Il mondo è devastato da conflitti e guerre come forse mai era accaduto dal 1945 ad oggi. Se ne contano, secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program, oltre 100 con conseguenze drammatiche per la popolazione civile. Uomini, donne, minori esposti a qualunque forma di bombardamento e tortura, anziché essere protetti, almeno dal diritto internazionale e dall’opera preventiva e risolutiva delle Nazioni Unite (Onu), sono divenuti bersaglio, finendo col fuggire in altri paesi, in cerca di pace e di futuro o, in modo assai più drammatico, con il riempire fosse comuni e cimiteri.
Secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program, ci sono oltre 100 conflitti in corso con conseguenze drammatiche per la popolazione civile
Secondo il Global Risks Report 2025, i conflitti armati tra Stati rappresentano il principale rischio globale. Nel 2024 lo stesso rischio era soltanto all’ottavo posto nella classifica mondiale. Una crescita esponenziale e drammatica che indica una escalation senza precedenti. Alcuni conflitti sono internazionali, altri interni ma con implicazioni globali. Sono inoltre classificati, in alcuni casi, come guerre civili o insurrezioni armate, spesso alimentate da crisi economiche, violazioni dei diritti umani, terrorismo e disuguaglianze storiche. Le stragi degli innocenti sono, nel contempo, quotidiane, spesso condotte con armi ad altissimo potenziale: missili sparati sugli ospedali, giornalisti che diventano target militari, bambini uccisi da cecchini, massacri di gruppi religiosi totalmente inermi, gruppi paramilitari che conducono aggressioni letali casa per casa, strada per strada, lasciando una scia di sangue che diventa fiume.
Le conseguenze economiche e politiche dei conflitti hanno contribuito ad innescare un clima di crescente instabilità internazionale
Nel 2025, tra le varie, meritano di essere ricordate la guerra tra Russia e Ucraina, l’escalation dei conflitti in Medio Oriente (in particolare Israele, Palestina, Iran e Yemen), i sanguinosi conflitti in Sudan, nel Sahel (Mali, Burkina Faso, Niger) e nel Myanmar. Inoltre, in Messico e in Colombia sono proseguiti gravi conflitti interni e si è registrato una potenziale e letale escalation tra India e Pakistan. Le conseguenze economiche e politiche hanno contribuito ad innescare un clima di crescente instabilità internazionale. L’Africa, ad esempio, mostra un’emorragia drammatica di giovani che fuggono proprio da guerre, carestie, persecuzioni e dittature. Sono 46 milioni gli emigranti di origine africana che nel 2025 hanno lasciato il continente per andare, anche con mezzi di fortuna o mediante organizzazioni criminali transnazionali, in altri paesi, rischiando ad ogni passo la loro vita. Sono parte di una migrazione che in genere viene trattata come problema di sicurezza e non come la manifestazione evidente di una drammatica condizione strutturale di disuguaglianze e di conflitti ormai permanenti.
Sono 46 milioni gli emigranti di origine africana che nel 2025 hanno lasciato il continente per sfuggire a conflitti o carestie
Sta accadendo, ad esempio, nel Darfur dove è in corso una ecatombe da 18 mesi. La mattanza è condotta dalla Rapid Support Forces, entrata il 26 ottobre scorso nella città di el-Fasher, nel Nord del paese, che esercita ogni forma di violenza, compreso lo stupro delle donne, massacri arbitrari sui civili, rapimento dei minori, torture ed esecuzioni sommarie condotte in luoghi pubblici, lasciando per terra migliaia di cadaveri. Negli ultimi quattro giorni, nella testimonianza di Ilaria De Bonis, sarebbero state uccise almeno 1.500 persone: secondo la giornalista italiana, che riporta le dichiarazioni di alcuni medici, «i massacri cui il mondo assiste oggi, sono una estensione di ciò che è successo ad el-Fasher nel corso di oltre un anno e mezzo di guerra, quando 14mila civili sono stati uccisi tramite bombardamenti, fame ed esecuzioni extragiudiziarie». Ad alimentare questa barbarie sono gli Emirati Arabi che continuano a fornire armi alle Rapid Support Forces in cambio del preziosissimo oro estratto dalle miniere del Darfur. Il conflitto è iniziato nell’aprile del 2023 ed ha causato sinora la morte di decine di migliaia di persone, prodotto oltre 12 milioni di sfollati e dato luogo alla più grave crisi umanitaria al mondo. Una crisi ogni giorno più grave e nel contempo sotto gli occhi del mondo.
