La gerarchia, uno dei princìpi organizzativi più antichi della civiltà umana, sta mostrando segni di profonda crisi. Questo archetipo strutturale che ha plasmato imperi, eserciti, religioni e imprese per millenni ‒ definito come un “ordine scalare di competenze, poteri e posizioni di status” ‒ risponde al principio fondamentale della subordinazione di un rango inferiore a uno superiore. L’etimologia stessa del termine, derivante dal greco hierárchēs (composto da hierós, sacro, e árchein, comandare), ne svela la natura quasi sacrale, un principio di ordine cosmico prima ancora che sociale. Nelle aziende, la gerarchia ha sempre svolto una funzione primaria: integrare e riportare a unità ciò che il processo di differenziazione e divisione del lavoro ha separato. Questo modello, un tempo sinonimo di stabilità ed efficienza, vacilla sotto i colpi di una generazione che non si riconosce più nelle sue logiche.
La Gen Z e il rifiuto della gerarchia
La crisi arriva dalla Generazione Z, i nati tra il 1997 e il 2012. Non si tratta di una semplice differenza generazionale, ma di un cambio di paradigma nelle aspettative lavorative. Alla Gen Z la gerarchia tradizionale semplicemente non piace. Come non piacciono l’assenza di feedback, la mancanza di work-life balance o la scarsa autonomia decisionale. La preferenza è per un purpose-driven work, flessibilità di orari e leadership trasformazionali. Una delle scoperte più significative della ricerca contemporanea è l’emergere del fenomeno denominato “conscious unbossing”, la scelta deliberata della Gen Z di evitare o rifiutare ruoli di middle management tradizionale. Le statistiche sono sorprendenti: il 52% dei professionisti Gen Z non desidera assumere ruoli di middle management, preferendo invece percorsi di crescita come contributor individuali. Il 69% considera questi ruoli caratterizzati da alto stress e basse ricompense, mentre il 72% preferirebbe progredire nella propria carriera concentrandosi sullo sviluppo di competenze individuali piuttosto che sulla gestione di altri. La preferenza è per modelli organizzativi piatti, dove sparisce il middle management. Strutture che prioritizzano la collaborazione, la leadership empatica e i processi decisionali inclusivi. Ma se la gerarchia è in crisi, cosa ci mettiamo al suo posto? L’anarchia? No. L’opposto di gerarchia non è anarchia, ma eterarchia.
Che cos’è l’eterarchia: dai neuroni ai rizomi organizzativi
L’eterarchia non è semplicemente una “struttura piatta” o l’opposto speculare della gerarchia. Si tratta di un paradigma organizzativo distinto e sofisticato, dove l’autorità è distribuita, le relazioni sono basate sull’interdipendenza e le strutture di potere sono multiple, fluide e mutevoli a seconda del contesto. Come ha osservato David Stark (2009), sociologo della Columbia University, l’eterarchia non è l’assenza di ordine, ma un ordine di tipo diverso, più complesso e dinamico. Il termine fu coniato nel 1945 dal neurofisiologo Warren McCulloch che, studiando il sistema nervoso, si rese conto che le reti neurali non erano organizzate secondo una rigida gerarchia di comando. Osservò invece pattern di attivazione circolari, feedback loops e meccanismi di controllo distribuito che sfidavano la logica gerarchica tradizionale. Per descrivere questo sistema, McCulloch introdusse il neologismo “eterarchia”, sostituendo il prefisso greco hieros (sacro) con heteros (altro, diverso). Un’immagine potente per comprendere l’eterarchia viene dalla botanica: mentre la gerarchia assomiglia a un albero con radici, tronco e rami in una struttura verticale ordinata, l’eterarchia ricorda piuttosto un rizoma. Come le piante rizomatiche ‒ si pensi al bambù o alle fragole ‒ che si espandono orizzontalmente sottoterra creando una rete di connessioni senza un centro dominante, le organizzazioni eterarchiche sviluppano network di relazioni laterali dove ogni nodo può diventare temporaneamente centrale a seconda delle necessità.
