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Perché continui a fare un lavoro che non ti piace?

di
Andrea Laudadio*

Perché tante persone restano in lavori che le rendono infelici o che detestano? La risposta si trova nell’intersezione tra economia comportamentale, psicologia cognitiva e dinamiche organizzative.

La trappola dei costi irrecuperabili e “l’impotenza appresa”

La permanenza in contesti lavorativi insoddisfacenti trova il primo ostacolo nelle distorsioni del pensiero. La sunk cost fallacy – l’errore dei costi irrecuperabili – spinge a continuare un’attività per non “sprecare” investimenti passati di tempo ed energia (Arkes & Blumer, 1985). Molti professionisti rimangono in carriere deludenti per non perdere tutto “l’investimento” e i sacrifici fatti. L’assurdo è che più si sono sacrificati, più fanno fatica a riconoscere che quel posto li sta prosciugando, con l’eterna promessa di una ricompensa che forse non arriverà. Anche le angherie eventualmente subite sul lavoro entrano in risonanza con la tendenza umana all’impotenza appresa (learned helplessness). Teorizzata da Seligman nel 1967, descrive come l’esposizione a situazioni negative incontrollabili porti a smettere di tentare cambiamenti, anche quando diventano possibili (Seligman & Maier, 1967). Nel workplace si manifesta attraverso politiche oppressive, manager tossici, scadenze irrealistiche. L’esposizione prolungata produce riduzione dell’autonomia percepita e deterioramento cognitivo (Carlson & Kacmar, 1994). Più siamo esposti ad angherie, più pensiamo di di non avere alternative. Il risultato? Restiamo dove siamo.

L’avversione alla perdita e il bias dello status quo

Questo meccanismo si amplifica attraverso la loss avversion – l’avversione alla perdita – principio cardine della Prospect Theory. Kahneman e Tversky (1979) hanno dimostrato che le perdite pesano psicologicamente il doppio dei guadagni equivalenti. Abbandonare benefici conosciuti appare una perdita certa, mentre i vantaggi di un nuovo impiego restano solo ipotetici. Lo status quo bias aggiunge un ulteriore strato di inerzia. Samuelson e Zeckhauser (1988) documentano come la preferenza per mantenere la situazione attuale sia guidata da tre fattori: paura dell’incertezza, sforzo cognitivo richiesto per valutare alternative e framing effect. Il modo in cui una scelta viene presentata influenza la decisione: lasciare il lavoro viene percepito come perdita anziché opportunità. Il bias dello status quo opera attraverso diversi meccanismi psicologici, inclusa l’avversione alla perdita, l’inerzia cognitiva e la regret avoidance – il timore del rimpianto. Come conferma la neurobiologia, il cervello privilegia automatismi per minimizzare il carico cognitivo (Bargh & Chartrand, 1999). Per fare meno fatica, facciamo la scelta più faticosa!

Identità organizzativa e contratto psicologico

La dimensione identitaria rappresenta un vincolo potente per quanto riguarda il proprio lavoro. L’organizational identification descrive l’integrazione dell’appartenenza aziendale nel senso di sé (Ashforth et al., 2008). Ashforth, Harrison e Corley spiegano come questo soddisfi bisogni di definizione identitaria, appartenenza e autostima. Lasciare l’organizzazione equivale a perdere una parte di sé, generando dissonanza cognitiva (Festinger, 1957). La violazione del psychological contract – le aspettative reciproche non scritte tra dipendente e datore – crea paradossalmente ritenzione attraverso due meccanismi. Primo: cognitive dissonance. Per ridurre il disagio psicologico, i dipendenti razionalizzano la permanenza (“forse non era così grave”, “in altri posti è peggio”). Secondo: escalation of commitment. Avendo già investito nella relazione, si aumenta l’investimento per “recuperare” il patto implicito infranto, sperando in un futuro ribilanciamento.

La forza più potente: il radicamento lavorativo

Ma la catena che ci trattiene al nostro lavoro, più potente di tutte, è la Job Embeddedness – il radicamento lavorativo. Introdotto nel 2001 da Terence R. Mitchell e colleghi, il concetto di Job Embeddedness descrive non l’attaccamento affettivo all’azienda, ma una rete di legami che rendono difficile andarsene (Mitchell et al., 2001). A differenza della soddisfazione o dell’impegno organizzativo, che riflettono il desiderio di restare, la Job Embeddedness cattura i vincoli strutturali e contestuali. La ricerca ha dimostrato che predice il turnover volontario meglio degli indicatori attitudinali tradizionali (Mitchell et al., 2001). Non restiamo necessariamente perché amiamo il nostro lavoro, ma perché la nostra vita è intrecciata con esso in modi che vanno ben oltre la busta paga. Dalle amicizie coltivate in ufficio alla casa acquistata vicino al posto di lavoro. Dai progetti in cui abbiamo investito energie alla scuola dei figli nel quartiere.

