L’intersezione tra giustizia penale e sofferenza umana richiama una delle tensioni più profonde e irrisolte del diritto. Il caso della madre che, a Milano, ha involontariamente investito il figlio di 18 mesi (Corriere della sera, 20 giugno 2025) provocandogli lesioni permanenti, solleva questioni etiche e giuridiche. La successiva richiesta di archiviazione del pubblico ministero, fondata sul riconoscimento della sofferenza provata, porta a riflettere sul concetto – non codificato e dibattuto – di pena naturale.
Il dolore diventa punizione
L’espressione “pena naturale” si usa per descrivere quei casi in cui un soggetto, pur autore di un fatto penalmente rilevante e in assenza di dolo, subisce, a seguito dell’evento, un danno esistenziale così devastante da mettere in dubbio l’opportunità stessa di una sanzione statale. La pena è detta naturale perché non imposta dall’ordinamento, ma generata dall’esperienza intima della tragedia. La categoria, sebbene non prevista dalla legge, si colloca tra il principio di umanità della pena e la finalità rieducativa sancita dall’art. 27, comma 3, della Costituzione. È, in fondo, una forma di espiazione privata che assorbe il senso e la funzione della pena pubblica.
Il dolore precede la legge
Nel caso della madre milanese, l’errore ha dato avvio a un percorso di sofferenza emotiva e psicologica profonda, che nessuna pena potrà mai eguagliare. Il dolore vissuto trascende ogni sentenza. Perdere o ferire un figlio, soprattutto per causa propria e in modo accidentale, è un evento che segna per sempre, più di qualsiasi condanna. La frase del pubblico ministero – «la donna sconta già un ergastolo» – fotografa bene questa realtà.
I limiti del diritto davanti all’umanità
Nonostante però la drammaticità della situazione, l’applicazione della pena naturale nel nostro ordinamento incontra ostacoli insormontabili, radicati negli stessi princìpi che informano il rispetto delle norme penali e in primo luogo la “personalizzazione” della pena, in ossequio ai precetti costituzionali. Anche davanti a tragedie simili, l’ordinamento mantiene limiti. L’idea della pena naturale, infatti, si scontra con i princìpi cardine del diritto penale: personalizzazione della pena, rispetto dei precetti costituzionali, e soprattutto principio di legalità. Una giustizia guidata dal pathos rischierebbe di perdere il baricentro della propria funzione, offrendo margini per censure di coerenza e uniformità.
Il diritto è garanzia, non empatia
Il principio di legalità racchiude le garanzie costituzionali al riguardo. Riserva di legge, tassatività e determinatezza delle fattispecie, irretroattività delle norme penali. Per paradosso, l’ulteriore “umanizzazione” del trattamento penale per valorizzare il dolore irriducibile di chi abbia provocato involontariamente un danno enorme finirebbe per negare in radice gli stessi presupposti di umanità su cui si basa lo Stato di diritto. Una soluzione appunto incoerente. La pena naturale sfugge ai criteri di prevedibilità e calcolabilità del diritto: è etica, soggettiva, difficile da delimitare. Non può sostituire il giudizio, né diventare un’esenzione dalla responsabilità penale. Infatti la “pena naturale” si pone oltre i limiti di determinatezza delle fattispecie e delle sanzioni, operando in un campo, etico e giuridico, rischiosamente sfuggente e indeterminato. Per questo mina l’equilibrio delle garanzie: non può sostituire il giudizio, né diventare un’esenzione implicita dalla responsabilità penale. L’estrema umanizzazione del diritto getta ombre pericolose sullo statuto delle garanzie del cittadino, che invece esige certezza e rifugge dall’imponderabile. La giurisprudenza è chiara: questa pena può al massimo rilevare come elemento in sede di valutazione discrezionale, ad esempio per l’esercizio dell’azione penale o per l’attenuazione della sanzione, ma non costituisce una causa autonoma di non punibilità.
La misura e i suoi confini
Il principio di legalità è ciò che definisce il perimetro dell’illecito e protegge ogni individuo dall’arbitrarietà: impedisce che la pena dipenda da valutazioni soggettive o emotive, e questa considerazione resta vera anche nelle situazioni di massima sofferenza. Il diritto non può permettersi di essere instabile, nemmeno quando la compassione lo tenta. La rigidità del principio di legalità, che impedisce l’applicazione delle pene naturali nel diritto penale formale, è la garanzia fondamentale per il cittadino. Assicura prevedibilità e certezza del diritto, contrasta ogni arbitrio. In particolare, preclude che la pena dipenda da valutazioni soggettive o emotive, anche nelle situazioni di massima sofferenza. Come ricorda la dottrina, se la giustizia abdica alla propria razionalità in favore dell’empatia, perde la propria funzione di garanzia. Ciò che nasce per umanizzare finisce col trasformarsi in disuguaglianza.
La garanzia è protezione ma anche inevitabilmente limite. Ogni reato e ogni pena devono essere esplicitamente previsti dalla legge, e la loro applicazione non può dipendere dalla discrezionalità soggettiva del giudice o del pubblico ministero. Neanche di fronte a situazioni umane di estrema sofferenza, nelle quali la mente umana smarrisce il senso di sé. Se la giustizia rinuncia alla propria razionalità in favore dell’empatia per motivi umani comprensibili, incrina la propria funzione di garanzia. Il diritto che cede alla compassione si trasforma in diseguaglianza.
Pena naturale: restare umani, restare giusti
Il caso della madre milanese non è solo una vicenda giuridica: è una ferita aperta per la coscienza collettiva. Un potente richiamo al limite invalicabile tra la logica del diritto e la profondità della sofferenza umana. È un evento che ci costringe a confrontarci con una delle domande più antiche e complesse: come può la giustizia, nella sua necessaria astrazione, rendere conto della singolarità del dolore più atroce? Il diritto, per sua natura, non può e non deve identificarsi con il dolore. La sua forza risiede proprio nella capacità di distanziarsi dall’emozione immediata per garantire obiettività, prevedibilità e uguaglianza di trattamento per tutti. Se ogni caso venisse giudicato unicamente sulla base dell’intensità del dolore provato dall’agente, il sistema collasserebbe in un arbitrario groviglio di eccezioni, perdendo quella certezza che è la sua prima garanzia per i cittadini. La legalità, con le sue regole chiare e i suoi confini definiti, ci protegge non solo dall’abuso di potere, ma anche dall’arbitrio delle emozioni. Eppure, questa necessaria distanza non significa freddezza o indifferenza. Al contrario, la vera sfida per un sistema giuridico maturo è quella di misurarsi con la sofferenza, anche la più indicibile, senza però cedere alla tentazione di annullare i propri princìpi fondanti. Misurarsi con il dolore significa riconoscerne l’esistenza, valutarne l’impatto sulla vita dell’individuo, e considerare come esso possa rientrare, entro i margini consentiti dalla legge, nella complessiva valutazione del caso.
*Angelo Perrone, è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli.