L’interrogativo che aleggia nelle sale dell’OCSE a Parigi è tanto semplice quanto drammaticamente concreto: riusciremo a superare la crisi demografica che sta per travolgere i mercati del lavoro occidentali? La risposta che emerge dall’OECD Employment Outlook 2025 non lascia spazio a interpretazioni ottimistiche. Per l’Italia, in particolare, il rapporto presenta uno scenario che mescola progressi incoraggianti del presente con prospettive inquietanti per il futuro, delineando una transizione demografica che rischia di compromettere decenni di conquiste economiche e sociali. I dati attuali potrebbero facilmente indurre all’ottimismo: occupazione e partecipazione alla forza lavoro hanno raggiunto livelli record, mentre la disoccupazione è ai minimi storici. Nel dettaglio il tasso di disoccupazione OCSE si è attestato al 4,9% nel maggio 2025, il più basso mai registrato nella storia recente dell’Organizzazione, il tasso di occupazione medio è salito al 72,1% nel primo trimestre del 2025, mentre il tasso di partecipazione ha raggiunto il 76,6%. In questo contesto generale di miglioramento, l’Italia ha registrato progressi che sembrano finalmente confermare una ripresa strutturale del mercato del lavoro nazionale.
Fertilità in declino e aspettativa di vita in aumento stanno portando la popolazione OCSE ad invecchiare ad un ritmo senza precedenti
Dietro questi numeri rassicuranti si celano tuttavia segnali di un indebolimento del mercato del lavoro che l’OCSE non esita a evidenziare. La crescita dell’occupazione sta rallentando e le tensioni del mercato del lavoro stanno tornando ai livelli storicamente elevati pre-Covid in molti paesi e settori. I salari reali stanno ora aumentando praticamente ovunque nell’area OCSE, ma in metà dei paesi rimangono al di sotto dei livelli visti all’inizio del 2021, poco prima dell’impennata inflazionistica post-pandemica. Fertilità in declino e aspettativa di vita in aumento sono la combinazione di elementi che stanno portando la popolazione OCSE ad invecchiare ad un ritmo senza precedenti e, mentre la generazione dei baby boomer esce gradualmente dalla forza lavoro, la popolazione in età lavorativa – tradizionalmente definita come quella di età compresa tra 20 e 64 anni – sta diminuendo per la prima volta nella storia moderna.
Crisi demografica, in Italia il rapporto tra anziani e popolazione in età lavorativa supererà il 75% insieme a Giappone, Polonia Spagna e Corea
Il dato più preoccupante emerge dall’analisi del rapporto di dipendenza degli anziani, definito come il rapporto tra individui di 65 anni e oltre rispetto alla popolazione in età lavorativa. Tale indicatore è aumentato dal 19% nel 1980 al 31% nel 2023 e raggiungerà il 52% in media entro il 2060. L’Italia è annoverata fra le 5 economie dove tale rapporto supererà il 75% insieme a Giappone, Polonia Spagna e Corea; una tendenza insostenibile per qualsiasi sistema di welfare. Il nostro paese si trova infatti in una posizione particolarmente delicata in questo scenario. Il tasso di natalità lontano dal minimo necessario a garantire il ricambio generazionale[1], la forte incidenza della popolazione anziana e l’emigrazione giovanile sul fronte demografico e, una crescita occupazionale non accompagnata da adeguato incremento dei salari e dal recupero del potere d’acquisto sul fronte economico, stanno generando un mix esplosivo che minaccia la sostenibilità del sistema economico e sociale nazionale.
L’Italia fa parte dei nove paesi dove più del 15% dei giovani tra 15 e 29 anni si trova nella categoria NEET
L’OCSE delinea con chiarezza le conseguenze economiche di questa transizione demografica prospettando, in assenza di miglioramenti della produttività, un rallentamento della crescita del Pil pro-capite del 40% circa in tutta l’area, a causa della contrazione del rapporto occupazione/popolazione e del conseguente calo del contributo al Pil dell’input di lavoro. Per l’Italia, che già sconta una crescita economica debole, questa prospettiva rappresenta una seria minaccia alla capacità di mantenere e migliorare gli standard di vita attuali. Un aspetto particolarmente critico per il nostro Paese emerge dall’analisi della condizione giovanile: l’Italia fa parte dei nove paesi dove più del 15% dei giovani tra 15 e 29 anni si trova nella categoria NEET (Not in Employment, Education or Training), insieme a Colombia, Costa Rica, Grecia, Corea del Sud, Lituania, Messico, Spagna e Turchia. Si tratta di un enorme spreco di potenziale umano proprio nel momento in cui il Paese avrebbe maggiore bisogno di mobilitare tutte le risorse disponibili e, contrastare il fenomeno attraverso politiche mirate – miglioramento dei servizi educativi, riduzione dell’abbandono scolastico, programmi educativi a tempo pieno di seconda opportunità e agevolazione delle transizioni scuola-lavoro – è divenuta una necessità economica strategica per compensare almeno in parte il declino demografico.
