HomeDirittoIl dibattito sul femminicidio, l’appello oltre gli schemi

Il dibattito sul femminicidio, l’appello oltre gli schemi

di
Angelo Perrone *

L’appello di circa 80 docenti giuriste contro l’introduzione di un reato autonomo di femminicidio sorprende solo ad un’osservazione superficiale. Può sembrare anomalo che siano proprio le donne, per di più giuriste, a sollevare obiezioni e critiche. Non dovrebbero essere proprio loro le prime a sostenere un’iniziativa così specifica contro la violenza di genere? Passi per qualche accademico, magari di fama, con il difetto d’essere maschio e l’aggravante dell’età non proprio verde. Si sarebbe potuto comprendere in questo caso, la combinazione maschio-età rappresenta indizio grave di mentalità patriarcale refrattaria al cambiamento. Invece, a prima vista, non ci saremmo aspettati una presa di posizione negativa proprio da esponenti del genere femminile. Sennonché, le cose avrebbero preso tale verso, se fossero scattati certi schematismi, questi sì vetusti e grossolani. Le donne difendono le donne, gli uomini in quanto tali sono contro. L’apparenza può prescindere dalla sostanza, e a garantire i risultati bastano le intenzioni. Inutile lo sforzo di apprezzare consistenza, efficacia, coerenza dei progetti. Il pericolo è che battaglie giuste, come la difesa del femminile, siano solo un simbolo.

Le ragioni per un approccio sui dati concreti

Eppure, per eliminare i fraintendimenti, le promotrici, Milli Virgilio e Silvia Tordini Cagli dell’Università di Bologna, sono state esplicite a partire da un punto. «Dove è stato introdotto, (il reato di femminicidio) non ha portato alla diminuzione delle donne uccise. Noi vogliamo aprire un dibattito che tenga conto della complessità del fenomeno, altrimenti si rischia la propaganda». Nessun equivoco sulle motivazioni. E nessun dubbio sui contenuti del testo. Le sottoscrittrici dell’appello non si sono fermate alla superficie, hanno scavato nel profondo. Non sono le sole, peraltro, uomini e donne, accademici, esperti e giudici, la società civile. Le osservazioni contenute nel documento riflettono un dibattito complesso, già da tempo in atto, nel mondo giuridico e sociale. Sebbene la necessità di contrastare la violenza di genere sia ampiamente condivisa, le ragioni alla base di questa contrarietà sono sostanziali. L’efficacia di una nuova norma deriva da valutazioni approfondite, che intrecciano aspetti specifici sulla formulazione delle fattispecie a quelli sistematici (rapporto con altre misure), a quelli infine di opportunità persino “politica”, intesa come idoneità a perseguire lo scopo addotto. Una prospettiva non nuova che investe oggi gran parte della legislazione più recente.

L’inutilità del reato autonomo di femminicidio sul piano sanzionatorio

L’argomento principale avanzato dalle giuriste, e condiviso dalla letteratura scientifica, contro il reato di femminicidio è la sua inutilità sul piano sanzionatorio. Il sistema penale, grazie a recenti riforme (come quelle che hanno rafforzato le aggravanti legate ai rapporti familiari o al movente dell’odio), già consente di applicare la pena massima, incluso l’ergastolo, per omicidi di donne commessi in contesti di violenza di genere. L’omicidio di una donna “in quanto donna” o per motivi di discriminazione è già sanzionabile con la pena più grave attraverso le aggravanti esistenti (es. legame affettivo, futili motivi, crudeltà, premeditazione, odio razziale o religioso ora estensibile anche all’odio di genere). La conoscenza della giurisprudenza di merito e di legittimità dà conto ampiamente del riconoscimento di tali aggravanti in relazione agli omicidi di donne, dimostrando che il quadro normativo già consente di sanzionare adeguatamente tali fatti gravissimi. Pertanto, l’introduzione di un nuovo reato non aumenterebbe l’effettività della pena, ma sarebbe un duplicato normativo. Creare una nuova fattispecie di reato, in questi casi, non aggiunge deterrenza, ma alimenta l’illusione che una nuova etichetta normativa possa risolvere un problema strutturale. È l’archetipo della risposta emergenziale: un fatto grave scuote l’opinione pubblica, e la politica si sente in dovere di produrre una “legge” come fosse un antidoto magico, ignorando che gli strumenti ci sono già e andrebbero solo applicati con rigore.

I rischi di indeterminatezza e i problemi probatori

Un reato di femminicidio autonomo potrebbe presentare seri problemi di determinatezza della fattispecie, ovvero di precisione nel definire quando un omicidio debba essere considerato “femminicidio”. Come si prova, ad esempio, che l’uccisione sia avvenuta “in quanto donna” o “per discriminazione di genere”? Si rischia di spostare il processo sull’accertamento delle intenzioni più che sulla materialità del fatto, rendendo più complessa e incerta la prova in tribunale e potenzialmente esponendo l’imputato a un “processo alle intenzioni”.

Il principio di uguaglianza e la parità di trattamento

Inoltre, sebbene il femminicidio sia un fenomeno specifico e gravissimo, l’introduzione di un reato autonomo solleva questioni di coerenza con il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Punire in modo specifico l’omicidio di una donna in quanto tale, senza un corrispettivo per altre categorie di vittime (es. omicidio di un uomo in quanto uomo, o in base all’orientamento sessuale, ecc.), potrebbe apparire come una discriminazione inversa o un’eccessiva segmentazione del sistema penale, introducendo “reati d’autore” anziché “reati di fatto”.

Reato di femminicidio, valenza simbolica vs efficacia

La creazione di nuove fattispecie di reato, frutto di reazioni emotive a casi di cronaca, ha un’alta valenza simbolica o politica, ma scarsa efficacia concreta nella repressione del fenomeno, tanto meno nella prevenzione. Il diritto penale, se non supportato da politiche sociali, educative e culturali ampie, rischia di essere uno strumento “a costo zero” che non incide sulle radici profonde della violenza di genere. L’enfasi sul “nuovo reato” distoglie l’attenzione dalle misure preventive e di supporto alle vittime, più urgenti ed efficaci.

Inflazione e frammentazione normativa, il reato di femminicidio nasconde un diritto penale “di facciata”

Inoltre poiché il diritto penale dovrebbe essere non solo l’ultima risorsa ma un tessuto normativo razionale e coerente, la continua produzione normativa comporta il rischio di una frammentazione esasperata che amplia i problemi di coordinamento e di interpretazione sistematica, sino al paradosso dell’incoerenza e della confusione. Il disegno di legge sul femminicidio è solo un esempio, non l’unico, di una pericolosa tendenza nella storia legislativa italiana, sempre più evidente. Inseguire le emergenze, formulare risposte normative settoriali, circoscritte sempre più a fenomeni o addirittura casi specifici, senza una visione di alto profilo. La conseguenza non è solo inflattiva, è la creazione di un diritto penale “di facciata”, simulacro normativo che, lungi dall’affrontare i problemi, rischia di indebolire le fondamenta dello Stato di diritto e di nuocere al perseguimento dei suoi obiettivi costituzionali.

*Angelo Perrone, è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli.

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