L’eterarchia nelle organizzazioni moderne
Il concetto rimase confinato alla neurofisiologia fino al 1979, quando l’antropologa Carole Crumley lo trasferì alle scienze sociali per analizzare società complesse che non si conformavano al modello gerarchico standard. Crumley definì i sistemi eterarchici come quelli in cui gli elementi sono «non-classificati, o possiedono il potenziale di essere classificati in diversi modi, a seconda dei requisiti sistemici». Il contributo dell’archeologia e dell’antropologia è stato fondamentale per comprendere come l’eterarchia non sia un’invenzione moderna ma un principio organizzativo presente nelle società umane da millenni. Gli studi archeologici sui sistemi di insediamento celtico in Borgogna condotti da Crumley, per esempio, rivelarono pattern di organizzazione territoriale che non seguivano la logica centro-periferia tipica degli Stati gerarchici, ma mostravano invece forme di policentricità e specializzazione funzionale. Similmente, Ehrenreich e colleghi (1995) hanno documentato come le civiltà Maya del periodo classico utilizzassero strutture eterarchiche per gestire la complessità sociale e politica, con centri di potere multipli che si attivavano secondo le circostanze.
L’eterarchia contribuisce alla flessibilità ma logiche organizzative multiple richiedono nuove forme di governance
Stark ha ulteriormente sviluppato il concetto studiando le trasformazioni post-socialiste nell’Europa dell’Est. Le sue ricerche hanno rivelato che le organizzazioni eterarchiche operano secondo quello che definisce “princìpi organizzativi multipli”. Una società di consulenza, per esempio, può operare simultaneamente secondo princìpi meritocratici per la valutazione delle performance, democratici per certe decisioni strategiche, e di mercato per l’allocazione delle risorse, senza che nessuno di questi princìpi domini completamente gli altri. Questa molteplicità non è caos, ma “organizzazione della dissonanza”. Come osserva Stark: «L’eterarchia contribuisce alla flessibilità; ma l’intreccio di multiple logiche di giustificazione pone nuovi problemi di accountability». La tensione tra flessibilità e controllo non è un difetto da correggere, ma una caratteristica intrinseca che richiede nuove forme di governance.
Eterarchia, policentricità e autopoiesi: distinzioni cruciali
Per comprendere appieno l’eterarchia, è essenziale distinguerla da concetti affini ma distinti. La policentricità, sviluppata da Vincent ed Elinor Ostrom (1961), descrive sistemi con «molti centri di decisione formalmente indipendenti». Mentre un sistema eterarchico è spesso policentrico, l’eterarchia va oltre: non si limita alla molteplicità dei centri decisionali, ma enfatizza come l’autorità e il potere si spostino dinamicamente tra questi centri a seconda del contesto. L’autopoiesi, concetto elaborato da Maturana e Varela (1980), descrive sistemi che si auto-producono e mantengono la propria identità attraverso processi ricorsivi interni. Mentre l’autopoiesi enfatizza la chiusura operativa e il mantenimento dell’identità sistemica, l’eterarchia si concentra sull’apertura strutturale e sui meccanismi di controllo distribuito che permettono al sistema di adattarsi all’ambiente. Un sistema eterarchico può essere autopoietico nel senso che mantiene la propria coerenza organizzativa, ma la sua caratteristica distintiva è la capacità di riconfigurare dinamicamente le relazioni di potere interne.
