Pubblichiamo l’intervista all’avvocata Stella Abbamonte, membro del Comitato pari opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Cremona, Presidente di “I care, we care”.
In qualità di avvocato ha fondato, insieme ad alcune colleghe e colleghi, l’Associazione “I care, we care a.p.s.”, che si occupa della diffusione nelle scuole ed enti pubblici e privati della prevenzione della violenza e della diffusione di una cultura delle pari opportunità, legalità e rispetto. Attualmente lei riveste la carica di Presidente nazionale e referente della Lombardia. Che situazioni avete trovato in Lombardia e come intervenite sul piano operativo?
L’associazione è nata dall’incontro di alcuni avvocati che hanno frequentato un corso di formazione del Consiglio d’Europa sul tema dei diritti umani, con un focus specifico sulla violenza di genere: ognuno di noi aveva maturato, nel proprio lavoro, esperienza nella tutela di vittime di maltrattamenti quali donne, minori o altri soggetti vulnerabili. Ci siamo interrogati su questo fenomeno e abbiamo condiviso il fatto che la violenza, in ogni sua forma, ha origini culturali. Per questo motivo abbiamo deciso di realizzare progetti a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, per diffondere una cultura del rispetto, della non violenza e della parità. La nostra professione ci pone in contatto con i casi di violenza ogni giorno: per noi la violenza non è un concetto astratto, ma è incarnata da una persona che si siede di fronte a noi per chiedere aiuto, oppressa da un enorme bagaglio di dubbi e paure. Una vittima diretta, un familiare disperato. Abbiamo incontrato troppi sguardi privi di speranza, carichi di terrore e non abbiamo potuto, non abbiamo voluto, voltarci. Il fatto che la nostra associazione abbia sedi in quasi tutte le regioni italiane ci ha consentito di monitorare le diverse realtà locali.
A mio parere, la situazione della Lombardia rispecchia quella di altre regioni: emerge un disagio sempre più significativo tra i ragazzi e senza dubbio la scarsa presenza di adulti di riferimento e il loro rifugio nei Social Network non fa che amplificare tale fenomeno. Al contempo, i fenomeni di violenza quali furti, pestaggi in pieno giorno, atti di vandalismo, che un tempo riguardavano maggiormente le grandi città, si stanno diffondendo anche nei piccoli centri urbani. Per quanto riguarda le giovani generazioni, continuiamo a realizzare progetti presso le scuole di ogni ordine e grado. Siamo stati contattati anche da società sportive che ci hanno chiesto di tenere momenti formativi per contrastare fenomeni di bullismo e razzismo. Siamo convinte che il lavoro di rete consenta di realizzare interventi più efficaci e, per questo, collaboriamo con i Comuni, con le Università e con altre associazioni. Riguardo agli adulti, abbiamo realizzato svariati interventi di sensibilizzazione, rivolti a specifici Ordini professionali (avvocati, psicologi, giornalisti, assistenti sociali …) e molte di noi collaborano con strutture di accoglienza per le vittime di violenza. Purtroppo le situazioni di violenza domestica sono molto più diffuse di quanto si pensi e riguardano sia cittadini italiani che stranieri.
Avete iniziato questa attività alcuni anni fa. Come e in quale direzione è cambiata la violenza di genere?
