Che cosa è il quiet quitting?
Il termine quiet quitting ha guadagnato popolarità nel dibattito pubblico nel corso del 2022, diffondendosi attraverso i Social media e catturando l’attenzione di milioni di lavoratori che si sono improvvisamente riconosciuti in questa definizione. Non si tratta di licenziarsi in silenzio o smettere di fare rumore, come il nome potrebbe suggerire, ma di un fenomeno più sottile e pervasivo: l’abbandono dell’idea che il lavoro debba essere al centro dell’esistenza umana e la scelta consapevole di limitare il proprio impegno professionale al minimo indispensabile, senza straordinari gratuiti, senza disponibilità oltre l’orario contrattuale, senza quella dedizione totale che per decenni è stata considerata la prassi nel mondo aziendale.
Quiet quitting: un nuovo modo di concepire il rapporto individuo lavoro
Questa nuova forma di resistenza passiva è molto più di una semplice tendenza generazionale o di un capriccio post-pandemico, rappresentando il sintomo di un profondo cambiamento nel modo di concepire il rapporto tra individuo e lavoro. Una trasformazione che affonda le sue radici nella crisi sanitaria globale, ma si estende ben oltre, toccando tematiche fondamentali come il senso stesso del lavoro, la qualità della vita e la ridefinizione delle priorità esistenziali. Il quiet quitting non è tanto un rifiuto del lavoro quanto piuttosto un rifiuto della cultura dell’iper-lavoro che ha caratterizzato gli ultimi decenni, una cultura che ha progressivamente eroso i confini tra vita privata e professionale fino a renderli quasi indistinguibili.
Le origini del fenomeno del quiet quitting
Per comprendere le origini del fenomeno è necessario guardare alla società pre-pandemica, caratterizzata da una cultura del lavoro che aveva fatto della disponibilità permanente e dell’eccellenza costante i suoi pilastri fondamentali. La diffusione delle tecnologie digitali aveva già iniziato a erodere i confini temporali e spaziali del lavoro, rendendo i dipendenti costantemente raggiungibili e creando l’aspettativa implicita di reperibilità continua: e-mail inviate dopo l’orario di ufficio, chiamate durante i weekend, progetti urgenti che si moltiplicavano erano diventati la normalità in molti settori, alimentando una spirale di stress e sovraccarico che molti lavoratori avevano iniziato a percepire come insostenibile.
Il ruolo della pandemia nell’alimentare il quiet quitting
La pandemia da COVID-19 ha agito come un catalizzatore di questa insoddisfazione latente, offrendo a milioni di persone un’opportunità inaspettata di riflessione. I lockdown hanno costretto molti lavoratori a sperimentare modalità diverse di organizzazione della giornata lavorativa, riscoprendo ritmi più naturali e riconnettendosi con aspetti della vita che la frenesia pre-pandemica aveva relegato in secondo piano. Il lavoro da casa, inizialmente vissuto come una misura emergenziale, si è rivelato per molti un’esperienza illuminante che ha messo in discussione decenni di assunti sulla necessità della presenza fisica in ufficio e sulla correlazione tra ore lavorate e produttività.
Parallelamente, la pandemia ha anche evidenziato la fragilità del sistema economico e sociale, mostrando come lavori considerati essenziali fossero spesso quelli meno retribuiti e riconosciuti, mentre molte professioni altamente pagate si sono rivelate prescindibili durante i momenti più critici. Questa presa di coscienza ha innescato una riflessione più ampia sul valore reale del lavoro e sul significato che esso dovrebbe avere nella vita delle persone, contribuendo a creare il terreno fertile per l’emergere del quiet quitting.
Il quiet quitting è espressione soprattutto dei più giovani
Sebbene il quiet quitting tocchi trasversalmente diverse fasce d’età, è innegabile che trovi la sua espressione più compiuta tra i lavoratori più giovani, in particolare i Millennial e la Generazione Z. Due gruppi demografici cresciuti in un contesto caratterizzato da promesse di mobilità sociale e realizzazione professionale che spesso si sono rivelate illusorie: giovani adulti che hanno visto i propri genitori sacrificare tempo, energia e relazioni sull’altare del successo professionale, spesso senza ottenere in cambio la sicurezza economica e la soddisfazione personale promesse dal modello lavorativo tradizionale. La precarietà lavorativa, l’erosione delle tutele sociali e previdenziali, l’aumento del costo della vita a fronte di salari che non hanno tenuto il passo con l’inflazione, hanno fatto il resto. Per molti giovani professionisti l’idea di investire tutto se stessi in un lavoro che potrebbe scomparire da un momento all’altro o che non garantisce prospettive di crescita reali appare sempre meno sensata.
Quiet quitting: una forma di resistenza passiva alle aspettative aziendali non formalizzate
Questa disaffezione si manifesta attraverso comportamenti che, pur rimanendo all’interno dei limiti contrattuali, rappresentano una forma di resistenza passiva alle aspettative aziendali non formalizzate. I quiet quitter svolgono il proprio lavoro con competenza e professionalità, rispettano gli orari e le scadenze, ma rifiutano categoricamente di andare oltre quanto richiesto dal contratto. Non partecipano volontariamente a progetti extra, non si fermano oltre l’orario di lavoro, non rispondono a comunicazioni aziendali durante i weekend o le ferie, non si candidano per ruoli che comporterebbero maggiori responsabilità senza un adeguato riconoscimento economico.