Come funziona l’eterarchia nella pratica
Un esempio illuminante viene dalle organizzazioni di ricerca e sviluppo nelle aziende high-tech. Diversi laboratori operano con autonomia significativa (policentricità), ma la leadership e l’autorità decisionale si spostano dinamicamente a seconda del progetto, della fase di sviluppo e delle competenze specifiche richieste. Un ingegnere junior può assumere autorità decisionale su un aspetto tecnico specifico, mentre un manager senior può trovarsi in posizione subordinata rispetto a quella competenza. Le comunità open source rappresentano forse l’esempio più puro di eterarchia in azione. Come hanno dimostrato Taylor e colleghi (2019), progetti come Linux o Apache operano senza una gerarchia formale, ma attraverso meccanismi di “accountability laterale” dove la responsabilizzazione è distribuita attraverso reti di relazioni peer-to-peer. L’autorità emerge dalla competenza e dal contributo, non dalla posizione formale. Anche nel settore militare, tradizionalmente associato a rigide gerarchie, emergono forme eterarchiche. Aime (2014) ha documentato come le forze speciali utilizzino strutture eterarchiche durante le operazioni, dove l’autorità si sposta dinamicamente in base alle competenze specifiche richieste dal contesto operativo.
L’eterarchia nell’era dell’intelligenza artificiale e del lavoro ibrido
Un aspetto cruciale che merita approfondimento è come l’eterarchia si stia evolvendo nell’era digitale. La pandemia ha accelerato la transizione verso modelli di lavoro ibrido che sono intrinsecamente eterarchici: la leadership virtuale si sposta continuamente tra chi ha maggiore competenza tecnologica, chi gestisce meglio le relazioni a distanza, chi coordina fusi orari diversi. In questo contesto, l’autorità tradizionale basata sulla presenza fisica in ufficio è diventata obsoleta. L’intelligenza artificiale sta introducendo un ulteriore livello di complessità. Nelle organizzazioni più avanzate, algoritmi di AI partecipano ai processi decisionali creando quello che potremmo definire “eterarchia uomo-macchina”. Un sistema di AI può avere autorità decisionale su certi aspetti operativi mentre rimane subordinato alle decisioni strategiche umane, ma questa relazione può invertirsi quando l’AI possiede informazioni o capacità analitiche superiori in specifici domini. Come notano Brynjolfsson e McAfee (2014), questa integrazione richiede un ripensamento fondamentale di cosa significhi autorità e competenza in un’organizzazione.
Il paradosso della leadership eterarchica
Uno degli aspetti più paradossali e affascinanti dell’eterarchia riguarda la leadership. I leader nelle organizzazioni eterarchiche devono possedere quella che potremmo chiamare “autorità paradossale”: abbastanza forte da creare le condizioni per la distribuzione del potere, abbastanza saggia da sapere quando farsi da parte. È una forma di leadership che richiede simultaneamente forza e vulnerabilità, decisione e apertura al dubbio. Questo tipo di leadership ricorda il concetto taoista del “wu wei” ‒ l’azione attraverso la non-azione. Il leader eterarchico non comanda ma facilita, non impone ma permette l’emergere di soluzioni dal basso. È una competenza rara che richiede una profonda trasformazione personale, ben oltre le tecniche manageriali tradizionali. Laloux (2014) nel suo studio sulle “organizzazioni Teal” ha documentato come questa forma di leadership emerga naturalmente quando le organizzazioni evolvono verso forme più eterarchiche.
Il lato oscuro dell’eterarchia: manipolazione e pseudo-partecipazione
Non possiamo ignorare i rischi dell’eterarchia mal implementata. Alcune organizzazioni utilizzano retoricamente il linguaggio dell’eterarchia per mascherare forme sofisticate di controllo. La “pseudo-eterarchia” può diventare più oppressiva della gerarchia tradizionale, creando l’illusione della partecipazione mentre il potere reale rimane concentrato. Questo fenomeno, che potremmo chiamare “eterarchia di facciata”, richiede vigilanza critica e meccanismi di verifica dell’autenticità distributiva del potere. Il caso di alcune aziende tecnologiche che proclamano strutture “flat” mentre mantengono concentrazioni di potere informale è emblematico. Come documenta Kunda (1992), la cultura aziendale può diventare uno strumento di controllo più sottile ma non meno efficace della gerarchia tradizionale, creando quello che definisce “controllo normativo” dove i dipendenti interiorizzano le aspettative aziendali credendo di agire autonomamente.