La violenza di genere è un fenomeno esistente da sempre e affonda le proprie radici in una cultura che prevede la supremazia dell’uomo rispetto alla donna. Molti pregiudizi sono ancora profondamente radicati in tutti noi. Personalmente ritengo che più che i casi di violenza, siano aumentate le denunce: le donne hanno sempre subito ogni forma di sopruso all’interno delle mura domestiche e anche all’esterno e nei luoghi di lavoro[1]. Ma la cultura ha sempre trovato una scusante per tali violenze, che spesso venivano considerate se non giuste almeno giustificate. Mi sembra, però, che negli ultimi anni sia sorta una maggiore consapevolezza della gravità di questi fenomeni: alcuni episodi di cronaca hanno scosso, finalmente, le coscienze e hanno consentito di introdurre nuove forme di tutela per le vittime e una maggiore consapevolezza dei propri diritti. Il recente aumento degli ordini di allontanamento, dell’uso dello strumento dell’ammonimento e dell’applicazione dei braccialetti elettronici in diversi casi si è rivelato efficace. Siamo, però, solo all’inizio. E non può lasciarci indifferenti il fatto che negli ultimi anni si siano moltiplicati i blog che inneggiano al patriarcato e vanno spesso a giustificare la violenza contro le donne diffondendo idee misogine. È una realtà che troviamo anche nelle scuole e ci dimostra quanto sia importante il lavoro di sensibilizzazione rivolto ai ragazzi, ma anche agli adulti. Non ci stanchiamo di ripetere che la cosiddetta cultura patriarcale (che oggi suscita tanti dibattiti insensati e fuorvianti) crea danni non solo alle donne, ma anche a tutti gli uomini che non si riconoscono nel ruolo di maschio dominante, prestante, fisicamente forte; per non parlare, poi, dei danni causati alle persone che non si identificano nel proprio genere. Il confronto con i ragazzi è per noi una continua fonte di arricchimento perché insieme a persone piene di pregiudizi, ne troviamo altre che credono fortemente nel rispetto e nel sostegno reciproco: loro renderanno la nostra società migliore, perché il loro esempio è come una scintilla che accende altre coscienze.
Violenza e nuove generazioni. Come si coniugano secondo lei le forme di violenza e ricatto agite dalle giovani generazioni nei riguardi dei loro coetanei?
L’uso e l’abuso dei Social Network da parte di bambini sempre più piccoli, spesso senza un reale controllo da parte degli adulti, comporta il fatto che queste piccole persone in via di formazione vengono a contatto precocemente con realtà troppo violente, troppo esplicite, senza avere gli strumenti per elaborarle, comprenderle ed affrontarle. Questa esposizione crea spesso danni psicologici che, in alcuni casi, sfociano in patologie psichiatriche significative. Alcuni ragazzi si chiudono in sé stessi, altri diventano aggressivi. Troppo spesso i ragazzi usano i social con leggerezza, perché mentre scrivono non hanno di fronte a loro il destinatario dei loro commenti, delle offese, delle minacce e non ne comprendono l’impatto, la sofferenza che genera. Le conseguenze sono spesso drammatiche per le vittime, perché coloro che vengono presi di mira attraverso i social, vengono sottoposti a una vera gogna mediatica, considerata la rapidissima e amplissima diffusione delle notizie. Queste giovani vittime, che vedono la loro reputazione distrutta a causa di frasi e immagini rapidamente diffuse in tutta la scuola o il contesto sociale che frequentano, riportano danni devastanti: solo coloro che hanno famiglie solide alle spalle e adulti competenti di riferimento riescono a superare tali traumi. Ma alcuni non ci riescono e soccombono; oppure si trasformano in carnefici a loro volta.
Un altro aspetto rilevante deriva dal fatto che molti ragazzi disorientati ricercano risposte alle proprie frustrazioni o dubbi attraverso blog, pagine social che, oltre a creare disinformazione, fomentano la violenza, vista come occasione di riscatto. La recente serie televisiva “Adolescence” ha mostrato con efficacia quella che Anna Harendt definiva la “banalità del male”, che si può annidare ovunque, in ogni contesto sociale. Mi spiace spoilerare, ma nella serie viene narrata la vicenda di un ragazzino di 13 anni che, vittima di bullismo on line per motivi di genere[2] (invisibile e incomprensibile agli occhi degli adulti, spesso estranei a tale realtà), non essendo in grado di affrontare le sue frustrazioni, reagisce rendendosi carnefice, togliendo la vita a una coetanea, senza rendersi conto della concretezza delle conseguenze del suo gesto, della sua definitività. La storia narrata ci permette di comprendere come sia necessario che i genitori, gli adulti di riferimento, siano informati e aggiornati sui contenuti proposti on line e forniscano ai propri figli degli strumenti per affrontarli, perché la vigilanza, il divieto abbia un’efficacia limitata.
