La nostra Costituzione fatta di solidarietà e uguaglianza: intervista al Presidente Giovanni Maria Flick

Pubblichiamo di seguito l’intervista realizzata per il nostro magazine con il Prof. Giovanni Maria Flick, giurista e politico, Ministro di grazia e giustizia del primo Governo Prodi e Presidente della Corte Costituzionale nel 2008, Professore emerito di Diritto penale all’Università Luiss di Roma.

Professor Flick, parliamo di autonomia differenziata. Cito le parole che lei ha usato in una sua recente intervista con Il Manifesto: «La posta in gioco è di salvaguardare la Costituzione di fronte a una prospettiva di riforma che minaccia di sconvolgere completamente il tessuto costituzionale».

Premetto che non intendo esprimermi sul tema dell’ammissibilità del referendum per il mio ruolo attuale di Presidente del Comitato di Coordinamento, e per quelli passati di giudice e, poi, di Presidente della Corte Costituzionale. Ciò detto, per comprendere da cosa derivi lo sconvolgimento del sistema costituzionale, bisogna fare una valutazione d’insieme di tre riforme: il premierato, l’autonomia differenziata, le modifiche al sistema della giustizia. La prima riforma è bandiera di uno dei partiti componenti dell’alleanza politica attuale, cioè Fratelli d’Italia. L’autonomia differenziata è attuata per legge ordinaria rinforzata con l’appoggio della Lega. La terza riforma, quella della separazione delle carriere e di un intervento di sistema sulla giustizia, è sostenuta da Forza Italia. Se tutte vanno in porto, siamo dinanzi a un cambiamento radicale del nostro sistema costituzionale.

Qual è, in sintesi, il problema della prima riforma, cioè quella del premierato?

Per quanto riguarda il premierato, il problema risiede nel confronto tra la figura del Capo dello Stato e la figura del Presidente del Consiglio. Non entro nei contenuti. Mi pare però che una riforma la quale preveda la differenza di elezione – il Capo dello Stato da parte del Parlamento, pure in seduta allargata, e il Premier attraverso l’indicazione sulle schede elettorali – porti evidentemente a una delegittimazione del primo e a un rafforzamento della legittimazione del secondo. Si tratta di uno scompenso nel delicato sistema di check and balance che la nostra Costituzione ha cercato di assicurare. È chiaro che occorrerebbe rivedere notevolmente le competenze del Capo dello Stato, il quale rischia di vedersi ridotto a un ruolo formale. Non mi pare che sia questo il problema del nostro Paese, soprattutto in un momento in cui la fiducia nel Capo dello Stato è esternata in modo molto evidente come figura che, al di fuori del contrasto politico, è pilastro di garanzia dell’effettività e della funzionalità della Costituzione. Una garanzia che si realizza soprattutto attraverso la ricerca, da parte del Presidente della Repubblica, di un equilibrio che è assicurato proprio dalle sue uniche due forti prerogative formali: essere rappresentante dell’unità nazionale e primo garante della Costituzione, la nomina del Presidente del Consiglio – cui seguirà la fiducia sul Governo – e il diritto/dovere di sciogliere le Camere quando non esprimono una maggioranza che possa dar vita a un Governo.

Ha parlato del premierato. Vorrei chiederle una riflessione sulla separazione delle carriere dei magistrati e, più in generale, sull’intervento sulla giustizia.

Personalmente, sono perplesso sulla separazione delle carriere dei magistrati, anche alla luce dell’esperienza che ho vissuto come Ministro della Giustizia e, prima, come avvocato. Sono convinto che separare il pubblico ministero dalla struttura dell’ordinamento giudiziario significhi creare un ordinamento ad hoc, un proprio Consiglio Superiore, una riferibilità che potrebbe diventare agevolmente una riferibilità politica. O come nel sistema francese, dove il pubblico ministero dipende dall’Esecutivo, oppure come nel sistema americano dove, all’opposto, il pubblico ministero viene eletto. Io credo che noi non siamo adatti né all’uno né all’altro sistema. Il problema di base, così come prospettato dalla polemica mediatica, è quello di un controllo sul pubblico ministero. Per mantenere la posizione riconosciuta e voluta dalla Costituzione, e facendo parte dell’ordinamento giudiziario, l’unico controllo che può essere attuato sul pubblico ministero è, a mio avviso, quello dei giudici.

Da dove nasce la polemica mediatica?