Le sfide dell’eterarchia
Le criticità dell’eterarchia non si limitano alla sua implementazione distorta. Griffin (2007) ha identificato quello che definisce “diffusion of responsibility paradox”: mentre la distribuzione dell’autorità aumenta flessibilità ed engagement, rende anche più difficile identificare responsabilità specifiche quando le cose vanno male. Questo paradosso è particolarmente problematico in contesti dove l’accountability esterna è cruciale. Jarvis (2016) ha documentato come molte startup che avevano adottato strutture eterarchiche hanno dovuto “ri-gerarchizzare” certe funzioni ‒ particolarmente quelle relative alla gestione finanziaria e alla compliance legale ‒ per soddisfare requisiti esterni di accountability. Questo suggerisce che l’eterarchia pura potrebbe essere incompatibile con certi aspetti dell’ambiente istituzionale civi
ontemporaneo. Kumar e Mukherjee (2018) hanno enfatizzato l’importanza dell’”allineamento cultura-struttura” come fattore critico di successo. Il loro studio ha mostrato che l’adozione di strutture eterarchiche senza corrispondenti cambiamenti culturali porta spesso a “pseudo-eterarchia”, strutture formalmente distribuite ma informalmente gerarchiche.
Verso modelli organizzativi ibridi
La ricerca più recente suggerisce che la dicotomia gerarchia-eterarchia rappresenta una falsa scelta. Lee (2013) ha mostrato che le organizzazioni più efficaci combinano elementi gerarchici ed eterarchici in configurazioni specifiche: le decisioni strategiche a lungo termine tendono a rimanere gerarchiche per garantire coerenza, mentre le decisioni operative e innovative beneficiano di approcci eterarchici. Chakravarthy e Henderson (2007) hanno sviluppato il concetto di “ambidextrous organizations” per descrivere organizzazioni che riescono a combinare efficacemente exploration (tipicamente eterarchica) ed exploitation (tipicamente gerarchica). La sfida non è scegliere tra gerarchia ed eterarchia, ma sviluppare quella che potremmo definire “ambidestria strutturale”, la capacità, cioè, di attivare dinamicamente configurazioni organizzative diverse a seconda delle esigenze.
Navigare la complessità del XXI secolo
L’eterarchia non è una panacea organizzativa né la fine della gerarchia. Rappresenta, piuttosto, un’evoluzione necessaria per navigare la complessità del mondo contemporaneo. Come i rizomi che si espandono sottoterra creando reti resilienti e adattive, le organizzazioni eterarchiche sviluppano capacità di rispondere a sfide complesse attraverso l’intelligenza distribuita e l’autorità contestuale. La Gen Z, con il suo rifiuto delle strutture tradizionali, non sta semplicemente esprimendo un capriccio generazionale. Sta anticipando un futuro dove la capacità di adattarsi rapidamente, di valorizzare competenze diverse e di distribuire l’autorità in modo dinamico sarà essenziale per la sopravvivenza organizzativa. La vera sfida per le organizzazioni del XXI secolo non è demolire le piramidi gerarchiche per sostituirle con network piatti, ma sviluppare la sofisticazione necessaria per orchestrare dinamicamente diversi princìpi organizzativi. In un mondo caratterizzato da complessità crescente e cambiamento accelerato, la rigidità della pura gerarchia è un lusso che non possiamo più permetterci. Ma nemmeno il caos dell’assenza di struttura è una soluzione. L’eterarchia, con la sua promessa di ordine multiplo e adattivo, potrebbe essere la chiave per costruire organizzazioni capaci di prosperare nell’incertezza.
*Andrea Laudadio è a capo della Formazione e Sviluppo di TIM e dirige la TIM Academy.
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