Ti hanno appena promosso. Finalmente! Dopo anni di impegno e sacrifici, hai ottenuto quel ruolo di responsabilità che sognavi. Ti senti il simbolo vivente della meritocrazia: il talento, il lavoro duro e la costanza sono stati riconosciuti. La tua prima decisione da neopromosso è una di quelle che segnano: devi scegliere un nuovo collaboratore. L’ufficio HR ti presenta tre candidati. Nessuna istruzione precisa, solo una raccomandazione: “Scegli il tuo criterio”. Decidi che il criterio sarà il merito. Solo il merito. Il primo ha frequentato scuole prestigiose grazie alla sua famiglia benestante, vanta un curriculum impeccabile con master all’estero e stage in multinazionali facilitate dai contatti dei genitori, parla fluentemente tre lingue apprese durante soggiorni internazionali. Il secondo è emerso da un contesto di grave svantaggio socioeconomico, ha studiato lavorando contemporaneamente per mantenersi, mostrando una resilienza straordinaria. Non ha potuto permettersi esperienze all’estero o stage non retribuiti, ma ha dimostrato capacità notevoli nel risolvere problemi complessi con risorse limitate. Il terzo ha un percorso formativo nella media, ma ha sviluppato competenze tecniche eccezionali attraverso l’autoapprendimento e la sperimentazione, ha fondato due startup fallite da cui ha tratto insegnamenti preziosi, mostra capacità di innovazione e pensiero laterale fuori dal comune. Ti blocchi. Quel concetto di “merito” che ti ha guidato fin qui, che hai interiorizzato come bussola infallibile, ora ti appare improvvisamente scivoloso. Sei tentato di cedere ad altri criteri: l’utilità per te di ciascuno di loro oppure le probabilità che si candidino, un giorno non troppo lontano, per il tuo ruolo (è umano!) oppure le probabilità che ti siano o meno leali. Con qualcuno sei entrato in particolare “risonanza” la sua storia era simile alla tua. È forse questo un criterio di merito? Sei tu stesso la misura del merito?
L’ideologia meritocratica si fonda su una pretesa di oggettività che è scientificamente insostenibile
Chi “merita” la posizione secondo criteri puramente meritocratici? La domanda è un trabocchetto epistemologico. Come hanno dimostrato studiosi come Markovits (2019) e Sandel (2020), l’ideologia meritocratica si fonda su una pretesa di oggettività che è scientificamente insostenibile. La risposta dipende interamente da ciò che definiamo come “merito”: un costrutto tutt’altro che neutrale. Secondo ricerche empiriche condotte da Dekkers e collaboratori (2022), la definizione stessa di merito è fortemente influenzata dalle posizioni socioeconomiche di chi valuta. Chi occupa posizioni privilegiate tende a sopravvalutare fattori legati a percorsi formativi d’élite e sottovalutare l’impatto delle barriere strutturali. Un circolo vizioso che perpetua e giustifica lo status quo. Questo scenario non è un esercizio astratto. Rappresenta il cuore teorico e pratico del fallimento meritocratico, rivelando come la pretesa oggettività del merito sia in realtà un artificio ideologico che legittima disuguaglianze preesistenti.
Meritocrazia, anatomia di un falso mito
Contrariamente alla vulgata popolare, il termine “meritocrazia” non nacque come ideale aspirazionale ma come distopia. Fu il sociologo britannico Michael Young a coniarlo nel 1958 nel suo libro The Rise of the Meritocracy, descrivendolo come un sistema sociale in cui una nuova élite, selezionata attraverso test d’intelligenza e valutazioni di performance, esercitava un dominio ancor più rigido delle vecchie aristocrazie ereditarie. Young immaginava una società futura dove l’equazione “Q.I. + sforzo = merito” creava una stratificazione sociale che, mascherandosi dietro criteri apparentemente oggettivi, risultava ancor più difficile da contestare. L’aspetto più sottile della critica di Young – e troppo spesso dimenticato – è che la meritocrazia non elimina i privilegi, semplicemente li giustifica attraverso un nuovo linguaggio morale. Come sottolineato recentemente da Clarke e collaboratori (2024), i leader organizzativi perpetuano il “mito meritocratico” attraverso tre interventi discorsivi: rendendo invisibili le disuguaglianze di genere e classe, negando i vincoli strutturali e problematizzando la stessa idea di meritocrazia quando viene messa in discussione.