Le sei dimensioni del Job Embeddedness

La teoria si basa su tre pilastri fondamentali, declinati sia all’interno dell’organizzazione (on-the-job) sia nella comunità esterna (off-the-job), producendo una concettualizzazione a sei dimensioni. Links – i legami. Sono le connessioni formali e informali tra la persona e l’organizzazione o la comunità. Sul lavoro: relazioni con colleghi, partecipazione a team e comitati, rapporti con clienti. Nella comunità: reti familiari, amicizie, coinvolgimento in associazioni, legami religiosi. Più legami esistono, più difficile diventa reciderli tutti contemporaneamente per cambiare lavoro. Fit – la compatibilità. Misura quanto la persona si senta a suo agio nell’organizzazione e nella comunità. Sul lavoro: allineamento tra valori personali e cultura aziendale, compatibilità tra competenze e mansioni, congruenza con obiettivi organizzativi. Nella comunità: clima, servizi disponibili, qualità della vita percepita. Un buon fit crea senso di appartenenza che rende psicologicamente costoso allontanarsi. Sacrifice – il sacrificio. Rappresenta i costi materiali e psicologici associati all’abbandono. Sul lavoro: perdita di benefit, anzianità, stock options, progetti in corso, status acquisito. Nella comunità: necessità di vendere la casa, spostare la famiglia, perdere reti sociali consolidate. Maggiore il sacrificio percepito, minore la probabilità di lasciare, indipendentemente dalla soddisfazione.

La forza della Job Embeddedness risiede nell’interazione di queste sei dimensioni. Un individuo può essere insoddisfatto del capo (low fit organizzativo), ma trattenuto da colleghi affiatati (high links organizzativi), benefit irrinunciabili (high sacrifice organizzativo) e dal fatto che il coniuge lavora nella stessa città e i figli sono inseriti a scuola (links e sacrifice comunitari).

L’evidenza empirica

La più grande meta-analisi sul tema, condotta da Jiang e colleghi su 65 studi per un totale di quasi 43.000 partecipanti, ha confermato la validità del modello (Jiang et al., 2012). I risultati hanno rivelato che sia il radicamento organizzativo sia quello comunitario predicono la permanenza, anche controllando per soddisfazione lavorativa, impegno affettivo e alternative disponibili. Gli effetti sono risultati più forti nei campioni a maggioranza femminile e nelle organizzazioni pubbliche (Jiang et al., 2012). Studi recenti hanno confermato questi pattern in contesti culturali diversi. La ricerca longitudinale in Giappone ha evidenziato come genere e avversione al rischio moderino la relazione tra radicamento e intenzioni di turnover (Peltokorpi et al., 2015).

Job Embeddedness, verso una consapevolezza operativa

La consapevolezza di questi meccanismi è il primo passo per riprendere agencycapacità di agire intenzionalmente. Per il lavoratore, mappare la propria Job Embeddedness significa condurre un’analisi fenomenologica dei propri legami, compatibilità e sacrifici. Non si tratta di rispondere superficialmente alla domanda “sono soddisfatto?”, ma di investigare sistematicamente: quali legami mi trattengono realmente? La compatibilità che percepisco è autentica o frutto di razionalizzazione post-hoc? Quali sacrifici temo veramente e quali sono amplificati dalla loss aversion? Questa mappatura richiede un metodo strutturato. Primo: documentare per iscritto tutte e sei le dimensioni, assegnando a ciascun elemento un peso soggettivo. Secondo: distinguere tra vincoli oggettivi (un mutuo, l’età dei figli) e vincoli cognitivi (paura del giudizio altrui, sopravvalutazione dei costi di uscita). Terzo: identificare quali dimensioni del radicamento sono modificabili nel breve-medio termine. Un legame comunitario forte può essere gradualmente ricreato altrove; un sacrifice elevato può essere ridotto attraverso pianificazione finanziaria; un fit organizzativo basso può essere temporaneamente tollerato se contestualizzato in una strategia di uscita temporizzata.

Insoddisfazione o disallineamento: la mappatura della Job Embeddedness permette di diagnosticare quale delle due condizioni si sta sperimentando

La distinzione tra insoddisfazione contingente e disallineamento strutturale è cruciale. L’insoddisfazione contingente risponde a interventi correttivi nell’ambiente attuale. Il disallineamento strutturale – quando i propri valori fondamentali, competenze o aspirazioni sono incompatibili con l’organizzazione – richiede invece un cambiamento di contesto. La mappatura della Job Embeddedness permette di diagnosticare quale delle due condizioni si sta sperimentando. Per le organizzazioni, comprendere la Job Embeddedness offre strumenti di retention più sofisticati del semplice aumento di stipendio. Rafforzare i legami interni attraverso comunità di pratica, mentoring strategico, ownership di progetti significativi. Migliorare la compatibilità valoriale rendendo esplicita e operativa la cultura organizzativa. Aumentare il sacrificio percepito costruendo percorsi di carriera non lineari ma significativi, benefit personalizzati che rispondano a bisogni specifici dei dipendenti in diverse fasi di vita (Mitchell et al., 2001). Riconoscere l’importanza della dimensione comunitaria significa supportare i dipendenti trasferiti nell’inserimento sociale e familiare, facilitando connessioni locali, offrendo flessibilità nella fase di transizione, costruendo ponti tra vita professionale e comunitaria (Peltokorpi et al., 2015).

La rete come mappa, non come destino

Restare in un lavoro che non ci soddisfa non è quasi mai una scelta dettata da un singolo fattore, ma il risultato di una complessa interazione di forze che ci ancorano alla nostra situazione attuale. La Job Embeddedness ci fornisce una mappa scientifica per comprendere questa rete, mostrandoci come i fili della nostra vita professionale, sociale e personale si intreccino in una trama difficile da disfare (Jiang et al., 2012). Ma ogni rete, per quanto robusta, è pur sempre tessuta da noi. Conoscerne la struttura è il primo, indispensabile passo per decidere se rinforzarla o iniziare, con pazienza e metodo, a disfarne i nodi. La differenza tra essere intrappolati e essere radicati non sta nella rete stessa, ma nella consapevolezza con cui la abitiamo.

*Andrea Laudadio è a capo della Formazione e Sviluppo di TIM e dirige la TIM Academy.

Bibliografia

Arkes, H. R., & Blumer, C. (1985). The psychology of sunk cost. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 35(1), 124–140. https://doi.org/10.1016/0749-5978(85)90049-4

Ashforth, B. E., Harrison, S. H., & Corley, K. G. (2008). Identification in organizations: An examination of four fundamental questions. Journal of Management, 34(3), 325–374. https://doi.org/10.1177/0149206308316059

Bargh, J. A., & Chartrand, T. L. (1999). The unbearable automaticity of being. American Psychologist, 54(7), 462–479. https://doi.org/10.1037/0003-066X.54.7.462

Carlson, D. S., & Kacmar, K. M. (1994). Learned helplessness as a predictor of employee outcomes: An applied model. Human Resource Management Review, 4(3), 235–252. https://doi.org/10.1016/1053-4822(94)90014-0

Festinger, L. (1957). A theory of cognitive dissonance. Stanford University Press.

Jiang, K., Liu, D., McKay, P. F., Lee, T. W., & Mitchell, T. R. (2012). When and how is job embeddedness predictive of turnover? A meta-analytic investigation. Journal of Applied Psychology, 97(5), 1077–1096. https://doi.org/10.1037/a0028610

Kahneman, D., & Tversky, A. (1979). Prospect theory: An analysis of decision under risk. Econometrica, 47(2), 263–291. https://doi.org/10.2307/1914185

Mitchell, T. R., Holtom, B. C., Lee, T. W., Sablynski, C. J., & Erez, M. (2001). Why people stay: Using job embeddedness to predict voluntary turnover. Academy of Management Journal, 44(6), 1102–1121. https://doi.org/10.5465/3069391

Peltokorpi, V., Allen, D. G., & Froese, F. J. (2015). Organizational embeddedness, turnover intentions, and voluntary turnover: The moderating effects of employee demographic characteristics and value orientations. Journal of Organizational Behavior, 36(2), 292–312. https://doi.org/10.1002/job.1981

Samuelson, W., & Zeckhauser, R. (1988). Status quo bias in decision making. Journal of Risk and Uncertainty, 1(1), 7–59. https://doi.org/10.1007/BF00055564

Seligman, M. E. P., & Maier, S. F. (1967). Failure to escape traumatic shock. Journal of Experimental Psychology, 74(1), 1–9. https://doi.org/10.1037/h0024514

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