Lavoriamo molto con i ragazzi sull’uso dei social, anche grazie al prezioso aiuto di “Fondazione Carolina”, fondata dal padre di Carolina Picchio, una splendida ragazza che si è tolta la vita dopo essere stata vittima di una campagna di diffamazione tramite i social da parte dei suoi coetanei. Non smettiamo mai di ripetere a questi ragazzi che le parole hanno un peso e che devono sempre ricordarsi che non sono soli: devono aprirsi e parlare con un adulto, ovvero un genitore, un insegnante, le Forze dell’Ordine. E, una volta che hanno denunciato, devono ricordarsi sempre che loro sono le vittime e che hanno fatto bene a ribellarsi. Purtroppo, e questo lo riscontriamo quotidianamente, anche nei fenomeni di violenza di genere, ogni vittima troverà qualcuno che cercherà di dissuaderla dal denunciare o la criticherà per averlo fatto, cercando di farla sentire in colpa. È il cosiddetto fenomeno della vittimizzazione secondaria, che vede la persona che subisce una violenza, diventare vittima una seconda volta. Chiedere aiuto e non vergognarsi per averlo fatto è necessario perché, come mi ripete mio padre, la forza degli altri è nella mia debolezza.
Un altro aspetto fondamentale è il sostegno che gli amici e i compagni di classe possono dare alla vittima, schierandosi al suo fianco. Ognuno di noi può svolgere un ruolo importante diventando una “sentinella sociale”, come ci ha insegnato il Presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia, che da sempre costituisce per noi un esempio nel contrasto attivo alla violenza di genere e sostiene la nostra Associazione: essere sentinella sociale significa non voltarci dall’altra parte se siamo testimoni di situazioni di violenza, sostenendo la vittima e aiutandola a chiedere aiuto. Nelle classi in cui abbiamo trovato questa forma di solidarietà, abbiamo visto calare drasticamente le forme di bullismo.
Esiste una specifica coniugazione, secondo lei, tra le varie forme di violenza e una società votata al successo sociale crescente?
Non sono una sociologa, ma la mia impressione è quella che i due aspetti siano strettamente correlati: l’importanza di affermarsi non per meriti, ma semplicemente per apparire comporta il fatto che molte persone perdono di vista quelle che dovrebbero essere le reali priorità di un individuo, ovvero la famiglia, lo spirito di solidarietà e il rispetto. L’anima e i valori vengono dimenticati, dando principale attenzione all’esteriorità, all’apparenza, che crea soggetti smaniosi di primeggiare per quello che hanno e non per quello che sono e diventano fragili ed egoisti: personalmente, occupandomi di diritto di famiglia, ho ritrovato spesso queste situazioni. Troppi adulti concentrati sui propri bisogni, incapaci di prendersi cura, con impegno, presenza e sacrificio dei figli. Nell’assenza della relazione nasce il contrasto e dal contrasto l’incomunicabilità, la solitudine, la frustrazione che spesso sfocia in violenza. Si moltiplicano, così, persone scollate dalla realtà, portate a pensare che ciò che davvero ci realizza è la popolarità, raggiunta tramite il numero di followers, di like. Anni fa rimasi colpita dalla cugina della giovanissima vittima Sarah Scazzi, la quale, in carcere, aveva chiesto al suo avvocato se alla tv avessero parlato di lei in un noto programma televisivo. Apparire, comunque. Attirare l’attenzione e non importa se per farlo io diffondo un video dove picchio una mia coetanea per seguire l’ennesima moda folle, con il solo obiettivo di mettermi in mostra. Apparire. A qualsiasi prezzo.
La normativa vigente è sufficientemente articolata per intervenire anche sulle fattispecie più recenti, o manca di qualche aggiornamento? In questo caso, quali suggerimenti si sente di dare al legislatore per un efficace contrasto a questo aberrante crimine?