La narrativa del merito varia notevolmente tra paesi, dimostrando che di oggettivo c’è poco e che invece prevale la dimensione culturale
La ricerca empirica ha sistematicamente dimostrato che la formula meritocratica comunemente accettata: “Talento × Impegno = Successo” è scientificamente falsa. Studi condotti da Côté (2022) hanno evidenziato come una rappresentazione più accurata dei meccanismi che determinano il successo socioeconomico sarebbe: “Talento × Impegno × Capitale sociale × Opportunità strutturali × Circostanze casuali = Successo”. Questa formula più complessa trova conferma in molteplici studi longitudinali. Le ricerche di Zhu (2024) hanno rivelato come esistano tre distinte narrative meritocratiche nelle diverse società: credenze puramente meritocratiche, credenze prevalentemente meritocratiche e “dual consciousness” (la consapevolezza delle contraddizioni tra ideale meritocratico e realtà strutturali). Significativamente, la prevalenza di queste narrative varia notevolmente tra paesi, con importanti differenze cross-nazionali tra Stati Uniti, Finlandia e Cina, dimostrando che di oggettivo nel merito c’è poco ma che invece prevale la dimensione culturale (sociale e individuale). Come dimostrato dalle analisi di Castilla e Ranganathan (2020), persino nelle organizzazioni che si proclamano meritocratiche, la valutazione stessa del merito è profondamente influenzata dalle esperienze personali dei manager. Chi valuta tende a riprodurre i parametri attraverso cui è stato a sua volta valutato, creando un circolo di autoperpetuazione che raramente viene messo in discussione.
Psicologia della falsa meritocrazia
Uno degli aspetti più affascinanti della ricerca contemporanea sulla meritocrazia riguarda le differenze psicologiche che emergono tra individui provenienti da background socioeconomici diversi. Queste differenze non sono “naturali” ma rappresentano adattamenti razionali a contesti differenti. Gli studi di Hong e collaboratori (2024) hanno rivelato modelli distintivi nell’elaborazione emotiva: persone di classe sociale inferiore tendono a manifestare maggiore affettività negativa (ansia, tristezza), mentre quelle di classe sociale superiore sperimentano più frequentemente emozioni positive autocentrate (orgoglio, contentezza). Questi pattern emotivi influenzano significativamente il benessere psicologico, la resilienza e la gestione dello stress nei contesti lavorativi. Particolarmente rilevante è la ricerca sul “locus of control” (percezione di controllo). Kish-Gephart e collaboratori (2023) hanno dimostrato che individui cresciuti in ambienti socioeconomici svantaggiati tendono a sviluppare un locus di controllo più esterno – la percezione che gli eventi siano determinati principalmente da forze esterne come fortuna, destino o azioni di altri. Questo non è un “difetto” ma un adattamento razionale: crescere in contesti con risorse limitate, dove gli eventi negativi sono frequenti e imprevedibili, insegna che molti aspetti della vita sono fuori dal controllo individuale. Il paradosso è che questa differenza, radicata in esperienze reali, viene interpretata attraverso la lente individualistica dominante nelle organizzazioni. Anziché riconoscere il locus di controllo esterno come adattamento razionale a circostanze strutturali, viene spesso percepito come carenza personale di motivazione, ambizione o resilienza.
Emergono evidenti differenze psicologiche tra individui provenienti da background socioeconomici diversi
Markus e Carey (2017) hanno documentato come il concetto di sé vari significativamente in base alla classe sociale: persone di classe inferiore sviluppano un’identità più interdipendente, legata al contesto sociale, mentre quelle di classe superiore manifestano un’identità più indipendente, focalizzata su obiettivi personali. Queste differenze influenzano profondamente la percezione dell’identità professionale e le aspirazioni di carriera. L’implicazione più allarmante di queste ricerche è che il sistema meritocratico non solo fallisce nel creare condizioni di equa competizione, ma attivamente penalizza tratti psicologici che sono adattivi in contesti di scarsità. Come sottolineato da Na e collaboratori (2018), l’approccio contestualista e il focus su fattori esterni tipici delle classi meno privilegiate rappresentano strategie razionali in ambienti caratterizzati da incertezza e risorse limitate.
