A più di un anno dalla sentenza 162/2014 della Corte costituzionale, contraddizioni e impedimenti contingenti rendono pressoché impraticabile la fecondazione con gamete di provenienza esogamica: non ci sono donatori, questa è la motivazione più significativa.
In effetti, il registro dei donatori, annunciato lo scorso anno e affidato al Centro nazionale trapianti, non è partito perché deve ancora passare al vaglio del Garante della privacy e, allo stesso modo, ancora non si è creata una rete informatica nazionale nella quale inserire i dati di chi ha donato. Certo è vero che soprattutto per le donne la prassi è invasiva e lunga: le donatrici, al fine di incrementare il numero di ovociti prelevabili, devono sottoporsi a un trattamento di stimolazione ovarica che, solitamente, ha una durata di circa sei settimane. Tale trattamento farmacologico porta con sé rischi di iperstimolazione, ai quali si aggiunge l’ònere di doversi sottoporre a un’anestesia e a una piccola operazione chirurgica. Meno invasiva è la pratica di donazione del seme. Tuttavia, per coloro che si rivolgono a una banca, si richiede un impegno molto più prolungato nel tempo: gli uomini firmano un contratto con il quale si impegnano a produrre diversi campioni di liquido seminale per un certo periodo di tempo.
Ma, allora, perché donare? La maggior parte di coloro che scelgono di donare i propri gameti, alla richiesta di spiegare le motivazioni di questa scelta, trovano molta difficoltà ad esprimere i propri sentimenti e parlano genericamente di solidarietà e altruismo. Già in passato, uno studio Eurispes sulla cultura del dono nel nostro Paese aveva toccato i diversi e più significativi aspetti delle realtà che si offrono come indicatori del livello e della diffusione di tale cultura, che in Italia trova ampio spazio: dal sostegno a distanza all’assistenza agli anziani, dal volontariato fino alla donazione del sangue, del cordone ombelicale e di organi e tessuti. Dall’ultimo Rapporto Italia, per esempio, Volontariato e Protezione civile fanno il pieno di consensi. Il primo registra infatti un 78,8%, con una crescita del 4,3% rispetto al 2014; la Protezione civile, invece, segna addirittura un aumento dell’11,8% e raggiunge il 70% dei consensi.
In effetti può non essere semplice esprimere e, al contempo, comprendere il reale significato della scelta di “donare”, tuttavia i centri di raccolta di gameti, del sangue, degli organi devono accertarsi che i donatori vivano questa decisione senza contraddizioni e in totale consapevolezza. Ad esempio in molti Comuni, tra cui quello di Roma, vige da qualche mese l’obbligo di esprimersi a favore o contro la donazione dei propri organi e tessuti in occasione del rinnovo del documento d’identità, proprio per non investire i congiunti di una decisione tanto personale.
“Quella del dono, dell’arte del dono perduta, come diceva Adorno, è la metafora di un mondo nel quale i rapporti umani si limitano alla semplice conoscenza superficiale che non impegna, non coinvolge” – secondo Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes – “Un mondo nel quale si intessono relazioni e rapporti funzionali al conseguimento di un risultato, che si esauriscono così come si consuma il rapporto tra venditore e acquirente al momento dell’acquisto. Le relazioni come merce da vendere o, nel migliore dei casi, da scambiare”.
L’occasione della donazione, invero, può dipendere da una serie di motivazioni. Nel caso del sangue, sembrerebbe che gli italiani non abbiano particolari reticenze ma che siano ancora pochi quelli che effettivamente vanno a donare il loro sangue con regolarità: secondo le stime dell’Istituto Superiore di Sanità, ad oggi si contano 1.600.000 donatori, appena il 2,9% della popolazione. Il 4,5% dei donatori è un cittadino compreso tra i 18 e i 65 anni e l’indice di donazione, cioè il numero di donazioni all’anno, è pari a una media di 1,6, anche se gli uomini possono donare fino a 4 volte l’anno e le donne fino a 2.
Nel caso della fecondazione assistita – quello che di certo solleva maggiormente la questione dei limiti morali dell’agire scientifico – molti sono coloro che si rivolgono al deposito bancario dei gameti per conservarli preventivamente in forza di una sterilità sopravveniente (che può essere dovuta a patologie, a trattamenti sanitari, ovvero volontaria) e decidono, poi, di non volerli più utilizzare e di donarli; in altri casi si tratta di soggetti che si stanno sottoponendo a loro volta ad un trattamento di fecondazione assistita e decidono di donare i gameti sovrannumerari; altri possono donare per motivi economici, infatti moltissime sono in altre parti del mondo le cliniche che comprano gameti da donatrici accuratamente selezionate.
Un altro motivo della donazione può essere il solo, edificante scopo di aiutare persone affette da sterilità non trattabile, per solidarietà.
Si tratta di “donare per donare”, affinché nel dono, inteso come guarigione delle altrui sofferenze – fisiche e morali – ciascuno si senta parte di un circolo virtuoso di com-passione: gli antichi greci la chiamavano sympatheia, condividere un sentimento al punto da trasporsi nell’immagine dell’altro e, con la consapevolezza di avere gli strumenti per lenire l’altrui – e ormai proprio – dolore, decidere di offrirsi per aiutare.
Certo, se la motivazione economica del dono di gameti può essere capita, anche se forse non giustificata, la benevolenza di un gesto così carico di conseguenze potrebbe apparire di difficile comprensione.
In un tempo in cui l’interesse, il profitto, il vantaggio sono così radicati nelle logiche dei singoli – al punto che ogni azione sembra orientata all’autoreferenzialità, ogni gesto si inscrive in dinamiche di mercato e segue princìpi e prassi mutuate dal modello economico – la sola idea di donare, senza ricevere nulla in cambio, risulta quanto mai anacronistica. Ancor più incomprensibile – proprio perché ingiustificabile e per molti persino inaccettabile – è l’idea di donare delle parti del proprio corpo, del proprio sé, come se la cultura del dono fosse mera utopia nei nostri giorni.