L’introduzione nel nostro sistema legislativo del cosiddetto “Codice rosso”, con legge 19 luglio 2019, n. 69, ha inteso rafforzare la tutela delle vittime di maltrattamento, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni, connessi a contesti familiari o nell’ambito di relazione di convivenza (violenza domestica e di genere) introducendo importanti modifiche di diritto sostanziale e processuale finalizzate a garantire una più rapida tutela alle vittime di tali reati, velocizzando l’instaurazione dei procedimenti penali e accelerando l’eventuale adozione di provvedimenti di protezione. Sono state introdotte anche fattispecie di reato che mirano a colpire fenomeni rapidamente diffusi nel nostro contesto sociale, quale il revenge porn, ovvero la condivisione pubblica di immagini o video intimi tramite Internet, senza il consenso dei soggetti ripresi, talvolta come forma di vendetta o punizione. Successivamente, sono state introdotte ulteriori modifiche dalla legge 168\2023 e solo poche settimane fa il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge che prevede l’introduzione del reato di femminicidio[3] e di altre misure correlate.
A mio avviso, attualmente in Italia abbiamo un buon impianto normativo, astrattamente in grado di tutelare le vittime; dico astrattamente perché il percorso si presenta ancora irto di ostacoli. Ancora troppo poche sono le caserme che si avvalgono di personale specializzato per accogliere le denunce delle vittime; pochissime le sezioni specializzate presso i tribunali penali. I braccialetti elettronici troppo spesso non funzionano e i tempi dei processi, per quanto nettamente migliorati, di frequente non consentono una tempestiva forma di tutela della vittima. Molte sono le misure in corso di attuazione volte non solo a tutelare maggiormente la vittima, ma anche a rieducare l’uomo maltrattante, ma tali strumenti virtuosi troppo spesso si scontrano con la mancanza di mezzi per concretizzare una risposta efficace: ad esempio, i corsi per uomini maltrattanti sono troppo pochi e spesso hanno costi troppo elevati. Ciò nonostante, alcuni interventi qual l’adozione del cd. Protocollo Zeus da parte di molte Questure, se applicati, possono portare a risultati apprezzabili. Tale protocollo prevede, ad esempio, l’utilizzo dello strumento da parte della vittima dell’ammonimento dell’uomo maltrattante e contribuisce a portare alla luce situazioni fragili che diversamente non verrebbero segnalate: le donne spesso non denunciano per paura delle conseguenze e perché temono che se il loro compagno sarà condannato e andrà in carcere, perderà il lavoro e verrà a mancare una fonte di sostentamento (talvolta l’unica) per la famiglia.
In questo cammino irto di ostacoli, ci troviamo, poi, nelle aule di tribunale di fronte a decisioni del tutto censurabili o a ritardi ingiustificati: la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha più volte condannato l’Italia per la mancata protezione delle vittime di violenza domestica. Anche di recente la CEDU, con la sentenza n. 64066/19, 13 febbraio 2025 ha condannato l’Italia in ambito di violenza domestica riscontrando una violazione procedurale dell’art. 3 CEDU a causa della mancata tempestività delle indagini da parte delle autorità italiane, che ha determinato la prescrizione dei reati contestati e una conseguente mancanza di tutela per la vittima. In altre occasioni, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per violazione dell’art. 8 della CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare), non avendo tutelato l’immagine, la privacy e la dignità di una giovane donna che aveva denunciato di essere stata violentata da sette uomini: nella sentenza con cui sono stati definitivamente assolti tutti gli imputati, è stato infatti utilizzato, a parere dei Giudici della Corte EDU, un «linguaggio colpevolizzante e moraleggiante che scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario» per la «vittimizzazione secondaria cui le espone» (in questo caso, il riferimento è alla sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, Prima Sezione, 27 maggio 2021, J.L. c. Italia, n. 5671/16, conosciuta come il caso della biancheria rossa).
