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Quando sembrare impegnati conta più che esserlo: il ritorno in ufficio e l’ombra del Task Masking

di
Andrea Laudadio*

Il ritorno in ufficio (Return To Office – RTO) è ormai una realtà consolidata per molte aziende, ma con esso sta emergendo un fenomeno tanto discusso quanto sintomatico delle attuali dinamiche lavorative: il Task Masking. Un termine che descrive l’arte, sempre più diffusa, di simulare produttività attraverso una serie di comportamenti performativi, senza che a ciò corrisponda un reale contributo lavorativo. Un articolo di Fortune definisce il “task masking” come lo sforzo di sembrare di lavorare sodo, pur lavorando pochissimo. Avete mai notato colleghi, specialmente tra i più giovani della Generazione Z (ma non solo), che sembrano perennemente immersi in attività frenetiche? Tastiere che risuonano con impeto, partecipazioni a riunioni chiaramente superflue o prolungate ad arte, un continuo peregrinare per l’ufficio con laptop sottobraccio e un’espressione di intensa concentrazione. Ecco, potreste essere testimoni diretti del task masking. Questo comportamento, come evidenziato da Amanda Augustine, career coach di Career.io, è spesso una risposta diretta ai mandati di RTO. Le aziende che richiedono la presenza fisica inviano implicitamente il messaggio che “essere visibili equivale a essere produttivi”. E così, i dipendenti, in particolare quelli della Gen Z che hanno magari iniziato il loro percorso professionale in contesti di lavoro da remoto più autonomi, si adattano mettendo in scena la produttività.

Le radici profonde di una messa in scena: burnout, cultura della presenza e comunicazione inefficace 

Ma perché si arriva a tanto? Le cause sono molteplici e complesse:

  • Metriche obsolete e Cultura della Presenza: Molte organizzazioni persistono nel valutare i dipendenti su parametri quantitativi come le ore di presenza o la rapidità di risposta alle email, piuttosto che sui risultati concreti. Questo “presenteismo” spinge a privilegiare l’apparenza rispetto all’efficacia.
  • Burnout e ricerca di equilibrio: Secondo uno studio di Resume Now, il 58% dei dipendenti pratica il “ghostworking” per gestire stress e sovraccarico. La pressione dell’essere “always on” (sempre connessi) porta molti, specialmente i giovani, a mascherare periodi di inattività come strategia di sopravvivenza.
  • Mancanza di fiducia e comunicazione inefficace: Un’indagine di HR Morning ha rivelato che il 54% dei dipendenti disimpegnati si limita al “minimo indispensabile”, spesso a causa di micromanagement o obiettivi poco chiari. Questa mancanza di dialogo crea un circolo vizioso.
  • Non solo i giovani: Sebbene la Gen Z sia spesso sotto i riflettori, il task masking non è una loro esclusiva. Uno studio di Workhuman rivela che il 37% dei manager e il 38% dei dirigenti ammette di aver simulato produttività.

Le manifestazioni del task masking

Le tattiche sono varie e creative, come riportato da diverse fonti, tra cui The Guardian e Fortune:

  • Digitazione rumorosa o movimenti frenetici della tastiera per simulare attività.
  • Partecipazione a riunioni non essenziali o allungamento artificiale dei tempi di completamento di compiti semplici.
  • Spostamenti frequenti in ufficio con laptop o documenti, spesso accompagnati da espressioni facciali concentrate.
  • Utilizzo di software che mimano l’attività del mouse o della tastiera per evitare l’inattività digitale.
  • Indossare perennemente le cuffie per sembrare impegnati in call, come notato da Gabrielle Judge, la “Anti Work Girlboss” intervistata da The Guardian.

Fenomeni correlati: non solo task masking

Il task masking non è un fenomeno isolato, ma si inserisce in una galassia di comportamenti simili, nati spesso dalle stesse criticità del mondo del lavoro contemporaneo:

