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Donne e lavoro, la discriminazione è multipla e territoriale

di
Mariarosaria Zamboi*

Esiste un’Italia dove essere donna significa guadagnare il 70% di quanto percepisce un uomo, dove quasi la metà delle occupate lavora in condizioni di part-time senza volerlo, dove la maternità si traduce in uscita dal mercato del lavoro. È l’Italia che emerge dall’Indice di Esclusione elaborato dall’Eurispes, una fotografia di come il principio costituzionale di uguaglianza sostanziale si infranga contro le barriere invisibili ma solidissime della discriminazione di genere. L’analisi non si limita a misurare il divario tra uomini e donne, ma svela come questo divario assuma forme diverse a seconda del territorio, creando una geografia dell’esclusione dove la residenza può determinare più del talento o dell’impegno personale. All’interno della domanda di fondo che guida l’intera ricerca – quanto i diritti proclamati nella Carta riescono a tradursi in condizioni materiali di vita? – l’analisi del gender gap assume un valore che va oltre la “questione femminile” intesa in senso settoriale. La disparità di genere, infatti, è simultaneamente un indicatore e un moltiplicatore di esclusione: attraversa il lavoro, i servizi, la formazione, la rappresentanza, e rivela con particolare chiarezza la qualità reale dell’eguaglianza sostanziale.

Nel mercato del lavoro le disuguaglianze si manifestano con disparità retributive, minori opportunità e qualità del lavoro più bassa

Il mercato del lavoro è l’àmbito dove le disuguaglianze si rivelano in modo più evidente, attraverso disparità retributive, minori opportunità e qualità del lavoro più bassa. La gravità di questa forma di esclusione è nitida alla luce di quanto previsto dalla Costituzione, che non considera il lavoro solamente come una variabile economica, ma fulcro della cittadinanza stessa. La media nazionale del divario occupazionale tra uomini e donne si attesta al 25,4%, ma nel Mezzogiorno la forbice si allarga fino a raggiungere il 46,6% in Campania, seguita da Calabria (43,0%), Sicilia (42,8%) e Puglia (42,4%). Sono contesti in cui la partecipazione femminile al lavoro appare ostacolata da barriere che agiscono su accesso, permanenza e progressione, riducendo autonomia e capacità di scelta. Sarebbe però un errore confinare il problema ai territori economicamente più fragili: anche nelle regioni più dinamiche il divario non scompare, attestandosi, per esempio, al 16,3% in Emilia-Romagna e al 15,2% in Veneto, mentre la Valle d’Aosta scende al 9,8%. La distanza complessiva tra regione più critica e regione più “equilibrata” è comunque molto elevata arrivando a 36,8 punti percentuali, segnale di una non uniformità profonda nell’esercizio del diritto al lavoro lungo il territorio nazionale.

La media nazionale del divario occupazionale tra uomini e donne è al 25,4%, ma nel Mezzogiorno la forbice si allarga

Spostando lo sguardo dalla partecipazione alla qualità concreta dell’occupazione, la disuguaglianza appare ancora più incisiva. La disparità di genere nel part-time involontario, cioè la differenza tra la quota di donne e uomini impiegati in un tempo parziale “subìto”, descrive una forma di sotto-occupazione che comprime reddito, tutele e traiettorie professionali: a livello nazionale la differenza assoluta è di 10,5 punti, con picchi che raggiungono 15 punti in Sardegna e Sicilia. In altre parole, l’esclusione non si produce soltanto attraverso l’assenza di lavoro, ma anche attraverso lavori meno stabili, meno continui, meno “capaci” di garantire indipendenza.

in Italia le donne con figli in età prescolare, in media, lavorano meno delle donne senza figli

Dentro questo quadro si innesta la penalizzazione della maternità, indicatore decisivo perché illumina il punto in cui mercato del lavoro e architettura del welfare si intrecciano. Il rapporto tra occupazione delle donne con figli in età prescolare e occupazione delle donne senza figli mostra che, in media, in Italia le prime lavorano meno delle seconde (valore nazionale 73%), con criticità marcate in Sicilia (61%) e Campania (65,2%). E il fatto che anche il Trentino-Alto Adige presenti un valore sotto la media (72,4%) mostra che la conciliazione non è automaticamente garantita neppure dove la dotazione economica e istituzionale appare più favorevole. Inoltre, ciò che appare “sociale” è spesso un prerequisito materiale del lavoro.

