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Gen Z, per capirla non serve un oracolo ma analizzare le nostre narrazioni

di
Andrea Laudadio*

L’uomo è un “animale narrante”. Siamo ciò che ci è stato raccontato e siamo quello che riusciamo a raccontare di noi. La narrazione è il nostro principale strumento di sintesi e organizzazione della complessità delle nostre esperienze (Fisher, 1984). «Viviamo immersi in una rete di narrazioni, che ci insegna chi siamo, che cosa dobbiamo fare e come dobbiamo comportarci» (Bruner, 1991). Noi siamo le storie che ci hanno raccontato, che abbiamo ascoltato e che continuiamo a raccontarci. Le narrazioni plasmano la nostra percezione della realtà, spesso più della realtà stessa. «Quando stimiamo le probabilità di un evento lo facciamo in base alla facilità con cui gli esempi di quell’evento emergono nella memoria» (Kahneman, 2011). Questo è uno dei motivi della differenza di valutazione di alcuni problemi, come ad esempio i temi ambientali o la fame nel mondo. Le diverse generazioni sono state esposte a narrazioni differenti rispetto a queste tematiche, soprattutto nell’età in cui ci si forma delle opinioni sui fenomeni. Una delle differenze più evidenti riguarda i temi ambientali, con la Gen Z più preoccupata (Petrescu-Mag et al., 2023), ma anche più ottimista rispetto alla possibilità che, con l’impegno, possano essere risolti (Luck e Keane, 2020). Questi diversi punti di vista producono, secondo alcuni autori (Francioli, Danbold e North, 2023), una forte tensione generazionale, in particolare tra Millennial e Baby Boomer. I Baby Boomer temono soprattutto che i Millennial minaccino i valori tradizionali (minaccia simbolica), mentre i Millennial temono che la trasmissione ritardata del potere ostacoli le loro prospettive di vita (minaccia realistica). Per ridurre le tensioni generazionali, il primo necessario passo è la comprensione dei diversi punti di vista e, in particolare, delle narrazioni che le hanno generate.

Che cosa abbiamo raccontato alla Gen Z?

La Generazione Z – i nati tra il 1997 e il 2012 – ha assorbito, come tutte le generazioni precedenti, le narrazioni familiari, scolastiche e mediatiche che abbiamo costruito intorno a loro, trasformandole in visioni del mondo, aspettative e comportamenti. Per comprendere una generazione, la strada più semplice è chiedersi: a quale storia appartiene questa generazione? Che cosa abbiamo raccontato loro per aiutarli a comprendere il mondo? Proverò a immaginare le storie, le narrazioni più ricorrenti a cui li abbiamo esposti: “Guarda come sono stressato, lavoro 60 ore a settimana e non vedo mai i tuoi eventi scolastici”. Questa frase, ripetuta in innumerevoli cene familiari, ha insegnato ai Gen Z che il sacrificio estremo per il lavoro non porta necessariamente felicità. Hanno osservato genitori esausti tornare a casa lamentando ambienti tossici, gerarchie oppressive e scarso riconoscimento. Oggi riconoscono immediatamente queste dinamiche e le evitano con precisione chirurgica.

Cresciuti con device e comunicazione istantanea, i Gen Z non sono disposti a pendolarismi quotidiani o processi burocratici inefficienti 

Il pianeta sta morendo, la vostra generazione dovrà salvarlo”. Dalle aule scolastiche ai documentari di Netflix, questa narrazione ha forgiato giovani che si aspettano coerenza ambientale dalle organizzazioni in cui lavorano. Quando un’azienda proclama valori green ma mantiene pratiche inquinanti, la Gen Z percepisce non solo ipocrisia ma un tradimento personale rispetto alla responsabilità loro affidata. “Puoi diventare ciò che vuoi, segui la tua passione”. Questo mantra, ripetuto da genitori e influencer, ha creato aspettative di realizzazione personale che le generazioni precedenti consideravano un lusso. Per i Gen Z, un lavoro privo di significato e crescita non è solo insoddisfacente: rappresenta una negazione della promessa fondamentale che abbiamo fatto loro. “Tutela la tua salute mentale a ogni costo”. Abbiamo normalizzato il discorso sulla salute mentale, enfatizzando l’importanza dell’equilibrio e dell’autogestione emotiva. Non dovremmo sorprenderci quando un giovane professionista abbandona un ambiente lavorativo che percepisce come dannoso per il suo benessere psicologico. “La tecnologia ti offre infinite possibilità”. Cresciuti con device e comunicazione istantanea, i Gen Z non comprendono perché debbano sottoporsi a pendolarismi quotidiani o processi burocratici inefficienti per rispettare tradizioni lavorative obsolete.

