L’Unione europea torna a parlare di sicurezza in una fase in cui arretra su altri fronti essenziali, a partire da quello sociale e ambientale. Mentre la crisi climatica accelera e le disuguaglianze interne crescono, Bruxelles sceglie di avanzare sul terreno della difesa con il progetto di “Schengen militare”: una rete di mobilità rapida per truppe e mezzi che, nelle intenzioni, risponde al nuovo scenario strategico modellato dalla guerra in Ucraina, dalla fragilità del vicinato orientale e meridionale e dall’emergere di minacce ibride. Tuttavia, dietro la promessa di efficienza si intravede una trasformazione più profonda e silenziosa del progetto europeo, che procede senza una reale discussione pubblica e con un evidente squilibrio tra urgenza militare e urgenza sociale.
Lo Schengen militare procede senza una reale discussione pubblica e con un evidente squilibrio tra urgenza militare e urgenza sociale
Il piano della Commissione introduce tempi standard di autorizzazione, procedure doganali alleggerite e un accesso prioritario alle infrastrutture in caso di crisi. È presentato come un intervento tecnico, quasi neutrale. Ma l’aspetto determinante è politico: creare entro il 2027 un corridoio unico europeo per il transito militare significa trasferire competenze strategiche tradizionalmente nazionali al livello sovranazionale. Se la liberalizzazione della mobilità economica è stata per decenni giustificata da logiche di efficienza e integrazione, la mobilità delle truppe tocca il nucleo della sovranità democratica. Decidere chi può muovere forze armate attraverso i territori, e con quali priorità rispetto al traffico civile, non è un esercizio amministrativo: è una scelta di potere. La Commissione, appellandosi all’urgenza geopolitica e alla competizione globale, sostiene che la velocità sia diventata la variabile critica della sicurezza europea. Il Libro Bianco Prontezza 2030 rafforza questa impostazione: un’Europa più interoperabile, più standardizzata, più armata. Ma l’ossessione per la rapidità rischia di tradursi in opacità, perché la mobilità militare, in situazioni di emergenza, implica la possibilità di deviare corridoi commerciali, subordinare i trasporti civili, reindirizzare infrastrutture senza un preventivo confronto parlamentare. La formula dell’uso “duale”, che dovrebbe garantire equilibrio, rischia così di trasformarsi in un passe-partout per giustificare ogni grado di militarizzazione delle reti.
In Europa la retorica della competitività e della sicurezza sostituisce progressivamente quella della sostenibilità
Questa accelerazione avviene mentre l’Unione arretra sul fronte ambientale. Come osserva Giuseppe De Marzo, in un articolo pubblicato recentemente su L’Espresso, i contributi nazionali aggiornati per il clima sono «totalmente insufficienti» e l’Ue appare incapace di trovare convergenze sui nuovi obiettivi climatici. La retorica della competitività e della sicurezza sostituisce progressivamente quella della sostenibilità, mentre il Green Deal perde centralità, spesso sacrificato sull’altare della crisi ucraina o delle tensioni globali. Si produce così un paradosso: l’emergenza climatica – già in corso e con impatti economici crescenti – viene considerata meno “mobilitante” dell’emergenza militare, che diventa il principale motore di trasformazione istituzionale. Nel frattempo, prende forma un nuovo paradigma industriale. Bruxelles punta su deep tech, Intelligenza Artificiale, spazio e sistemi d’arma avanzati, trasformando la difesa nella leva principale dell’innovazione europea. Dopo decenni fondati su sostenibilità, concorrenza e coesione, l’Ue sembra adottare un modello più vicino a quello statunitense, dove il complesso militare-industriale orienta ricerca, standardizzazione e spesa pubblica. Una scelta di portata enorme che, però, avviene quasi senza dibattito: perché i fondi per la difesa crescono con continuità mentre quelli per welfare, sanità, istruzione e transizione ecologica restano vincolati? Quali garanzie impediranno che la ricerca militare diventi un sussidio indiretto alle grandi industrie del settore? E quali controlli democratici vigileranno su filiere opache per definizione?
Istat registra un aumento della povertà assoluta al 9,5%, con oltre 5,5 milioni di persone sotto la soglia minima
A rendere più evidente questa sproporzione interviene il quadro socioeconomico. Secondo il Rapporto SVIMEZ 2025, la crescita italiana rallenta allo 0,6% con un Mezzogiorno fermo allo 0,2%, frenato da costi energetici elevati e infrastrutture insufficienti. Istat registra un aumento della povertà assoluta al 9,5%, il livello più alto del ventennio, con oltre 5,5 milioni di persone sotto la soglia minima. Le disuguaglianze territoriali aumentano: la spesa pro capite per servizi essenziali nel Nord supera del 30% quella del Sud, mentre la dispersione scolastica torna sopra il 12%. In un contesto simile, parlare di sicurezza senza includere dimensioni come reddito, energia, salute, istruzione e clima rischia di produrre una visione amputata, incapace di cogliere la natura integrale delle vulnerabilità europee. La mobilità militare cresce, quella sociale no.
Il nuovo Schengen militare non riguarda più le persone ma i mezzi corazzati: un’immagine potente che sintetizza la direzione del prossimo decennio
Il pericolo è che l’Europa, nella corsa a proteggersi dal mondo, finisca per sacrificare parti essenziali della propria identità civile. L’autonomia strategica – concetto già scivoloso – rischia di trasformarsi in una normalizzazione dell’eccezione: più spesa militare, più centralizzazione, più integrazione sotto standard NATO, che resterà comunque il riferimento dominante. Il nuovo Schengen non riguarda più le persone ma i mezzi corazzati: un’immagine potente che sintetizza la direzione del prossimo decennio. Ma una forza che non si accompagna a consenso democratico e coesione sociale produce fragilità, non stabilità. L’Europa può rafforzarsi militarmente senza rinunciare al proprio DNA, ma solo se la sicurezza resta un concetto plurale: militare, sociale, energetica, climatica, economica. La sfida sta nel non trasformare la velocità in opacità, la necessità in automatismo, l’urgenza in alibi. In un tempo di crisi convergenti, la difesa non può diventare l’unica lente attraverso cui leggere il progetto europeo. Se così fosse, l’Unione rischierebbe di diventare più efficiente, ma meno riconoscibile; più pronta, ma meno aperta; più armata, ma meno democratica. E questa, per l’Europa, sarebbe la vulnerabilità più grande.