Il “class work”: meccanismo invisibile di perpetrazione
Gray e Kish-Gephart (2013) hanno identificato un fenomeno cruciale che chiamano “class work”, ovvero i processi attraverso cui le disuguaglianze di classe vengono mantenute nelle interazioni quotidiane sul posto di lavoro. Questo concetto illumina le pratiche quotidiane che perpetuano la stratificazione sociale nelle organizzazioni. Gli incontri tra persone di diverse classi sociali generano ansia e minacce all’identità. Un impiegato di estrazione operaia che interagisce con dirigenti di classe privilegiata può sperimentare un senso di inadeguatezza, mentre il dirigente può sentire la propria posizione sociale messa in discussione. La reazione più comune è normalizzare queste disuguaglianze, accettando la narrativa meritocratica come spiegazione naturale delle differenze di status. Con il tempo, queste pratiche individuali si cristallizzano in norme organizzative che mantengono le disuguaglianze attraverso barriere invisibili: linguaggi specialistici, aspettative comportamentali implicite, reti di networking esclusivo e accesso preferenziale alle opportunità. L’elemento più insidioso è che queste pratiche non appaiono discriminatorie ma vengono presentate come “standard professionali” neutri.
Si tende a normalizzare le disuguaglianze, accettando la narrativa meritocratica come spiegazione delle differenze di status
Le strategie di class work variano significativamente tra classi sociali. La classe privilegiata tende a minimizzare le differenze attraverso gesti paternalistici, evita contatti significativi con classi inferiori attraverso meccanismi di esclusività sociale. La classe media si impegna attivamente nel distinguersi dai gruppi meno privilegiati, enfatizzando credenziali educative e adottando selettivamente simboli culturali delle élite. La classe svantaggiata spesso accetta la narrativa meritocratica come unica spiegazione del proprio status, tenta di mascherare la propria origine sociale o adotta identità alternative basate su valori come l’etica del lavoro. L’omissione sistematica della classe sociale nei programmi aziendali di diversità e inclusione è particolarmente rivelatrice. Questa omissione non è casuale ma riflette la persistente influenza dell’ideologia meritocratica, che attribuisce il successo principalmente all’impegno e al talento individuali, oscurando il ruolo dei vantaggi strutturali.
La truffa epistemologica: misurare l’incommensurabile
Una delle critiche più profonde alla meritocrazia riguarda la presunta oggettività dei suoi criteri di valutazione. Gosepath (2024) ha evidenziato come il merito e la meritocrazia siano concettualmente incoerenti all’interno dei framework liberali, poiché le realizzazioni dipendono spesso da fattori moralmente arbitrari come genetica, circostanze sociali e accesso a risorse. L’ossessione per la misurazione rappresenta un aspetto centrale dell’ideologia meritocratica. I sistemi meritocratici privilegiano ciò che è facilmente quantificabile (punteggi dei test, indicatori di performance, credenziali formali) a scapito di qualità fondamentali ma difficilmente misurabili: creatività, intelligenza emotiva, pensiero critico, resilienza. Questa “tirannia della misurabilità” crea un bias metodologico che favorisce sistematicamente certi tipi di eccellenza su altri. Come dimostrato dalle ricerche di Ashley ed Empson (2017), i processi di selezione nelle organizzazioni d’élite privilegiano candidati provenienti da background socioeconomici privilegiati attraverso criteri apparentemente neutri:
- preferenza per laureati di università prestigiose, che servono in modo sproporzionato studenti di classe elevata;
- valutazione di esperienze extracurricolari (sport specifici, viaggi internazionali, attività culturali) più accessibili a giovani provenienti da famiglie benestanti;
- ricerca di comportamenti che evidenziano un “adattamento culturale” alle norme e valori della classe dirigente.
L’ossessione per la misurazione rappresenta un aspetto centrale dell’ideologia meritocratica
Diverse ricerche hanno documentato come i reclutatori nelle aziende d’élite tendano a cercare candidati che considerano “culturalmente simili” a loro stessi, perpetuando inconsapevolmente i privilegi di classe attraverso quello che definiscono “fit culturale” – un eufemismo per la riproduzione sociale dello status quo. Il fenomeno del “soffitto di classe”, identificato da Kish-Gephart e Campbell (2015), rappresenta una barriera invisibile ma potente all’avanzamento di carriera per individui provenienti da background socioeconomici svantaggiati. Anche quando superano le barriere all’ingresso, questi professionisti:
- ricevono meno opportunità di mentorship e sponsorship;
- sviluppano reti professionali meno influenti;
- vengono valutati in base a criteri che premiano comportamenti e stili comunicativi associati alle classi privilegiate.
Mun e Kodama (2021) hanno dimostrato empiricamente come i sistemi di ricompensa basati sul merito possano paradossalmente ampliare i divari salariali di genere, in particolare nelle componenti variabili della retribuzione come bonus e incentivi. Questo paradosso evidenzia come anche meccanismi apparentemente oggettivi possano perpetuare e amplificare disuguaglianze esistenti.
La meritocrazia come motore delle tensioni politiche contemporanee
La letteratura scientifica recente ha iniziato a documentare la connessione tra l’ideologia meritocratica e le crescenti tensioni sociopolitiche nelle democrazie occidentali. Sandel (2020) ha elaborato una delle analisi più incisive di questa dinamica nel suo La tirannia del merito, tracciando una linea diretta tra la retorica meritocratica dominante negli ultimi decenni e l’ascesa di movimenti populisti. La tesi centrale di Sandel è che la meritocrazia promuove un’arroganza morale nei “vincitori” e un senso di umiliazione nei “perdenti”. Chi ha successo in un sistema presentato come meritocratico non si limita a godere di privilegi materiali, ma acquisisce una superiorità morale: il successo viene interpretato come testimonianza del proprio valore personale. Parallelamente, chi non riesce a emergere non è semplicemente sfortunato, ma moralmente inadeguato. Questa dinamica psicologica ha conseguenze politiche devastanti. Sandel ha documentato come la retorica meritocratica, promettendo opportunità che nella realtà non si materializzano per ampie fasce della popolazione, alimenti profonda sfiducia nelle istituzioni democratiche. La sua tesi è che la meritocrazia, invece di promuovere equità, abbia creato una classe di “vincitori” percepiti come distanti e moralmente arroganti, contribuendo alla polarizzazione sociale. I dati empirici confermano questa interpretazione, alcuni studi hanno dimostrato quantitativamente che gli individui che “endorsano” fortemente le credenze meritocratiche tendono a razionalizzare le disuguaglianze di reddito come legittime, con significative ripercussioni sul loro benessere psicologico. Questo meccanismo di razionalizzazione delle disuguaglianze attraverso l’ideologia meritocratica è stato definibile come una forma di mistificazione che oscura le barriere strutturali alla mobilità sociale.
La credenza nella meritocrazia può funzionare come strumento di giustificazione del sistema anche per i gruppi a basso status
Il paradosso più inquietante, evidenziato dalle ricerche di Wiederkehr e collaboratori (2015), è che la credenza nella meritocrazia può funzionare come strumento di giustificazione del sistema anche per i gruppi a basso status. Questo fenomeno, in cui i membri di gruppi svantaggiati interiorizzano e sostengono ideologie che legittimano la loro subordinazione, rappresenta un potente meccanismo di mantenimento dello status quo. Questo corpo di ricerche suggerisce che la meritocrazia non è semplicemente un sistema di allocazione delle risorse, ma un potente strumento ideologico che plasma le percezioni di giustizia sociale, influenza l’autostima individuale e modella le risposte politiche alle disuguaglianze strutturali.