Un rallentamento futuro dei flussi migratori porterebbe ad un ulteriore frenata nella crescita del Pil nell’area OCSE
Il rapporto non si limita a dipingere scenari apocalittici, ma riconosce anche margini di manovra che identificano come priorità la mobilitazione di risorse lavorative inutilizzate per stimolare la crescita, in particolare persone anziane sane, donne e migranti. Il contributo positivo delle migrazioni regolari al sostegno della popolazione in età lavorativa è ampiamente documentato dal report che mostra come, un eventuale rallentamento futuro dei flussi migratori porterebbe ad un ulteriore frenata nella crescita del Pil nell’area OCSE, mentre nello scenario che ipotizza il raggiungimento di elevati livelli di migrazioni regolari, il Pil crescerebbe più del previsto, in particolare in Italia, Grecia, Lussemburgo e Slovenia. Nel complesso, sebbene la migrazione regolare possa contribuire ad attenuare le sfide imposte dall’invecchiamento demografico, il suo potenziale non sembra poter cambiare le carte in tavola a meno che i tassi di migrazione netta non aumentino ben al di sopra dei tassi registrati negli ultimi anni e non vengano messe in campo dai paesi di destinazione, politiche migratorie lungimiranti capaci di integrare positivamente la forza lavoro migrante nel sistema economico.
L’incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro può frenare gli effetti della crisi demografica
L’altra chiave per affrontare la crisi demografica risiede nell’incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro. La chiusura del divario occupazionale di genere potrebbe aumentare la crescita annua del Pil pro capite di 0,2 punti percentuali nell’area OCSE, con benefici ancora maggiori per i paesi che partono da livelli di partecipazione bassi, fra i quali viene citata l’Italia che, con un tasso di occupazione femminile fra i più bassi d’Europa, beneficerebbe di una crescita del Pil pro capite di ulteriori 0,3 punti percentuali in caso di annullamento del gender gap occupazionale. L’equa partecipazione femminile al mercato del lavoro porterebbe ad una crescita non solo quantitativa ma anche qualitativa, apportando competenze complementari a quelle maschili e contribuendo alla diversificazione del capitale umano e all’innovazione organizzativa.
L’inserimento lavorativo degli anziani in buona salute rappresenta una risposta alla crisi della forza lavoro ma è una strada non priva di ostacoli
Infine, una delle intuizioni più interessanti del rapporto OCSE riguarda il potenziale ancora largamente inutilizzato dei lavoratori maturi. Riducendo la quota di lavoratori più anziani che lasciano la forza lavoro a quella del 10% dei paesi OCSE con i tassi più bassi, circa la metà dei paesi OCSE potrebbe raggiungere almeno 0,2 punti percentuali di crescita annuale del Pil pro capite. Questo dato è particolarmente rilevante per l’Italia, dove il tasso di partecipazione dei lavoratori over-55 è ancora relativamente basso. L’OCSE stima che in Italia, Francia, e Spagna, il solo raggiungimento di questo obiettivo potrebbe essere sufficiente a compensare l’intero calo del Pil pro capite dovuto all’invecchiamento demografico. L’inserimento lavorativo degli anziani in buona salute è una strada non priva di ostacoli fra i quali il report cita il più basso livello di alfabetizzazione degli adulti di età compresa fra 60 e 65 anni, la minore capacità adattiva e di risposta alle crisi, la più bassa propensione alla formazione continua per il mantenimento di livelli di competenza adeguati alle trasformazioni del mercato del lavoro e, non ultimo, il rischio di innescare meccanismi di competizione inter-generazionale per l’occupazione dei posti di lavoro.