Gen Z, un divario senza precedenti

La narrazione di una società piena di contraddizioni, di aziende che predicano valori ma agiscono diversamente, ha reso la Gen Z profondamente critica verso ogni forma di ipocrisia. Cercano autenticità e trasparenza, penalizzando duramente le organizzazioni incoerenti. Cresciuti ascoltando storie sulla crisi economica del 2008, sul precariato e sulle difficoltà finanziarie delle famiglie, questi giovani hanno imparato a considerare la stabilità economica non scontata, ma come un valore da perseguire con attenzione. Hanno sperimentato precarietà economica e mostrano una marcata sensibilità verso inclusione, sostenibilità e autenticità aziendale. Non è solo una questione anagrafica. Parlando della Gen Z, descriviamo la prima generazione di veri nativi digitali, cresciuti in un mondo iperconnesso che ha plasmato profondamente il loro approccio alla vita e al lavoro. Oggi rappresentano circa il 12% della forza lavoro italiana, percentuale destinata a crescere rapidamente, portando con sé una rivoluzione silenziosa nelle organizzazioni, programmata dalle nostre stesse parole. La Generazione Z proviene da famiglie più piccole e protettive, caratterizzate da uno stile educativo meno autoritario e più dialogico. Il loro modello formativo è orientato all’apprendimento continuo, prevalentemente digitale e visivo: YouTube è la principale fonte di conoscenza per il 92% di loro (Pew Research Center, 2020). Il 45% dei teenager afferma di essere online “praticamente sempre”, quasi il doppio rispetto a tre anni fa. In media, i giovani Gen Z consumano 23 ore di contenuti video ogni settimana – l’equivalente di un’intera giornata spesa guardando schermi anziché leggendo. Un’immersione digitale che ha formattato il loro cervello per preferire stimoli brevi e diversificati, rendendo difficile la concentrazione prolungata richiesta in molti contesti professionali.

Oggi rappresentano circa il 12% della forza lavoro italiana, percentuale destinata a crescere rapidamente

Sorprendentemente, tra i giovani della Gen Z si sta diffondendo una “fuga dai social”. Molti di loro ritengono che l’utilizzo intensivo delle piattaforme digitali generi un sovraccarico cognitivo dannoso per il benessere psicologico. Questo fenomeno, definito “digital burnout” rappresenta un paradosso per l’unica generazione cresciuta completamente immersa nella tecnologia. I dati, emersi dal Report FragilItalia “I giovani generazione Z e il lavoro” del 2023, elaborato da Area Studi Legacoop e Ipsos, trovano conferma nei risultati del sondaggio recentemente condotto da Cnc Media su un campione di 10mila votanti, l’82% dei quali preferisce guadagnare meno a fronte di maggiori libertà e flessibilità. Numeri che spiegano perché il “posto fisso”, rassicurante miraggio per i loro genitori, per loro rappresenti più una gabbia che un’opportunità. Il 60% dei ragazzi della Gen Z considera il lavoro meno prioritario rispetto a famiglia, amicizie e tempo libero, rovesciando la scala valoriale delle generazioni precedenti. Solo il 31% degli intervistati in Italia inserisce il lavoro tra le priorità di vita, secondo uno studio di University2Business (2024). Un dato che testimonia un cambiamento radicale nella percezione del ruolo professionale, non più centro dell’identità personale ma strumento per sostenere ciò che realmente conta. In sintesi, non è che non vogliano lavorare, è che non vogliono vivere per lavorare. Questa generazione ha visto i propri genitori sacrificare tutto per carriere che spesso sono evaporate durante la crisi del 2008. Hanno tratto conclusioni precise.

La Generazione Z proviene da famiglie più piccole e protettive, con uno stile educativo meno autoritario e più dialogico

Il risultato è anche un rapporto molto diverso rispetto agli obblighi di orario e alle scadenze. La società di riunioni online Meeting Canary ha intervistato oltre 1.000 adulti britannici, indagando sul loro atteggiamento nei confronti della puntualità: per quasi la metà di quelli tra 16 e 26 anni essere in ritardo tra i cinque e i 10 minuti va bene come essere puntuali. Per un Gen Z, 10 minuti di ritardo sono sinonimo di puntualità. Mentre un 70% dei boomer intervistati confida di avere un approccio da tolleranza zero per qualsiasi livello di ritardo e di non perdonarli. La Gen Z manca di un rigoroso senso del tempo: sono entrati nel mondo del lavoro durante la pandemia, in pieno smartworking, quando era cortesia comune aspettare che le persone si collegassero a una riunione per problemi di connessione. Molto probabilmente non hanno mai provato l’imbarazzo di arrivare tardi a una riunione e di essere fissati dall’intero team in attesa. E forse non avranno mai questa esperienza. Ma i problemi non riguardano solo la flessibilità. In media, i lavoratori della Gen Z non rispettano quasi un quarto delle scadenze settimanali (contro il 6% dei Boomer), secondo uno studio ripostato da Fortune Italia, un dato che riflette non solo inesperienza, ma un diverso rapporto con il tempo e le priorità.

Come capirci tra generazioni? Il modello Oracle

Oggi, in una organizzazione tipica di 100 persone, circa 12 sono Gen Z, un numero destinato a salire rapidamente fino al 25% entro il 2030. Questo trend impone nuove strategie di gestione e comprensione, che spesso sfuggono agli HR tradizionali, costretti quasi a rivolgersi a “oracoli” per interpretare i bisogni di questa generazione. Ma davvero servono degli oracoli? In realtà, basta un modello chiaro ed efficace: il modello O.R.A.C.L.E., che ho provato a immaginare per fornire una mappa culturale per creare un dialogo intergenerazionale su quelle che sono le principali differenze tra i Gen Z e le altre generazioni in azienda. Per decodificare i comportamenti apparentemente contraddittori della Generazione Z nel contesto lavorativo, il modello ORACLE offre un framework interpretativo supportato da recenti ricerche scientifiche e dati empirici. Questo paradigma identifica sei dimensioni fondamentali che guidano le aspettative e i comportamenti di questa generazione:

 Il 45% della Gen Z ritiene essenziale che la propria vita sia “importante e significativa”

Una ricerca del Pew Research Center (2020) rileva che il 45% della Gen Z ritiene essenziale che la propria vita sia “importante e significativa”. Non è un’aspirazione vaga: quando questi giovani scelgono un datore di lavoro, valutano attentamente la mission aziendale e l’impatto sociale dell’organizzazione. Secondo lo studio di Schroth (2019) pubblicato nel Journal of Business Ethics, il 76% dei professionisti Gen Z ha rifiutato offerte di lavoro da aziende percepite come eticamente problematiche, anche a fronte di compensi superiori. La sostenibilità ambientale e l’inclusività sociale non sono “nice-to-have” ma prerequisiti fondamentali. “Cercano senso nella loro quotidianità lavorativa”, conferma una ricerca di Piper Sandler (2022): il 60% dei Gen Z “felici” lo sono perché considerano le proprie attività quotidiane “interessanti”, traducendosi in una maggiore motivazione nell’adempimento dei compiti (64% rispetto al 37% di chi non trova significato nel proprio lavoro).

Le connessioni online hanno lo stesso valore emotivo di quelle in presenza

Un’indagine di LinkedIn (2023) rivela che il 42% degli italiani dichiara di avere amici stretti sul lavoro, un elemento che riduce significativamente lo stress e aumenta la motivazione. Per la Gen Z, tuttavia, il concetto stesso di amicizia si è evoluto: il loro rapporto con le reti sociali, sviluppato attraverso piattaforme digitali, ha creato aspettative di orizzontalità e autenticità difficilmente compatibili con gerarchie rigide. Ranieri et al. (2021), in uno studio hanno documentato come la Gen Z abbia sviluppato una concezione delle relazioni caratterizzata da “amicizie simultaneamente virtuali e reali”, dove le connessioni online hanno lo stesso valore emotivo di quelle in presenza. Questo spiega perché trovino spesso frustranti le comunicazioni aziendali formali e preferiscano interazioni più dirette e autentiche. Hulbert-Williams et al. (2024) evidenziano come questa generazione si senta “soffocata dal micromanagement” e desideri avere spazio per esprimersi. Il 67% afferma di voler essere coinvolto nelle decisioni aziendali, non per presumenza, ma per un genuino desiderio di contribuire con la propria prospettiva unica.