  • Ghostworking: Consiste nel simulare impegno, spesso per gestire lo stress e il sovraccarico. Se il task masking è una performance attiva di “visibilità impegnata” in ufficio in risposta ai mandati RTO, il ghostworking può essere una strategia più discreta per ritagliarsi spazi di decompressione o addirittura per cercare un nuovo impiego durante l’orario di lavoro (il 92% di chi lo pratica inizia a cercare attivamente nuovi impieghi ).
  • Fauxductivity (produttività fittizia): Termine che appare in diverse analisi, la “fauxductivity” è un concetto più ampio che descrive l’apparenza di produttività senza una reale sostanza. Potremmo considerarla una categoria generale sotto cui si collocano sia il task masking, con le sue tattiche performative specifiche dell’ambiente d’ufficio, sia il ghostworking, più legato alla gestione individuale del carico di lavoro. Secondo alcune fonti, oltre un terzo dei lavoratori britannici ammette di praticare la “produttività fittizia”.
  • Retaggi culturali: L’idea di “sembrare impegnati” ha radici lontane. The Guardian ricorda come già trent’anni fa, il personaggio di George Costanza nella serie Seinfeld avesse una teoria: “Sembri sempre seccato. La gente penserà che tu sia impegnato”. Più recentemente, la scrittrice Anne Helen Petersen ha coniato l’espressione “LARPing your job” (Live Action Role Playing applicato al lavoro), per descrivere la messa in scena del lavoro sia in presenza che digitalmente.

Questi fenomeni, seppur con sfumature diverse, condividono una radice comune: la disconnessione tra la percezione aziendale della produttività (spesso legata alla presenza e all’attività visibile) e l’effettivo valore generato dal lavoro.

Un sintomo, non una malattia

Come sottolinea Jenni Field, CEO di Redefining Communications, «se una persona non vuole lavorare, troverà un modo per farlo, indipendentemente dal contesto». Il task masking, quindi, più che pigrizia, è spesso un sintomo di problemi più profondi. Cierra Gross di Caged Bird HR, citata da The Guardian, lo definisce un sintomo di questioni più ampie legate alla gestione dei talenti e al desiderio dei manager di riavere le persone in ufficio, a volte solo per una questione di apparenza. Le conseguenze sono tangibili. Per le aziende, un calo della produttività reale – Asana stima che il 60% del tempo lavorativo sia speso in “lavoro sul lavoro” come riunioni e email – sviluppo di una cultura tossica basata sulla performatività e aumento del turnover – il 92% di chi pratica ghostworking cerca attivamente un nuovo impiego ). Per i lavoratori: stress aggiuntivo derivante dal dover “recitare una parte”, rischio di burnout e stagnazione professionale, poiché l’energia è concentrata sull’apparire anziché sul produrre risultati concreti e sviluppare competenze.

Il task masking è un invito a riflettere sulle dinamiche interne aziendali

Che cosa possono fare le aziende? Come suggerisce Victoria McLean di City CV, citata da Fortune, «se i dipendenti mascherano le attività, la domanda non è “perché non lavorano di più?”, ma “perché non sentono che il loro lavoro reale sia valorizzato?”». Ignorare questi segnali significa perpetuare inefficienza e insoddisfazione. La soluzione non risiede in un maggiore controllo – che peraltro può includere software di sorveglianza sempre più pervasivi, sia in remoto che in ufficio – ma in una rielaborazione culturale:

  1. Ridefinire le metriche di successo: Spostare il focus dalle ore lavorate agli obiettivi raggiunti e all’impatto reale.
  2. Promuovere autonomia e fiducia: Ridurre il micromanagement. Uno studio di Harvard Business Review ha mostrato che ridurre le riunioni del 40% può aumentare la produttività del 71%.
  3. Migliorare il benessere lavorativo: Implementare programmi di supporto e chiarire le priorità aziendali. Il 44% dei dipendenti impegnati in “produttività fittizia” cerca un migliore equilibrio vita-lavoro.
  4. Comunicazione trasparente: Definire obiettivi condivisi e incoraggiare un feedback bidirezionale. Come evidenzia Jennifer Moss, esperta di cultura organizzativa, «il task masking è un segnale che i dipendenti non hanno lavoro significativo da fare o non si sentono sicuri nell’ammettere tempi morti».

In conclusione, il task masking e i fenomeni correlati sono un campanello d’allarme che le organizzazioni non possono permettersi di ignorare. È un invito a riflettere criticamente sulle proprie dinamiche interne, a valorizzare il lavoro autentico e a costruire ambienti in cui la fiducia e i risultati contino più della semplice, e talvolta ingannevole, presenza.

*Andrea Laudadio è a capo della Formazione e Sviluppo di TIM e dirige la TIM Academy.

Fonti

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