Ho la sensazione che la sovraesposizione di alcuni pubblici ministeri, con iniziative che poi si sono rivelate infondate o che si sono rivelate esagerate, riduca il tasso di fiducia nei confronti dell’Istituto. Non credo che il problema si risolva attraverso il riconoscimento della separazione dell’Istituto. Credo e temo, piuttosto, che la separazione del pubblico ministero dai giudici possa determinare un aumento della conflittualità non più – come è adesso – tra magistrati e avvocati, ma tra giudici, pubblici ministeri e avvocati. Anche perché l’idea di un numero ristretto di componenti l’ufficio del pubblico ministero e di un Consiglio Superiore loro, altrettanto ristretto, potrebbe portare a sbilanciare l’equilibrio che il legislatore ha saputo trovare con l’attuale organizzazione del Consiglio Superiore della Magistratura. Non spetta a me valutare se l’interventismo del Consiglio Superiore della Magistratura sia, ad esempio, eccessivo nella materia di difesa dei giudici. Credo che i magistrati si debbano difendere non con il patrocinio di una parte politica o con una stampa legata all’una o all’altra parte politica, e nemmeno con una solidarietà di corporazione, ma con la loro serietà e la loro operatività.
Non mi pare quindi che una separazione del pubblico ministero porterebbe a soluzioni positive in questa situazione totalmente dissestata della nostra giustizia.

La fiducia nella giustizia non è sempre incoraggiante.

I problemi che abbiamo, a mio avviso, risiedono in una forte domanda di sicurezza, che viene enfatizzata a livello mediatico e strumentalizzata politicamente. Il modo in cui si intende rispondere a questa domanda è un intervento altrettanto forte del diritto penale. Si tratta della famosa teoria del panpenalismo: risolvere i problemi della diversità solo ed esclusivamente con l’estrema ratio dell’intervento penale, della sanzione. In questo panpenalismo, poi, c’è un ulteriore argomento pericoloso: il pancarcerismo, ritenere, cioè, che l’intervento penale abbia efficacia solo se si fonda sull’uso della detenzione, sia essa custodia preventiva o espiazione di pena.

Mi pare di capire che il suo punto di vista sia differente.

Ho vissuto per un’intera vita il diritto in tutte le sue sfaccettature. Il ricorso alla sanzione penale è aumentato moltissimo. Ma il prezzo del ricorso alla sanzione penale ha in genere due effetti: o la sanzione penale non viene applicata perché i giudici hanno troppo lavoro, o l’applicazione della sanzione penale, sotto la forma della custodia cautelare, porta al sovraffollamento delle carceri.
“Continuiamo su questa strada” è una risposta politica e mediatica che a me non sembra adeguata. Andando avanti su questa strada, non si farà che inasprire ulteriormente i contrasti tra politica e giustizia, e tra avvocati e magistrati. Con questi ultimi, i magistrati che, se divisi, rischieranno di dare vita a un contrasto a tre: giudici-pubblici ministeri-avvocati.

Da dove nasce il contrasto tra politica e magistratura?

Dalle esondazioni del politico che vuol fare il giudice, e da quelle del giudice che vuol fare il politico. Non spetta a me dire quali siano i limiti, ma alcune volte ho la sensazione che certe forme di intervento da parte dei magistrati siano enfatizzate e acquistino un significato politico sbagliato. Oppure, all’opposto, che certe invasioni di campo della politica nel regime della giustizia siano altrettanto sbagliate.
La mia idea personale è che la politica abbia finito per disinteressarsi dei problemi della giustizia, lasciandoli ai tecnici del diritto – ai magistrati e agli avvocati – salvo intervenire pesantemente in alcune ipotesi in chiave politica.
La conclusione che ne traggo è che la separazione delle carriere, di fatto già concretamente prevista dalla Costituzione, finisca per non risolvere in alcun modo il problema.

Sui limiti dell’autonomia differenziata lei ha avuto modo di esprimersi anche in Parlamento, nel corso di un’audizione. Possiamo parlarne?

Per quanto riguarda l’autonomia differenziata, vorrei partire da un presupposto. Noi siamo in Europa. L’Europa è essenziale sul piano della difesa che non riesce ad attuare, sul piano della coesione e dell’organizzazione anche finanziaria, ed è essenziale sul tema delle regole comuni.
Il “Rapporto Draghi” e il “Rapporto Letta” – che cito solo a titolo di esempio – ribadiscono l’assoluta necessità, rispetto all’evoluzione della situazione globale, di rafforzare la coesione tra i paesi europei, una situazione nella quale – per dirla con una battuta – gli Stati Uniti inventano e producono; la Cina, che prima copiava e produceva, utilizza ciò che ha acquisito e produce; l’Europa fa le regole. Qual è il rischio? Che si tratti di regole che non vengono applicate o che vengono ignorate dai veri protagonisti dell’economia. Gli Stati Uniti guardano al Pacifico e non più all’Atlantico, l’Europa è nel concreto sempre più ridimensionata e svalutata. E che cosa accade? Che in quanto soggetto più “debole” trova una via d’uscita nella regolazione. Una formazione delle regole che, però, di fatto non è in grado di incidere. Forse sono supposizioni e preoccupazioni di un pessimista, ma io le registro e dico quello che penso.

