Pubblichiamo l’intervista realizzata con Marco Baccanti, Direttore generale della Fondazione Innovazione e Trasferimento Tecnologico.
Che cos’è la Fondazione di cui Lei è Direttore generale?
È un’iniziativa innovativa che va a rispondere ad un bisogno, quello di migliorare le performance del trasferimento tecnologico nell’ambito degli IRCCS pubblici, in particolare della Lombardia anche se, di fatto, la Fondazione è aperta anche ad altre organizzazioni che stanno considerando di aderire. Il tema è che gli IRCCS, sono eccezionali dal punto di vista della capacità di ricerca, sono dotati di strutture di trasferimento tecnologico che si sono dimostrate abili a fare emergere risultati della ricerca e gestirli fino al brevetto, ma meno efficaci per quanto accade dopo il brevetto, per via di normative, competenze e collegamenti. Lì purtroppo abbiamo degli indicatori che a livello internazionale ci fanno capire che potremmo ambire a molto di più, vista la qualità della ricerca. Ecco dunque, l’iniziativa di creare una Fondazione di proprietà degli IRCCS che faccia tutto il lavoro a valle del brevetto, ovvero, trovare dei partner che possano investire nell’idea, portare avanti la ricerca, o attraverso degli spin-off o attraverso delle licenze. Questo è un lavoro che è stato molto difficile svolgere all’interno degli IRCCS, anche quasi impossibile dal punto di vista delle normative, e che pertanto viene svolto da questa Fondazione in nome e per conto di un gruppo molto vasto di ricercatori. Pensate che a questo punto con i partner attuali noi oggi intercettiamo una comunità di 3mila ricercatori, per conto di sette strutture di ricerca.
Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire perché per esempio il numero che ci ha appena dato, 3mila ricercatori, ha un significato particolare. Quando si parla di trasferimento tecnologico e in particolare di trasferimento tecnologico in àmbito sanitario di scienza della vita, quali sono gli elementi da tenere in considerazione perché si gettino le basi di un potenziale successo? E poi, il successo nell’ambito del trasferimento tecnologico ha delle sue metriche? Quando possiamo dire che il sistema funziona?
La metrica migliore è il paziente che un giorno trarrà beneficio dal frutto, dell’idea di un ricercatore. Questa è l’unica metrica che può essere meritevole di analisi. Per raggiungere quell’obiettivo però bisogna che a valle dell’invenzione succedano un sacco di cose. Il trasferimento tecnologico è un processo complesso in senso lato, a maggior ragione nelle scienze della vita. Quindi, nonostante 3mila ricercatori siano in effetti un esercito, di fatto riuscire ad arrivare davvero al risultato di recare beneficio a pazienti finalmente è una cosa che è molto rara e che richiede un sacco di attenzione, di energia, di investimenti, di tempo affinché avvenga.
Volendoli schematizzare, quali sono i momenti cruciali perché si arrivi, auspicabilmente, ad una molecola ‒ diciamo ‒ o ad una soluzione terapeutica che non è attualmente esistente?
Dal momento della scoperta in laboratorio è necessario che avvenga il deposito di un brevetto, per tutelare la proprietà intellettuale. Ovviamente questo deve avvenire prima di qualsiasi divulgazione, ma questa è una condizione necessaria non certo sufficiente. A valle del deposito del brevetto bisogna che ci sia una cordata di partner che si prenda cura di tutto il cammino che bisogna percorrere affinché quella scoperta diventi oggetto di ricerca cosiddetta preclinica (non sull’uomo), che ne verifichi, ne dimostri i presupposti iniziali in termini di risultati e di impatto – di solito si può fare su animali, oppure su cellule che vengono coltivate. Devono esserci poi altri studi di tossicologia, di farmacocinetica, tutte azioni molto costose, che richiedono del tempo e che sono necessarie affinché si possa chiedere il permesso di iniziare una sperimentazione sull’uomo. Se quel permesso viene ottenuto, allora succedono diverse cose. Prima di tutto bisogna sperimentare che quel farmaco non sia tossico, poi bisogna dimostrare che su piccole quantità di pazienti sia efficace e sia più efficace di quelli che sono oggi disponibili e poi bisogna espandere a livello internazionale con migliaia e migliaia di casi. Pensate che tutto questo è un lavoro che oggi può durare anche 10 anni e tipicamente può costare anche più di un miliardo di euro/di dollari e che è caratterizzato da un grande rischio, perché è molto probabile che alcune delle ipotesi iniziali che in laboratorio erano state fatte, strada facendo si scopre che non erano corrette per cui, magari dopo aver speso centinaia di milioni in sperimentazione clinica, fortunatamente per noi pazienti, si scopre che quell’idea non funziona, oppure ha degli effetti collaterali che non erano prevedibili. In quel caso bisogna sospendere tutta l’attività, buttando via gli investimenti. Le regole del gioco ormai sono queste, con una tendenza all’incremento della difficoltà. Pertanto, alla domanda cosa succede dal momento della scoperta, rispondo che bisogna coinvolgere una sequenza di partner finanziari, industriali, fornitori di sperimentazione clinica e di competenze, senza la quale nessun paziente potrà mai trarre beneficio da quella scoperta.