In base all’esperienza maturata, ritengo che la strada più efficace per contrastare il fenomeno della violenza di genere sia l’inserimento di corsi di educazione all’affettività e contrasto alla violenza in ogni sua forma. Sarebbe, inoltre, importante che fossero tenuti corsi di formazione obbligatori per tutti gli operatori della giustizia (avvocati, giudici, Forze dell’Ordine) che operano in tale àmbito. Sarebbe necessario stanziare più fondi per sostenere le vittime, moltiplicare i progetti di recupero degli uomini maltrattanti, dotare le Forze dell’Ordine di braccialetti elettronici funzionanti, per esempio. Infine, ritengo che sarebbe importante che il nostro legislatore recepisse un concetto tanto semplice quanto fondamentale quale quello del consenso esplicito nel reato di violenza sessuale (riassumibile, come diciamo nelle scuole, in modo molto semplice: no è no e puoi cambiare idea quando vuoi). Eppure tale principio è previsto dall’articolo 36 della Convenzione di Istanbul, ratificata dal nostro Paese nel 2014. Fa ben sperare il fatto che la Suprema Corte di Cassazione abbia iniziato a riconoscere l’importanza del consenso esplicito o affermativo nei casi di stupro – come nella sentenza della Cassazione Penale, Sez. III, 22 novembre 2024 (ud. 14 ottobre 2024), n. 42821. Spesso la giurisprudenza precede una riforma legislativa e speriamo possa essere così anche in questo caso.
Considerate le istituzioni, rispetto alle vostre istanze, denunce e proposte, pronte ad accoglierle e a trasformarle in politiche adeguate, oppure esistono forme di resistenza che ostacolano il recepimento e implementazione delle vostre esperienza professionali? E nel caso, da dove deriverebbe questa lentezza o ritrosia?
A fronte di realtà virtuose, come quella del Tribunale di Milano, ci ritroviamo quotidianamente, nell’ambito del nostro lavoro, di fronte a resistenze e ostacoli: tuttora dobbiamo lottare contro stereotipi e pregiudizi, che continuano a condizionare pesantemente la nostra cultura, costituendo spesso la base di fenomeni di violenza o la barriera per il raggiungimento di una reale parità. Riguardo alla nostra Associazione, solitamente i nostri progetti (studiati sulla base dell’esperienza maturata “sul campo”, pertanto concreti) vengono accolti con entusiasmo anche se dobbiamo sempre faticare per trovare le risorse necessarie per realizzarli. Nonostante le promesse e l’interesse sorto in seguito a casi di cronaca che hanno influenzato l’opinione pubblica (pensiamo al caso di Giulia Cecchettin, che ha scosso la società al punto da indurre il Parlamento ad approvare celermente e all’unanimità la L. 168/2023, il cd. “Codice rosso rafforzato”[4]), non mi risulta che siano stati ancora inseriti nelle scuole corsi di educazione all’affettività e al contrasto alla violenza di genere. Eppure la nostra esperienza ci porta a dire che sono fondamentali, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, a partire dalla scuola primaria per arrivare nei licei come negli istituti professionali, nelle università. Anche il mancato accoglimento dell’istanza di costituzione di parte civile della nostra Associazione in un noto processo mediatico per femminicidio ci ha fatto pensare a quanto sia ancora radicato il pensiero che la violenza di genere debba essere relegata a un ambito privato, quando invece è ormai chiaro che stiamo parlando di un fenomeno che coinvolge tutto il nostro contesto sociale.
Immagini di rivolgersi a una giovane donna che subisce violenza di una qualche forma sul posto di lavoro, in famiglia, a scuola o in qualche altro ambiente. Che cosa le suggerisce di fare? Quali sono in sostanza i passi fondamentali che deve compiere per superare una violenza che può arrivare a togliere la voglia di vivere?