Certamente vi sono differenze nel donare, nel donarsi. Se, da un lato, si dona il proprio sangue a persone che già esistono e si trovano in difficoltà, la donazione di gamete viene effettuata con la consapevolezza di creare un’altra vita, pertanto diversi parrebbero i significati dei due tipi di dono, in quanto le responsabilità sociali e personali dell’offrire il proprio aiuto ad altri sembrerebbero tutt’altre rispetto a quelle relative alla creazione pianificata di un nuovo individuo. È certo difficile equiparare la donazione di sangue a quella di gameti, tuttavia non impossibile, giacché progressivamente ci stiamo dirigendo verso un’apertura culturale, una nuova riformulazione di categorie e modi di pensare, per cui approssimare fino a sovrapporre i due tipi di dono aiuterebbe a evidenziare la non-straordinarietà, anzi, la naturalità della fecondazione eterologa.
I donatori sono, infatti, persone che spesso hanno già figli e che donano per altruismo, per solidarietà, esattamente come accade per la donazione di sangue o di organi. Certo, donando i gameti si è consapevoli di donare la materia prima che darà alla luce una nuova vita, una vita che, pur possedendo il proprio patrimonio genetico, non si conoscerà. Eppure è proprio perché l’esito del dono non si conoscerà che questo gesto dovrebbe sembrare naturale: esattamente come non si può sapere quale sarà l’uso che negli ospedali si farà del nostro sangue donato (la trasfusione può, infatti, salvare una vita o meno, essere effettuata a un individuo benevolo e altruista o a un delinquente), il fatto che non si possa conoscere né prevedere l’esito della propria donazione (se è servita per studi scientifici – in Italia vietati – se ha portato alla nascita di bambini e se questi sono diventati cattive persone o meno) arresta la bontà del gesto all’attimo del dono, quel che ne sarà dopo non deve e non può essere considerato, pena la ricaduta in un’ottica teleologica e utilitarista del gesto.
Attraversiamo un periodo storico in cui edonismo e individualismo si insidiano tra le crepe di una crisi economica, politica e sociale forse senza precedenti. Sarebbe importante promuovere quindi una cultura alternativa a quella che persegue unicamente l’utile e il funzionale e che, dopo aver promesso la felicità, porta a insoddisfazione generale, insicurezza, delusione. Il tema del “dono di sé”, valore per eccellenza di legame e valore umano, merita di essere trattato e approfondito in una prospettiva interdisciplinare, legandolo a quello dell’esperienza umana del “valore”, in economia come in bioetica, in antropologia come in sociologia: l’etica del dono si colloca all’interno di un circolo di reciprocità che investe tutte le sfere dell’esistenza. Questo tipo di educazione richiede, ovviamente, dei “luoghi credibili”: la famiglia, prima e fondamentale scuola di socializzazione primaria in quanto comunità d’amore che trova nel dono di sé la legge che la guida e la fa crescere; la scuola, che nella sua vocazione educativa con i giovani non punta solo a dare istruzioni sul “come fare”, ma punta anche sul senso delle scelte di vita e sul “chi essere”.
Ciononostante, su un tema così personale, non è possibile formulare giudizi di valore, in quanto il rifiuto del dono – di chi è legato ad un’ottica di filiazione genetica, di chi non riuscirebbe a pensare la crescita di una parte di sé nel corpo e per mano di altri, di chi teme un ripensamento futuro, di chi è orientato da valori differenti – è una scelta legittima.
La questione è che entrambe le prospettive dovrebbero restare aperte, ascrivendo al singolo la possibilità di una scelta libera e responsabile.
Purtuttavia in Italia pare che quello della fecondazione eterologa, per ora, sia un provvedimento ancora solo teorico che fatica a trovare un riscontro pratico. Pochissimi donatori e quasi zero donatrici che si vanno ad aggiungere alle differenze regionali e ai costi economici (in alcune regioni, infatti, si può procedere all’eterologa con il pagamento di un ticket, in altre si tratta di avere a disposizione diverse migliaia di euro), il che spiega come mai nel nostro Paese l’eterologa non sia ancora praticamente partita nel suo significato autentico: ci si affida all’ “egg sharing”, cioè alla donazione da parte di persone che ricorrono alla fecondazione omologa, o all’acquisizione dall’estero (da banche spagnole, inglesi e olandesi). Bisognerebbe, pertanto, incentivare e, forse, costruire, una cultura del dono, al fine di lasciar venire allo scoperto temi che sono ancora nell’ombra, ammantati da una densa coltre di incertezze e perplessità.
In effetti, quello che progressivamente si auspica possa venir interiorizzato è che donare i propri gameti vuol dire donare ad altri l’accesso ad una condizione di uguaglianza. In questo senso, recuperare la dimensione della reciprocità è fondamentale. La relazionalità è tanto più segno di civiltà quanto più vive dell’interscambio e della cooperazione che i membri di una società vivono come valori di riferimento.
Educare le nuove generazioni alla pienezza di una vita vissuta anche come dono resta, dall’antica Grecia ai nostri giorni, un grande insegnamento e accoglierlo significa dare valore e rispetto all’essere umano come “animale sociale”. D’altronde è la nostra stessa realtà che ci chiede di uscire da una visione di uomo chiuso in sé, per orientarsi verso un percorso fatto di interesse reciproco e aiuto solidale, che porti a considerare la reciprocità e l’etica del dono come nuovi orizzonti entro cui esprimere il pieno significato della nostra dimensione esistenziale.