Nessuna delle tre strategie di mobilitazione delle risorse lavorative inutilizzate potrebbe da sola riequilibrare il rapporto occupazione/popolazione entro il 2060
Secondo le proiezioni del report, nessuna delle tre strategie di mobilitazione delle risorse lavorative inutilizzate potrebbe da sola riequilibrare il rapporto occupazione/popolazione entro il 2060, ma è necessario che questi obiettivi siano perseguiti contemporaneamente con politiche mirate che riescano a superare le resistenze sociali e ideologiche che ancora investono queste categorie di lavoratori. Colmare il divario di genere nell’occupazione fra le persone in età lavorativa e i giovani sarebbe sufficiente ad evitare il calo del rapporto occupazione/popolazione in soli dieci paesi OCSE; combinare la parità di genere per la fascia d’età più avanzata e per i giovani con lo scenario di elevata migrazione eviterebbe a malapena il calo del rapporto in altri cinque paesi e colmare il divario occupazionale di genere a tutte le età stabilizzerebbe la quota di occupati nella popolazione in 17 paesi. Al contrario, combinare gli scenari di parità di genere (a tutte le età) e di maggiore occupazione per i lavoratori più anziani stabilizzerebbe o addirittura aumenterebbe ulteriormente il rapporto occupazione/popolazione in tutti i paesi tranne tre (Israele, Turchia e Messico).
Nell’area OCSE le pensioni di vecchiaia e reversibilità rappresentano il 38% della spesa sociale pubblica
Ma se anche tutti i Paesi riuscissero a superare queste sfide ed arginare le perdite in termini di Pil, l’invecchiamento della popolazione avrà degli impatti sulla distribuzione delle risorse tra le diverse fasce d’età. In media, nell’area OCSE, le pensioni di vecchiaia e reversibilità rappresentano il 38% della spesa sociale pubblica (circa l’8,5% del Pil – in Italia si arriva al 15% circa), la spesa per gli anziani costituisce circa la metà di tutta la spesa sanitaria (che nel complesso assorbe il 6,6% del Pil), mentre solo il 2,1% del Pil è dedicato alle prestazioni familiari e l’1,1% al sostegno al reddito per gli adulti in età lavorativa. Si stima che entro il 2060 la spesa per gli anziani sia destinata a crescere di circa 3 punti percentuali con una conseguente riduzione delle risorse destinate al contrasto della povertà e agli shock di reddito, compromettendo l’equità intergenerazionale. Inoltre, mentre i baby boomer già quasi tutti pensionati o prossimi alla pensione, hanno beneficiato di una rapida crescita del reddito, per i giovani-adulti in età lavorativa di oggi la crescita è molto più lenta – in alcuni casi azzerata – e, anche la ricchezza che a differenza del reddito non rappresenta il flusso ma lo stock, tende ad essere concentrata tra le popolazioni più anziane sottoforma di risparmi, immobili e investimenti. Tali situazioni nel circuito economico e nel mondo del lavoro si traducono in una minore propensione ad investire generando ulteriori redditi futuri e nella difficoltà a fornire garanzie, proteggersi dagli shock di reddito o far fronte ad esigenze di consumo impreviste.
Non solo crisi demografica: le incertezze geopolitiche e gli aumenti delle tariffe doganali continueranno ad influenzare negativamente l’economia globale
In tutta l’area OCSE si sta dunque passando da un regime in cui l’input lavoro contribuiva alla crescita del Pil, ad uno in cui, in assenza di interventi mirati, la mancanza di forza lavoro sarà il primo freno alla crescita. In questo contesto le politiche per favorire l’invecchiamento attivo e l’inserimento nel mondo del lavoro di tutte le categorie sottorappresentate, sono essenziali per garantire la sostenibilità del sistema nel lungo periodo. Guardando al futuro più prossimo, le incertezze geopolitiche e gli aumenti delle tariffe doganali continueranno ad influenzare negativamente l’economia globale rendendo le politiche occupazionali e sociali, come l’assicurazione contro la disoccupazione, l’assistenza sociale, la formazione continua, le politiche attive del mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, fondamentali per affrontare le conseguenze più immediate di questi shock sull’occupazione.
*Mariarosaria Zamboi, ricercatrice dell’Eurispes.
[1] Il tasso di natalità minimo per garantire il ricambio generazionale, ovvero per mantenere stabile la popolazione, è generalmente considerato di 2,1 figli per donna. In Italia nel 2024 il valore si è fermato ad 1,18 figli per donna.