A questo riguardo, scaturiscono altre due domande: una è sul ruolo che in questo ecosistema, in questo processo ha l’attore pubblico; siamo in Italia, quindi sarebbe interessante comprendere se la dinamica è nazionale, se è comunitaria, se è internazionale, e l’altra è che fine hanno fatto quelli che erano considerati i player per eccellenza quando si faceva ricerca, accanto agli Enti accademici, che erano quelli che vengono definiti Big Pharma.
Ottima domanda. Il ruolo pubblico è molto importante in questi casi, ma ricordiamo che la quantità di denaro di cui stiamo parlando e la capacità organizzativa vanno ben al di là delle normali capacità di investimento del pubblico. Nel senso che tipicamente il ruolo del pubblico è di finanziare la ricerca di base: tutti i grant che possono essere utilizzati dal mondo accademico, dagli IRCCS, eccetera, servono per aumentare il livello di conoscenza di base. Non appena subentra una scoperta, è impossibile portarla avanti utilizzando denaro messo a disposizione dal pubblico, quindi è necessario il coinvolgimento del privato. Pertanto, il pubblico ha un ruolo che non è quello del finanziatore, quanto piuttosto quello di creare delle policy che siano agevoli, che consentano questi processi di coinvolgimento, detti “trasferimento tecnologico”, in modo facile, agevole, in modo che si possano ridurre gli aspetti normativi e burocratici. Quei governi, che sono stati bravi a legiferare nella misura di facilitare questi processi, hanno avuto come conseguenza la creazione di territori in cui questi processi sono avvenuti in misura maggiore, in cui il processo di innovazione è andato crescendo e questo fatto a sua volta ha comportato la creazione di quelli che noi chiamiamo ecosistemi, cioè ambienti in cui poi le strutture che finanziano si trovano a loro agio, perché hanno più progetti sui quali investire, in cui anche le grandi aziende farmaceutiche vanno volentieri a scoprire quello che c’è, perché c’è tutto un sistema di legislazione coerente, di facile fruizione che accelera il processo. Altri ruoli tipici del pubblico possono essere stati storicamente quelli di mettere a disposizione delle infrastrutture come gli incubatori, parchi scientifici, iniziative di questo tipo, ma anche norme collaterali che consentano accesso a dati, per esempio, o tassazioni agevolate. Questi sono strumenti che molti governi sono stati capaci di utilizzare e che sono poi, come dicevo, alla base del successo della capacità innovativa dei loro territori.
E invece Big Pharma?
Big Pharma; c’è stata un’interessante evoluzione nel tempo. Se noi solo 30 anni fa potevamo immaginare che gran parte delle scoperte che di fatto arrivavano sul mercato erano il risultato di attività di ricerca interna di grandi gruppi farmaceutici, oggi questo non è più vero. Da un lato la crescente complessità, la crescente multidisciplinarità, l’utilizzo di tecnologie, di know-how, si sono fortunatamente evoluti con l’incrementare della conoscenza, dall’altro questa conoscenza si è sempre più concentrata nel mondo accademico. La conseguenza è stata che è diventato sempre meno probabile, anche per grandi gruppi farmaceutici, fare leva solo sulle proprie capacità di ricerca per arrivare al successo di mercato. La conseguenza è quel fenomeno cosiddetto di open innovation, ovvero io grande azienda riduco la mia capacità di produzione scientifica, di ricerca interna, e aumento la mia capacità di scouting di ricerca, di risultati della ricerca generata dal mondo accademico. Metto i miei ricercatori e scienziati a studiare quello che fanno gli altri, al fine poi di attivare campagne di collaborazione e di investimento che mi consentano invece di fare bene la parte a valle, in cui rimango maestro – tutta la sperimentazione clinica. Come abbiamo visto, essa è costosa e complessa, quindi rimane prerogativa tipicamente dei grandi gruppi o del Biotech finanziato da venture capital, mentre la parte a monte, di genesi dell’innovazione, è sempre più polarizzata negli ambienti accademici.
Dottor Baccanti, ci avviciniamo alla fine, vorrei chiederle, parlando di sistema Italia, Lei ha un’esperienza internazionale, si dice sempre che bisogna guardar fuori per aprire gli orizzonti per imparare anche a portare in casa, ovviamente declinandolo “in salsa domestica”, ciò che può dare valore. Che cosa l’Italia dovrebbe fare in tema di trasferimento tecnologico per essere più forte? Si parla del protagonismo francese, ovviamente degli Stati Uniti, di Israele, che cosa ci manca? Cosa abbiamo già? Qual è la sua la sua ricetta, quali le sue indicazioni?