Oltre la meritocrazia: modelli alternativi basati sull’evidenza
Criticare la meritocrazia non significa rifiutare il riconoscimento del valore individuale o proporre l’incompetenza come alternativa. Significa piuttosto sviluppare modelli più sofisticati e scientificamente fondati per valutare il contributo umano e distribuire opportunità in modo più equo. Martha Nussbaum ha sviluppato un “approccio delle capacità” che sposta l’attenzione dai risultati alle concrete possibilità di sviluppo delle potenzialità umane. Questo framework, elaborato in Creating Capabilities (Nussbaum, 2011), valuta non solo ciò che le persone riescono a realizzare, ma le effettive libertà e opportunità di cui dispongono. La “giustizia distributiva” rappresenta un altro paradigma alternativo alla meritocrazia pura. John Rawls, nel suo fondamentale Una teoria della giustizia, propone principi di equità che considerano legittime solo quelle disuguaglianze che beneficiano anche i più svantaggiati. La sua critica all’arbitrarietà morale del merito mette in discussione entrambe le componenti che lo costituiscono: sia il talento (frutto della “lotteria genetica”) sia la capacità di impegnarsi (fortemente influenzata dall’ambiente familiare e sociale) sono moralmente arbitrari poiché non dipendono realmente dalle scelte individuali. Broström e collaboratori (2024) hanno documentato approcci organizzativi innovativi che integrano considerazioni meritocratiche con agende di equità sociale. Il loro caso studio di un’università svedese illustra come processi meritocratici e obiettivi di uguaglianza di genere possano essere negoziati in modo produttivo attraverso spazi organizzativi diversificati.
La imprese che premiano il contributo collettivo anziché le performance individuali ottengono risultati superiori in termini di innovazione
Grant e Parker (2009) hanno proposto modelli di lavoro cooperativi che valorizzano la complementarità anziché la competizione individuale. La loro ricerca dimostra come organizzazioni che premiano il contributo collettivo anziché concentrarsi esclusivamente sulle performance individuali possano ottenere risultati superiori in termini di innovazione e adattabilità. Un approccio particolarmente promettente è rappresentato dai sistemi di valutazione multidimensionale, che superano metriche unidimensionali per considerare la complessità delle competenze e dei contributi umani. Tyagi (2023) ha proposto un modello scandinavo che bilancia meritocrazia ed egalitarismo nell’era dell’Intelligenza Artificiale Generativa, enfatizzando il ruolo di istituzioni di welfare nell’assicurare fiducia sociale e equità, ma senza sottovalutare i rischi che l’AI possa diventare un acceleratore delle differenze di classe sociale.
Liberarsi dall’illusione della meritocrazia
L’ideologia meritocratica domina il nostro tempo perché offre una narrazione rassicurante: il successo è interamente meritato, quindi il mondo è giusto. Questa illusione permette ai privilegiati di godere dei propri vantaggi senza sensi di colpa e offre ai meno fortunati una speranza spesso irrealistica di mobilità sociale. Ma come abbiamo visto attraverso l’evidenza scientifica, la meritocrazia non è un ideale nobile imperfettamente realizzato, bensì un costrutto intrinsecamente problematico che mistifica le disuguaglianze strutturali presentandole come risultati di differenze individuali di merito. Il costo di questa illusione è altissimo: crea divisioni sociali profonde, alimenta risentimento politico, genera arroganza morale nelle élite e, forse più gravemente, induce giovani provenienti da contesti svantaggiati a interiorizzare fallimenti determinati da fattori strutturali come carenze personali. Se vogliamo costruire sistemi sociali e organizzativi più equi ed efficaci, dobbiamo abbandonare la semplicistica narrativa meritocratica e riconoscere la complessa interazione tra talento, impegno, opportunità e circostanze che determina i percorsi di vita. Come sostiene Papa Francesco, nel suo intervento del 27 maggio 2017 all’Ilva di Genova, la tanto osannata meritocrazia, una parola bella perché usa il merito, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità, la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere.
La meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza
Tornando al nostro test iniziale sui tre candidati, la domanda non dovrebbe essere “chi merita di più?” ma piuttosto: “Quali diverse forme di eccellenza riconosciamo e valorizziamo? Come possiamo creare sistemi che offrano opportunità significative a persone con percorsi e potenzialità differenti? Come distribuire potere e risorse in modi che promuovano sia il valore individuale sia la giustizia sociale?”. Solo attraverso queste domande più complesse e sfumate possiamo superare l’illusione meritocratica e costruire istituzioni che riconoscano autenticamente la dignità e il potenziale di ogni persona.
*Andrea Laudadio è a capo della Formazione e Sviluppo di TIM e dirige la TIM Academy.
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