Il mio pensiero corre subito alle giovani vittime sottratte alla vita negli ultimi giorni da uomini incapaci di accettare un rifiuto: Sara Campanella e Ilaria Sula. Penso anche alla piccola Aurora che a Piacenza ha perso la vita a 13 anni, l’età di mia figlia. E ancora sorge la stessa domanda: che cosa posso fare io? Che cosa dobbiamo fare? La stessa domanda che ha fatto nascere la nostra Associazione, nel momento in cui abbiamo realizzato che, forse, se Saman Abbas[5] avesse avuto accesso a informazioni “salva vita” nell’unico ambiente che i genitori le consentivano di frequentare, ovvero la scuola, se la rete intorno a lei avesse funzionato, forse non sarebbe stata uccisa, si sarebbe salvata.
Per questo motivo, a ogni giovane donna che incontriamo ricordiamo che se subisce una violenza, non è colpa sua: lei è la vittima e l’unico modo per fermare la violenza è reagire, chiedendo aiuto. È giusto che sappia che non si deve vergognare perché la violenza di genere è un fenomeno trasversale che può colpire tutte noi: abbiamo seguito vittime italiane e straniere, alcune povere ed altre benestanti, giovani e meno giovani, analfabete e plurilaureate. Talvolta un periodo di fragilità o la mancanza di autostima ci rende facili prede di personalità manipolatorie e ci porta ad interpretare forme di possesso come gesti di affetto. Può rivolgersi a un familiare, a un amico, alle Forze dell’ordine, ai centri anti violenza della propria città, al numero 1522, a un avvocato. La denuncia è il primo passo ed è fondamentale che la persona sia adeguatamente informata sul percorso che andrà ad affrontare. Così come necessario è il sostegno psicologico, che aiuta la vittima a superare i traumi subiti e ad avere la forza di percorrere la strada che le consentirà di prendere le distanze dal suo carnefice: senza dubbio troverà qualcuno che cercherà di farle cambiare idea, di farla sentire in colpa per essersi ribellata, di screditarla additandola come una pazza nevrotica o una donna facile.
Spesso, poi, le donne vittime di violenza non reagiscono perché temono di perdere i figli (una classica minaccia dell’uomo maltrattante), la casa, di non avere le risorse economiche per affrontare questo nuovo percorso. È molto importante che queste persone sappiano che non verranno tolti loro i figli se hanno la forza di ribellarsi a una situazione di violenza, così dimostrando di essere in grado di proteggere anche loro. Devono ricordare che se il padre usa violenza contro la madre non è un buon padre, anche se non picchia direttamente i figli, che diventano vittime di violenza assistita. Riguardo alla casa, inizia ad affermarsi maggiormente l’utilizzo dello strumento dell’ordine di allontanamento che impone all’uomo violento di non avvicinarsi alla casa familiare, al luogo di lavoro e alla scuola dei bambini, applicato tramite l’uso del braccialetto elettronico. Questa soluzione evita uno sradicamento della famiglia, già traumatizzata per l’accaduto. Riguardo alle spese, è fondamentale ricordare che molti centri anti violenza così come consultori comunali offrono percorsi gratuiti di sostegno psicologico; così come è possibile accedere al gratuito patrocinio per affrontare le spese legali (tre Regioni, Lazio, Piemonte e Lombardia, hanno ampliato il tetto economico per accedere a tale beneficio, così consentendo a molte più donne di usufruirne).
Non ci stanchiamo di ripetere alle ragazze che incontriamo, alle nostre clienti, e qui mi ripeto, di chiedere aiuto, di non colpevolizzarsi per quanto accaduto perché loro sono le vittime e ricordiamo loro che il no è no: nessuno può costringerci a fare qualcosa che non vogliamo e possiamo cambiare idea quando vogliamo. Non dimenticherò mai una mia cliente, piegata da una vita dura che l’aveva resa vulnerabile, la quale è stata vittima di una violenza sessuale: a causa dei suoi trascorsi, temeva che non le avrebbero creduto, eppure ha trovato il coraggio di sporgere denuncia perché non voleva che quella persona facesse del male ad altre donne. Il giorno in cui è venuta in tribunale per deporre, era bellissima, come se fosse rinata. Aveva un bel vestito, era andata dalla parrucchiera e dopo tanti anni si era truccata. Il suo sguardo era sereno, sicuro e non provava alcun imbarazzo: senza dubbio il percorso psicologico effettuato presso la comunità di accoglienza ospite e la presenza dell’educatrice della stessa comunità al suo fianco sono stati determinanti. Prima di entrare in aula, ricordo che mi ha guardato con i suoi occhi azzurri e mi ha ripetuto: «Avvocato, non voglio che succeda ad altre quello è successo a me». E così ha riferito ogni umiliante dettaglio senza chinare il capo. E giustizia è stata fatta e lei ha iniziato a vedere il suo futuro con fiducia, fiera del suo coraggio, che l’ha resa più forte, l’ha resa libera.
*Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore dell’Eurispes.
[1] I dati raccolti dall’Istat dimostrano che negli ultimi decenni gli omicidi di uomini e donne sono gradualmente diminuiti in termini assoluti, mentre gli omicidi di donne sono calati, ma in misura proporzionalmente minore (come emerge dal seguente articolo:https://www.istat.it/statistiche-per-temi/focus/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne/).
[2] In questo caso, il ragazzino viene bullizzato in quanto definito sui social un incel, neologismo inglese derivante da involuntary celibate, celibe involontario. I membri della comunità incel ritengono che la rivoluzione sessuale, consentendo alle donne la libertà di scegliersi un partner, ha fatto sì che queste selezionassero solamente gli uomini più in alto nella scala sociale, lasciando senza opportunità gli uomini più sfavoriti. Sulla base di questa quantomeno opinabile teoria si sono moltiplicate ideologie misogine, volte ad annientare o punire le “donne ribelli” al fine di affrontare le proprie frustrazioni.
[3] “Femminicidio” è un termine utilizzato nella sua accezione moderna (ovvero l’uccisione di una donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso di possesso) nel 1977 nell’opera “Le violentate” (SugarCo Edizioni) della giornalista Maria Adele Teodori. È stato più ampiamente utilizzato negli ultimi anni, nel corso dei quali stiamo assistendo a una maggiore attenzione nei confronti delle forme di sopraffazione, violenza e diseguaglianza che vedono vittime le donne. Per femminicidio si intende l’uccisione di una donna in quanto tale, spesso vittima per essersi ribellata al ruolo sociale impostole da una cultura che tenta di imporre la subordinazione del genere femminile, il suo assoggettamento, fino all’annientamento dell’identità. La necessità di caratterizzare tali omicidi con un termine specifico è nata dal fatto che la quasi totalità degli omicidi di donne (circa l’82%) avviene per motivi di genere, per mano di persone conosciute o in ambito domestico. Avendo, pertanto, tale fenomeno una così ampia portata e connotazioni specifiche, richiede una adeguata forma di intervento.
[4] In estrema sintesi la L. 168/2023 ha introdotto le seguenti modifiche. Ha ampliato il novero dei reati per i quali il questore può disporre l’ammonimento del presunto responsabile di violenza domestica, ricomprendendovi anche i reati che possono assumere valenza sintomatica (cosiddetti «reati spia») quali le fattispecie di violenza privata, di minaccia aggravata, di atti persecutori, di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (il cd. revenge porn), di violazione di domicilio e di danneggiamento. Ha aumentato fino a 1/3 le pene dei reati che configurano una violenza domestica, specificamente elencati, se il fatto è commesso da soggetto già ammonito. Ha introdotto la procedibilità d’ufficio anche per alcuni reati che in precedenza richiedevano la querela di parte, qualora il fatto che integra la fattispecie sia commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito. Ha introdotto la facoltà per il Prefetto di adottare misure di vigilanza dinamica qualora, per fatti riconducibili a reati di violenza domestica, emerga il pericolo di reiterazione delle condotte.
[5] Saman Abbas è una ragazza di origine pakistana uccisa dai familiari nel 2021 a Novellara (RE), poiché aveva tentato di ribellarsi a un matrimonio combinato dai genitori.