L’Italia offre 14,3 posti in asili nido pubblici ogni 100 bambini, dato lontano dal parametro europeo del 33%

La disponibilità di servizi per la prima infanzia non è un capitolo separato dall’occupazione femminile, ma una condizione concreta della libertà di partecipare al mercato del lavoro. L’Italia offre 14,3 posti in asili nido pubblici ogni 100 bambini, dato lontano dal parametro europeo del 33% indicato dagli Obiettivi di Barcellona nel 2002[1]; la fruizione dei servizi comunali per l’infanzia si colloca al 16,8% di media nazionale, ma precipita in Calabria (4,6%), Campania (5,5%) e Sicilia (6,6%). È un’asimmetria insieme educativa, economica e di genere: quando i servizi mancano, la rinuncia al lavoro ricade prevalentemente sulle donne, e il diritto al lavoro torna a dipendere dalla struttura di welfare del territorio.

Le donne guadagnano circa il 70% di uno stipendio maschile, i divari più alti emergono in Trentino-Alto Adige, Basilicata, Abruzzo e Liguria

Il gender pay gap – calcolato sulla retribuzione media annua dei dipendenti – completa la lettura con una media nazionale del 30,1%, che si traduce in uno stipendio femminile mediamente pari a circa 70% di quello maschile. I divari più alti non si concentrano solo nelle aree tradizionalmente fragili: emergono in Trentino-Alto Adige (36,6%), Basilicata (35,8%), Abruzzo (35,5%) e Liguria (35%), e coinvolgono anche altre regioni del Nord con tessuto produttivo solido come Friuli-Venezia Giulia (34,2%), Veneto (33,4%) ed Emilia-Romagna (32,4%). Secondo la chiave interpretativa proposta dalla ricerca nei contesti più sviluppati aumentano le opportunità di accesso a lavori qualificati, ma proprio i segmenti più premiali restano più selettivi, con differenziali salariali più marcati e barriere spesso “invisibili” alla progressione femminile, in coerenza con la persistenza del soffitto di cristallo.

Donne imprenditrici, il valore nazionale è del 26,7%, ma la geografia rovescia gli stereotipi: le percentuali più basse si concentrano nel Nord

Anche l’imprenditorialità femminile, letta con cautela, contribuisce a rendere visibili i diversi volti della disparità. Il valore nazionale è del 26,7%, ma la geografia rovescia gli stereotipi: le percentuali più basse si concentrano nel Nord, con Trentino-Alto Adige ultimo (23,0%), seguito da Lombardia (24,5%), Veneto (25,3%) ed Emilia-Romagna (25,7%); i valori più alti compaiono in Molise (32,1%), Basilicata(31,3%), Abruzzo (31%) e Umbria (30,1%). Qui si evitano letture celebrative avanzando l’ipotesi che tale distribuzione sia in parte dovuta alle differenti opportunità offerte dai diversi mercati del lavoro: dove l’offerta di lavoro dipendente dipendente è più ricca e strutturata, le donne possono risultare più integrate nell’occupazione salariata e l’imprenditorialità incide meno; dove le opportunità sono più scarse o frammentate, l’impresa può diventare risposta alla mancanza di alternative, forma di autoimpiego non sempre coincidente con una scelta pienamente libera.

*Mariarosaria Zamboi, Ricercatrice dell’Eurispes.

[1] Successivamente alzato al 45%

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