Come siamo arrivati impreparati alla seconda ondata della pandemia?
Le misure restrittive per l’emergenza Covid in Campania arrivano in ritardo, ma faremo di tutto affinché siano efficaci.
Non si può comunque negare che esistano differenze circa la diffusione del contagio in alcune zone della Regione e l’area metropolitana di Napoli, dove c’è un disagio sociale forte che considera queste regole stringenti come l’anticamera dell’affossamento totale di una intera economia e delle singole famiglie.
Le misure, per quanto inevitabili, dovevano essere accompagnate – se non incorporate – ai ristori economici.
Ciò non è accaduto, anche se avevamo tutto il tempo per prepararci ad una seconda fase della pandemia.
Le famiglie, lo voglio ripetere, sono allo stremo e non riescono ad andare avanti.
Questo stato di frustrazione alimenta il disagio sociale e le strumentalizzazioni da parte di chi vuole “il tanto peggio, tanto meglio” allontanando, in maniera quasi irreversibile, i cittadini dalle Istituzioni.
Non siamo stati pronti ad affrontare efficacemente le nuove ondate del contagio.
È sotto gli occhi di tutti come i fondi promessi per la sanità – personale medico, infermieristico, terapie intensive – siano stati messi a bando solo ai primi di ottobre.
Ora, nel bilancio di previsione dello Stato, si mettono altri 400 milioni per tutelare la salute. Ma sono ancora parole.
Una delle mie maggiori preoccupazioni sta nelle capacità del nostro Governo di saper spendere i famosi 209 miliardi di Recovery Fund, e se vogliamo i 37 miliardi del MES.
Una preoccupazione, a mio avviso, non infondata e tantomeno campata in aria se vediamo i dati ministeriali del MEF sull’utilizzo degli altrettanto famosi fondi europei (e loro varie classificazioni).
Nel periodo 2014-2020 abbiamo impegnato solo il 30,7% dei fondi che l’Europa ha destinato all’Italia, molti proprio per il Sud.
C’è un tesoro a disposizione molto ingente, che tuttavia sta lì, a marcire.
Come Presidente del Cise, la Confederazione italiana per lo sviluppo economico, ma anche come Presidente dell’Asi Napoli, combatto da tempo e continuerò a combattere, affinché le Istituzioni ci mettano nella condizione di spendere bene e subito almeno ciò che, da sei anni e oltre, ci destina il bilancio dell’Unione europea.
Prendo a prestito l’immagine dell’imbuto, metafora davvero efficace.
Questa cascata di miliardi dei fondi europei (non parlo, e lo sottolineo, del Recovery Fund né del MES), finisce, in una sorta di collo di bottiglia – o meglio dell’imbuto – che ne blocca la fuoriuscita, ovvero l’utilizzazione.
I fondi europei sono stati gestiti finora in maniera, a dir poco, inadeguata.
Non è possibile che esista un solo soggetto (il MISE) o anche le strutture deputate nelle singole regioni, ad occuparsene.
Nella realtà non esiste quel soggetto che va a deputare i singoli finanziamenti a singoli progetti credibili e strutturati.
I fondi europei restano in sostanza soldi virtuali, mai reali
C’è una sorta di impegno a destinare quei fondi, ma poi non vengono spesi.
Incredibile ma, come dicono i numeri, per la maggior parte dei finanziamenti europei, è vero.
Il perché è facile da individuare: i finanziamenti non sono accompagnati dalla figura di chi si impegna, anzi, si prende la responsabilità, di gestirli.
Si resta, così, in mano solo alla burocrazia, che si occupa solamente di mettere in fila le carte, verificare se ci siano i timbri, ma non di realizzare i progetti.
Alla fine dei percorsi, quando dobbiamo rendicontare all’Unione europea come abbiamo utilizzato i fondi, non siamo in grado di farlo.
Perdiamo così delle occasioni eccezionali, facendo aumentare ancora di più il gap che ci separa dalle economie degli altri paesi della Comunità.
Torno sul tema: se dal 2014 al 2020 non siamo riusciti ad utilizzare efficacemente i fondi europei, come faremo quando arriveranno i 209 miliardi del Recovey Fund?
Vado in netta controtendenza con chi si fa prendere dall’euforia e dai facili ottimismi.
Sono, invece, molto preoccupato. Accenderei un cero in tutte le chiese, se arrivassero solo 50 miliardi e venissero spesi con procedure immediate.
Non serve annunciare piani roboanti, infarciti di progetti bellissimi ed inattuabili.
Se vogliamo agganciare la ripresa, dobbiamo cambiare registro e mostrare all’Europa, una nuova concretezza e una altrettanto nuova trasparenza.
Il Covid-19 ci ha messo di fronte ad uno scenario simile a quello di una guerra.
Per rilanciare il Paese, senza tirare in ballo impropriamente un fantomatico Piano Marshall, dobbiamo creare strutture capaci di resistere, nel tempo, a qualsiasi impatto.
Strutture che contribuiscano a ridurre drasticamente il divario tra Sud e Nord, che garantiscano il lavoro ai giovani e a chi lo ha perso.
Disegniamo adesso o mai più un futuro centrato sull’innovazione tecnologica governata dall’uomo.
In Europa la corsa è già partita.
Non restiamo indietro, sommersi da un mare di scartoffie.
*Giuseppe Romano è Presidente della CISE e dell’ASI Napoli