Questo fenomeno è sintomo di una disfunzione sistemica
Andare oltre la colpevolizzazione di chi pratica il quiet quitting, significa comprendere che questo comportamento è sintomo di una disfunzione sistemica. È il segnale che una parte crescente della forza lavoro non si riconosce più in un’organizzazione del lavoro fondata sull’intensificazione e sul sacrificio ed è anche un richiamo, forse scomodo, a ristabilire una gerarchia di bisogni dove il lavoro torni ad essere uno strumento – e non il fine – della realizzazione personale. Il quiet quitting può essere quindi interpretato come un indicatore della necessità di transitare verso nuovi paradigmi del lavoro, caratterizzati da una maggiore attenzione all’equilibrio tra vita privata e professionale e dalla ridefinizione del concetto stesso di successo, una trasformazione che richiede un radicale ripensamento dell’organizzazione del lavoro nella società contemporanea.
Anche le aziende si trovano di fronte alla sfida di riorganizzare il lavoro
A prescindere dalle cause scatenanti, questa nuova forma di lavoro minimo sta ponendo il mondo aziendale di fronte a sfide inedite, costringendo le organizzazioni a ripensare i modelli di gestione delle risorse umane che per decenni hanno dato per scontata la disponibilità illimitata dei dipendenti. Molte aziende si trovano improvvisamente a dover fare i conti con una forza lavoro meno malleabile, più consapevole dei propri diritti e meno disposta ad accettare compromessi che non vedano un riconoscimento adeguato in termini di crescita professionale o retribuzione e, le reazioni del mondo imprenditoriale sono state variegate e non sempre univoche. Alcune organizzazioni hanno interpretato il fenomeno come una forma di pigrizia generazionale o di mancanza di ambizione, rispondendo con politiche più rigide di controllo e valutazione delle performance, mentre aziende più lungimiranti hanno iniziato a riconoscere nel quiet quitting un segnale di allarme rispetto a pratiche di gestione del personale che avevano progressivamente perso di vista il benessere dei lavoratori.
Questo secondo approccio ha portato all’emergere di nuove strategie di employee engagement che puntano sulla qualità piuttosto che sulla quantità del lavoro, sulla definizione chiara di obiettivi e aspettative, su orari più flessibili o ridotti, politiche di disconnessione digitale, benefit orientati al benessere psicofisico dei dipendenti e riconoscimento esplicito del valore apportato dai dipendenti attraverso sistemi retributivi più equi e percorsi di crescita professionale trasparenti.
Il richiede un cambiamento nelle politiche aziendali di gestione
Modelli di questo tipo, che puntano ad una maggiore sostenibilità ed equilibrio nel rapporto vita-lavoro non rappresentano necessariamente un passo indietro in termini di produttività o innovazione, anzi, potrebbero spezzare questa catena di insoddisfazione generalizzata innescando meccanismi virtuosi. Numerosi studi hanno dimostrato come lavoratori meno stressati e più soddisfatti delle proprie condizioni professionali tendano ad essere più creativi, collaborativi ed efficienti e, abbandonare l’ossessione per le ore lavorate come indicatore di dedizione e valore professionale, può lasciare spazio a metriche più sofisticate che valorizzino i risultati effettivamente raggiunti e l’impatto qualitativo del lavoro svolto. Le organizzazioni che sapranno cogliere questo segnale e adattare di conseguenza le proprie politiche di gestione delle risorse umane potrebbero trovarsi avvantaggiate in un mercato del lavoro sempre più competitivo, dove la capacità di attrarre e trattenere talenti dipenderà sempre meno dalle prospettive di carriera tradizionali e sempre più dalla qualità dell’esperienza lavorativa offerta.
Trasformare una forma di resistenza passiva in un’opportunità di innovazione sociale
Al di là delle conseguenze immediate sul mondo aziendale, il quiet quitting solleva questioni più ampie relative all’evoluzione della società e dei valori collettivi. Se da un lato rappresenta una forma di resistenza a modelli lavorativi insostenibili che può dare l’input alla nascita di nuove alleanze lavorative, dall’altro rischia di accentuare le disuguaglianze tra chi può permettersi di ridurre il proprio impegno professionale e chi invece, non ha alternative alla massimizzazione del reddito da lavoro per garantire il proprio sostentamento e quello della propria famiglia. Inoltre, la diffusione di atteggiamenti di disimpegno lavorativo può avere conseguenze negative sui settori che maggiormente dipendono dalla dedizione e dalla disponibilità dei dipendenti, ad esempio i servizi sanitari, la ricerca, l’istruzione e i servizi pubblici essenziali. È quindi fondamentale che la ricerca di un nuovo equilibrio vita-lavoro non si traduca in una semplice riduzione dell’impegno, ma piuttosto in una ridefinizione più matura e consapevole del rapporto tra realizzazione personale e contributo sociale.
La sfida attuale è gestire questa transizione in modo costruttivo, trasformando una forma di resistenza passiva in un’opportunità di innovazione sociale dando vita ad un nuovo patto sociale che metta al centro il benessere delle persone senza rinunciare al progresso collettivo.
*Mariarosaria Zamboi, ricercatrice dell’Eurispes.