L’89% dei Gen Z lascerebbe un’azienda se percepisse un disallineamento tra comunicazione pubblica e politiche interne

L’autenticità rappresenta una dimensione cruciale per la Gen Z, che ha sviluppato sofisticati “rilevatori di falsità” dopo anni di esposizione a contenuti digitali manipolati e marketing inautentico. Twenge (2017) documenta come questa generazione valuti l’autenticità di un’organizzazione attraverso la coerenza tra valori dichiarati e comportamenti concreti. Un dato particolarmente significativo emerge da uno studio di McKinsey & Company (2022): l’89% dei Gen Z abbandonerebbe un’azienda se percepisse un disallineamento tra la comunicazione pubblica e le politiche interne. Questo si estende anche alle politiche retributive: la trasparenza salariale non è solo una preferenza ma un’aspettativa fondamentale. Come evidenziato da Bulińska-Stangrecka e Naim (2021), la Gen Z percepisce salari bassi giustificati con promesse future (“paga in esperienza”) come segni di sfruttamento piuttosto che opportunità. Il 78% preferisce una comunicazione trasparente sui limiti aziendali piuttosto che promesse irrealistiche.

L’opportunità di sviluppo personale e professionale diventa il fattore determinante nella scelta del datore di lavoro

Il Global Millennial Survey di Deloitte (2023) mostra che l’opportunità di sviluppo personale e professionale è il fattore determinante nella scelta del datore di lavoro per il 91% della Gen Z. Questa generazione ha internalizzato il concetto di apprendimento continuo, ma con modalità radicalmente diverse dalle precedenti. Chan, Hooi e Ngui (2021), in una ricerca pubblicata sul Journal of Asia Business Studies, evidenziano come i Gen Z preferiscano approcci di microlearning con moduli formativi brevi e facilmente assimilabili. Il 92% utilizza YouTube per scopi di apprendimento, riflettendo una predilezione per contenuti visivi piuttosto che testuali. Kraght e Brøndum (2025) documentano le loro aspettative di “carriera accelerata”: il 67% si aspetta una promozione entro 12-18 mesi dall’assunzione. Questo non è narcisismo, ma il risultato di un’educazione basata su feedback continui e immediati, che ha creato aspettative di progressione rapida e visibile.

YOLO, un approccio al lavoro che privilegia l’esperienza immediata rispetto alle ricompense future

Il cambiamento più radicale riguarda la concezione stessa del lavoro. Secondo il State of Remote Work di Buffer (2024), l’80% dei Gen Z lascerebbe il proprio impiego se costretto a tornare in ufficio a tempo pieno. Janssen e Carradini (2021) identificano la “flessibilità lavorativa” come il secondo fattore più importante dopo la retribuzione. Questa prospettiva è fortemente influenzata dalla filosofia “YOLO” (You Only Live Once), che ha caratterizzato la formazione valoriale della Gen Z. Diffusasi globalmente a partire dal 2011, questa visione esistenziale ha plasmato un approccio al lavoro che privilegia l’esperienza immediata rispetto alle ricompense future. Lukianoff e Haidt (2018) hanno rilevato che il 63% dei professionisti Gen Z identifica il principio YOLO come influenza significativa nelle proprie scelte di carriera, portando alla cosiddetta “YOLO Economy” – un fenomeno in cui i giovani professionisti abbandonano percorsi tradizionali per inseguire opportunità che offrono maggiore flessibilità e significato personale. Ciò che molti datori di lavoro interpretano come mancanza di etica lavorativa è in realtà una diversa concezione dell’efficienza. Il 72% della Gen Z ritiene inoltre che la produttività dovrebbe essere misurata sui risultati piuttosto che sulle ore di presenza. Una ricerca di Deskbird (2024) evidenzia che il 39% della Gen Z vorrebbe la settimana lavorativa di 4 giorni, non per lavorare meno, ma per lavorare meglio. L’82% preferisce guadagnare meno a fronte di maggiore libertà e flessibilità, dimostrando che il “posto fisso” non è più l’aspirazione primaria. Questa volontà di sacrificare compensi economici per ottenere libertà personale rappresenta una manifestazione concreta della mentalità YOLO trasferita al contesto lavorativo.

