istituzioni, nella possibilità stessa di progettare un futuro. Un grande studioso, Amartya Sen, sostiene che “la povertà non è mancanza di reddito, ma di libertà sostanziali – la capacità di scegliere, di agire, di partecipare”. È proprio questa la scena che l’Indice vuole richiamare alla nostra attenzione (e cura). Il Trentino Alto Adige, con un indice di 93,9, vive in una condizione di inclusione solida. La Calabria, con 109,3, occupa il polo opposto. Non è una differenza statistica: è una diversa esperienza di cittadinanza.
I diritti costituzionali non sono accessibili a tutti, escludono alcuni e agli altri lasciano solo una possibilità: la mobilità
Che cosa emerge, dunque, da questa grande operazione di misurazione? In superficie, emerge la fotografia (ben nota) di un Paese disomogeneo, dove i diritti viaggiano a velocità diverse. Ma in profondità emerge qualcos’altro: il mancato successo dell’unità nazionale. I diritti costituzionali non sono distribuiti bene, non sono accessibili a tutti, escludono alcuni (molti) e agli altri lasciano solo una possibilità: la mobilità. Chi può, parte. E così, interi territori si svuotano: non di risorse, ma di speranze. Così l’esclusione diventa una povertà che si autogenera, autoalimenta e moltiplica, in un circolo di causazione circolare: povertà economica che crea quella sociale, che ne genera di culturale e viceversa, fino a desertificare i territori e impoverirne la popolazione – una povertà multipla, insomma, che proprio non appare desiderabile.
L’indice di esclusione non è un esercizio statistico, ma un atto etico: ci ricorda che la misurazione più importante resta quella dell’impegno a cambiare ciò che essi rivelano
Ancora Paul Samuelson scriveva che “la buona economia è, in fondo, buona etica tradotta in numeri”. Se ciò è vero ancora oggi, allora questo indice non è un esercizio statistico, ma un atto etico. Ci ricorda che i numeri non sono mai neutri, e che la misurazione più importante resta quella del nostro impegno a cambiare ciò che quei numeri rivelano. Ci dice che un numero come questo misura la distanza tra ciò che siamo e ciò che la nostra Costituzione ci chiede di essere. E questa non si colma se non con la politica, che resta l’unica in grado di farlo.
*Alberto Mattiacci, Presidente del Comitato Scientifico dell’Eurispes.