Ci sono tanti parametri che dobbiamo analizzare se confrontiamo i migliori della classe con la categoria di quelli che stanno imparando, a cui appartiene l’Italia. I migliori della classe partono da una ottima capacità di ricerca, e quella noi ce l’abbiamo, nessuno è critico nei confronti delle performance della ricerca italiana che è pari ‒ in alcuni àmbiti addirittura migliore ‒ di quella dei migliori della classe. Il problema è a valle, sin dall’inizio. Storicamente la cultura della ricerca italiana è sempre stata diversa da quella che ha caratterizzato gli ecosistemi più capaci, perché da noi la finalità, il sistema incentivante sono stati sempre polarizzati nella direzione della pubblicazione scientifica e non nella direzione del brevetto. Questa è un’enorme differenza tra i due sistemi.
Quindi il nostro ricercatore è contento se pubblica.
Storicamente, è stato sempre incentivato a pubblicare e a trascurare gli aspetti di protezione alla proprietà intellettuale. Fortunatamente, questo aspetto sta cambiando, grazie al fatto che anche i giovani ricercatori sono maggiormente stati esposti agli ambienti internazionali, ma un governo potrebbe effettivamente migliorare le cose con un sistema incentivante più moderno. Abbiamo parlato solo dell’inizio, vediamo poi la sequenza successiva. Immaginiamo che diventiamo capaci di fare più brevetti, a valle bisogna riuscire a coinvolgere meglio i partner. I partner sono di due caratteristiche: le grandi aziende farmaceutiche con politiche credibili di open innovation che devono essere attirate, posizionando l’Italia nel loro radar screen, cosa che in passato non succedeva, ma che comincia a succedere e succede invece molto bene negli ambienti dei primi della classe. La seconda leva su cui possiamo fare affidamento è la creazione di nuove iniziative imprenditoriali, come strada alternativa a quella della licenza: anche qui alcuni sistemi territoriali sono bravissimi a creare e a nutrire delle startup biotech nel loro ambiente mentre in quello italiano (e in molti altri ovviamente, nelle stesse condizioni), in questa cosa si fa molto più fatica. L’ultimo pezzetto è quello della sperimentazione clinica: anche in questo caso i sistemi migliori sono quelli in cui le condizioni della sperimentazione clinica sono migliori. Anche qui non parliamo di qualità, perché siamo all’altezza della situazione per la qualità dei dati e dei nostri ospedali; invece siamo deficitari nelle normative e nei tempi. I tempi di autorizzazione di un trial clinico italiano devono essere accelerati rispetto all’attuale. Oggi non siamo competitivi lì. I capitali di tutto il mondo che devono essere investiti in attività di sperimentazione clinica hanno due criteri: quello della qualità – e abbiamo detto che per fortuna ci siamo – e il tempo, lì non ci siamo. Se io devo decidere dove investire 100 milioni per attività e sperimentazione clinica, vado là dove il dato prodotto mi arriva in fretta, perché quella velocità poi mi lascia più tempo di vita al brevetto, quindi maggiore probabilità di ripagarmi gli investimenti ‒ è matematica. Se noi siamo lenti, non riusciamo a competere. Quindi le ho risposto con una sequenza di punti, c’è da lavorare, vediamo tutti delle tendenze al miglioramento, ma il gap rispetto ai più bravi della classe è ancora da colmare.
Dottor Baccanti, lasciamoci con un po’ di speranza rispetto al futuro. Ovviamente avendo a che fare con chi fa ricerca, Lei ha la possibilità di osservare il sistema e osservare cosa ci attende per il futuro. Ci sono degli esempi, al di là dei nomi specifici, in cui si intravedono terapie rivoluzionarie per il futuro? Patologie, soluzioni nuove, che cosa bolle in pentola?
È un momento affascinante questo, ci sono un sacco di nuove tendenze, recenti scoperte che vedono tutto il sistema muoversi in direzioni nuove. Avrete sentito parlare di medicina personalizzata che è una parola difficile forse da capire, ma dentro ci sono tanti filoni di ricerca, la terapia genica, la medicina rigenerativa; avete sentito parlare di MRNA che è un altro sottocapitolo di questo àmbito: noi stiamo insegnando al nostro corpo a prodursi da solo dei farmaci che gli servono e lo facciamo dando delle informazioni genetiche alle nostre cellule. Queste sono cose bellissime che non immaginavamo proprio saremmo arrivati ad avere a disposizione così velocemente, che stanno solo iniziando, per cui è una dinamica interessantissima che si andrà evolvendo nel tempo, sulla quale tutto il mondo è impegnato sia a livello di ricerca, sia a livello di capitali, sia a livello di organizzazioni appunto per lo sviluppo di nuove terapie. È una situazione affascinante che ci vede tutti con grande entusiasmo nei confronti della capacità di ricerca futura e dell’impatto che questa ricerca avrà sugli individui.
L’intervista con Marco Baccanti è contenuta nel 3° Rapporto sulla Salute e il Sistema sanitario realizzato da Eurispes-Enpam.