La Gen Z segnala un desiderio di disconnessione come tutela per la propria salute mentale

Il benessere, soprattutto mentale, rappresenta la dimensione più innovativa dell’approccio della Gen Z al lavoro. Un’indagine di Pluxee (2023) rivela che per il 29% della Gen Z la salute mentale è l’aspetto principale ricercato in un ambiente di lavoro, seguita dall’equilibrio vita-lavoro (27%). Solo dopo vengono soddisfazione professionale (16%) e stipendio (13%). Marsh, Vallejos e Spence (2024) documentano come la digitalizzazione pervasiva abbia generato un paradossale “affaticamento digitaletra i nativi digitali. Il 36% della Gen Z controlla raramente o mai le e-mail fuori dall’orario di lavoro, segnalando un desiderio di disconnessione come tutela per la propria salute mentale. Koul (2024), in una ricerca pubblicata su Global Business and Organizational Excellence, dimostra una correlazione diretta tra politiche aziendali di benessere e retention dei talenti Gen Z: le aziende con programmi strutturati di supporto al benessere registrano un turnover inferiore del 27% in questa fascia demografica. È una generazione che ha destigmatizzato la salute mentale. Hanno visto i loro genitori sviluppare burnout e depressione per lavori che non davano spazio al recupero psicofisico e hanno deciso che a loro non accadrà.

Verso un futuro di dialogo intergenerazionale

Il modello ORACLE consente di interpretare comportamenti altrimenti incomprensibili. Quando un giovane talento della Gen Z abbandona improvvisamente un’impresa dopo pochi mesi, nonostante buone prospettive economiche, l’analisi ORACLE rivela che probabilmente manca uno o più di questi elementi fondamentali. Comprendere queste sei dimensioni non significa cedere a capricci generazionali, ma riconoscere i profondi cambiamenti socio-culturali che hanno plasmato una nuova concezione del lavoro e delle aziende. Chimamanda Ngozi Adichie evidenzia come le narrazioni uniche o dominanti possano distorcere la percezione della realtà, limitando la nostra comprensione delle culture e delle persone. Anche questo modello interpretativo non deve trasformarsi in una gabbia concettuale. Probabilmente è riduttivo, soggetto a bias, e può omettere dimensioni rilevanti. Qualsiasi schema, infatti, per sua stessa natura è limitato: sintetizza la complessità lasciando inevitabilmente fuori alcuni elementi, dando maggiore risalto ad altri. Uno schema, specialmente se monolitico, rischia così di creare stereotipi. Come spiega la stessa Adichie nel suo TED Talk del 2009, «la storia unica crea stereotipi, e il problema degli stereotipi non è che siano falsi, ma che siano incompleti. Rendono una sola storia l’unica storia». Nonostante queste possibili limitazioni, questo modello presenta il vantaggio di offrire una chiave interpretativa utile per facilitare un dialogo costruttivo e intergenerazionale tra le diverse generazioni e il mondo HR. Le aziende, infatti, si stanno gradualmente adattando per accogliere questa nuova generazione. Non si tratta di assecondare capricci o mode passeggere, ma di riconoscere che molte pratiche lavorative tradizionali erano inefficaci e obsolete. Si stanno rivelando particolarmente efficaci programmi di mentoring bidirezionale, dove i più giovani trasmettono competenze digitali ai senior e, contemporaneamente, ne apprendono esperienza e visione strategica. Allo stesso modo, le organizzazioni che introducono feedback più frequenti e micro-promozioni basate sui risultati ottengono incrementi di produttività e fidelizzazione.

Gen Z, conoscersi per creare nuovi paradigmi lavorativi

La vera sfida, dunque, non è obbligare la Gen Z ad adattarsi a modelli ormai obsoleti, ma co-creare insieme nuovi paradigmi lavorativi che combinino i punti di forza di ciascuna generazione. Sopravvivranno solo le organizzazioni capaci di evolversi e adattarsi, piuttosto che quelle che pretendono l’adeguamento esclusivamente da parte della Generazione Z. Una trasformazione che, a ben vedere, potrebbe portare benefici a tutte le generazioni presenti in azienda, ricordandoci che, in fondo, lavorare per vivere anziché vivere per lavorare non è un’idea poi così rivoluzionaria.

*Andrea Laudadio è a capo della Formazione e Sviluppo di TIM e dirige la TIM Academy.

Riferimenti bibliografici

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