Che cosa ha a che vedere tutto questo con l’autonomia differenziata?

Che mentre in Europa si cerca di realizzare ancor di più l’unione, in Italia si fa l’opposto. Puntiamo certamente al rafforzamento del vertice attraverso il premierato, ma trasformiamo, alla base, l’altra fondamentale regola della convivenza sociale: il pluralismo e la solidarietà. Passiamo da venti Regioni a venti piccole Repubbliche. Questo finisce per andare ben al di là del rapporto di equilibrio che l’articolo 5 della Costituzione delinea tra decentramento e unità. Tanto è vero che la Costituzione parla esplicitamente di decentramento funzionale, cioè delle funzioni.
Il tema della competenza legislativa regionale, nella prima attuazione della Costituzione negli anni Settanta vedeva una competenza legislativa regionale limitata ad alcuni settori di particolare specificità, e quindi di interesse delle Regioni, quale pesca, caccia, turismo. A partire dalla Riforma del Titolo V – riforma fatta male e con una maggioranza risicatissima –, con la “legge Calderoli” questa competenza legislativa regionale ha dilagato.

Sintetizzo: l’Europa vive se si unisce, l’Italia rischia di dividersi in tante piccole Repubbliche contemporaneamente. Quali sono gli altri aspetti problematici dell’autonomia differenziata?

Un secondo problema riguarda il fatto che questa legge mette sullo stesso piano tutte le competenze legislative previste oggi dalla Costituzione. Prevede che tutte possano essere richieste attraverso una serie di trattative singole tra il Governo e le singole Regioni. Distingue però, in modo poco chiaro, le materie a cui non sono applicabili i livelli essenziali delle prestazioni da quelle a cui invece sono applicabili e che coinvolgono i diritti civili e sociali. Questi devono essere uguali per tutti i cittadini e, entro certi limiti, anche per gli stranieri che sono in Italia. Come è possibile che ci siano delle materie senza eguaglianza dei livelli essenziali delle prestazioni? Mi riferisco ai rapporti internazionali e con l’Unione europea, al commercio con l’estero, alle professioni, alla protezione civile, alla previdenza complementare e integrativa, al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, alle casse di risparmio, rurali, aziende di credito a carattere regionale, agli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Per non parlare del fatto che per smistare le funzioni tra Stato e Regione occorre una legge: i livelli essenziali delle prestazioni devono essere stabiliti per legge, non basta un elenco ma bisogna vedere, concretamente, come si garantisce l’iscrizione a bilancio dei fondi.

E poi c’è il tema dei costi.

A fronte delle segnalazioni della Banca d’Italia e degli Uffici di bilancio parlamentari, sia della Camera sia del Senato, i costi globali dell’operazione sono stati ignorati completamente. A questo proposito sono solito fare l’esempio della torta. Una torta la si può dividere in tanti spicchi quanti sono i commensali, oppure si può cominciare a suddividerla, dandola a chi la chiede per primo. Siamo sicuri che alla fine la torta basterà per tutti? La Costituzione dice che ci deve essere invarianza finanziaria, cioè che la torta deve bastare per tutti. Anzi, la Costituzione chiedeva – cosa che non è stata fatta – che si realizzasse finalmente l’autonomia fiscale degli enti locali. Aver ridotto il tutto a un’intesa tra la singola Regione e il Governo è proprio una filosofia sbagliata. Tanto più che noi abbiamo un sistema costituzionale che prevede due tipi di Regioni: quelle a Statuto ordinario e quelle a Statuto speciale. Queste ultime nacquero per Costituzione in un frangente in cui l’Italia attraversava un momento molto difficile. La Sicilia e la Sardegna, una caratterizzata dalla ricorrente aspirazione al separatismo, l’altra da una ricorrente miseria; la Valle d’Aosta, con l’avidità dei francesi che pensavano che si dovesse parlare francese; il Trentino Alto Adige con il discorso dell’irredentismo altoatesino; il Friuli, il cui problema è emerso drammaticamente all’implosione della ex Jugoslavia. Io non credo che si possa scardinare con legge ordinaria una distinzione voluta dalla Costituzione.

Le differenze tra Nord e Sud restano un problema nel nostro Paese.

Sono convinto che accanto all’eguaglianza una delle connotazioni del nostro sistema costituzionale sia la solidarietà. Solidarietà vuol dire anche rispetto delle diversità. Non penso che si possano dare per scontate diversità tra Sud e Nord dovute a ragioni fisiche – paesaggio, territorio – o alla criminalità organizzata, all’analfabetismo, ecc. Tutti elementi che mi auguro stiano scomparendo o attenuandosi almeno in parte. Intendo dire che rischiamo di scegliere la via di un federalismo competitivo, anziché di un federalismo solidale. Il tema della coesione impone una ripartizione delle risorse.

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