Dinnanzi a una situazione globale così grave è necessario comprendere se l’Onu sia ancora in grado di svolgere il proprio compito
Dinnanzi a una situazione globale così grave, è legittimo riflettere sul ruolo e sulla funzione che le Nazioni Unite stanno svolgendo. Nata con lo scopo di garantire la pace o risolvere i conflitti, in un mondo in cui la guerra e le tragedie umanitarie sono all’ordine del giorno, è necessario comprendere se l’Onu è ancora in grado di svolgere il proprio compito o se invece è precipitata in una crisi politica ed organizzativa senza precedenti e forse irrisolvibile[1]. Una riflessione che esplode in tutta la sua urgenza proprio nell’anno in cui si celebrano gli ottant’anni dalla fondazione dell’Onu. Ai conflitti sopra menzionati si devono aggiungere alcuni fatti di particolare complessità e urgenza: la “guerra dei dodici giorni” tra Israele e Iran intercorsa tra il 13 e il 24 giugno del 2025, i bombardamenti statunitensi sui siti nucleari di Fordo, Ispahan e Natanz nel giugno del 2025, quelli israeliani sul Qatar ancora a settembre di quest’anno, la presenza militare statunitense ai Caraibi con obiettivo belligerante nei confronti del Venezuela e possibile coinvolgimento, per richiesta di aiuto del presidente Maduro, della Cina e della Russia, la lunghissima crisi haitiana, a cui far seguire il conflitto ucraino, il terrorismo internazionale del redivivo, nelle sue diverse forme e gemmazioni, Al-Qaeda[2], di Hamas e la strage di civili ebrei del 7-9 ottobre del 2023[3] e il conseguente drammatico massacro dei civili palestinesi a Gaza[4].
La posizione sempre più ostile degli Stati Uniti nei riguardi dell’Onu ha causato una perdita di circa 60 miliardi di dollari destinati a programmi sanitari e umanitari
Questa complessità viene acuita dalla posizione sempre più ostile degli Stati Uniti del presidente Trump nei riguardi dell’Onu, il cui ritiro dal suo ruolo storico di donatore mondiale ha causato l’immediata perdita di circa 60 miliardi di dollari destinati, proprio nella fase in corso, a sostenere programmi sanitari e umanitari delle Nazioni Unite. Altri donatori storici hanno seguito l’esempio statunitense, annunciando riduzioni simili, come il Regno Unito (-40%), la Francia (-37%), i Paesi Bassi (-30%) e il Belgio (-25%). L’OMS da sola ha visto ridurre i propri fondi del 44% rispetto a 1,6 miliardi di dollari del 2022 destinati alla nutrizione di popolazioni decimate dalla fame e dalla sete.
Tra il 1950 e il 2010 l’applicazione delle regole del diritto internazionale e delle risoluzioni Onu ha permesso di fermare le guerre con un cessate il fuoco o un trattato di pace, salvando milioni di vite
Eppure, per circa ottant’anni, le Nazioni Unite sono state il luogo di discussione ed elaborazione di migliaia di documenti, studi, ricerche, policy, trattati e programmi su cultura, scienza, lavoro, sanità, diritti umani e, in modo specifico, sulla pace quale unico orizzonte possibile per l’umanità intera. Gli stessi Caschi blu hanno accompagnato, non senza contraddizioni e tentennamenti, i processi di pace in molte aree del mondo martoriate da conflitti di varia natura, coma a Timor Est per continuare con l’area del Sahara occidentale, Cipro o con la frontiera dei due Sudan. In definitiva, tra il 1950 e il 2010 l’applicazione delle regole del diritto internazionale e delle risoluzioni Onu in conflitti gravi ha permesso di fermare le guerre con un cessate il fuoco o un trattato di pace, salvando milioni di vite. È accaduto, per esempio, in Corea (1950-1953), Suez (1956), Congo (1960-64), Cipro (1964), Mozambico (1979-92), i conflitti arabo-israeliani, la pace Israele-Giordania (1994), Iran-Iraq, Bosnia (1992-95), Kosovo (1998-99), Sierra Leone (1991-2002), Sudan (1983-2005), Liberia (1989-2003), Nagorno-Karabakh (1988-94) e in diversi altri conflitti. Alcuni accordi di cessate il fuoco e vari trattati di pace sono riusciti a superare guerre e tragedie con il loro carico di traumi e sentimenti volti all’odio e alla vendetta.
L’amministrazione Trump sta imponendo alle Nazioni Unite il principio del “meglio soli che male accompagnati”
È dunque legittimo riflettere sul ruolo dell’Onu e sulla sua capacità di risolvere o non risolvere oggi conflitti e guerre. Una riflessione che nasce anche da alcuni terremoti interni che ne hanno minato, probabilmente in modo irrimediabile, la credibilità e l’agibilità politica. Il primo di questi è il disimpegno degli Stati Uniti dal sistema di alleanze strategiche, fondate sulla mediazione e sul reciproco riconoscimento. L’ordine liberale e soprattutto multilaterale è esplicitamente considerato dagli Stati Uniti di Trump come un ostacolo all’organizzazione di un nuovo ordine globale fondato invece sulla gerarchia e sulla potenza economica e militare in grado di confrontarsi e sconfiggere, secondo il nuovo vocabolario delle relazioni internazionali, l’ascesa della Cina e dell’India, il ruolo ambiguo della Russia e dei nuovi Stati emergenti come Brasile e Sudafrica. Si potrebbe affermare, permettendo una sintesi imperfetta, che l’amministrazione Trump stia imponendo alle Nazioni Unite il principio del “meglio soli che male accompagnati”, premettendo però che i soggetti che costituirebbero un problema per gli Stati Uniti non sono più i referenti di un sistema politico anticapitalistico o dittatoriale, come era fino al 1989, ma quelli europei, rei di rappresentare un modello statico, lento, poco militarizzato, orientato in favore della pace e del welfare pubblico, rappresentativo della cultura del dialogo piuttosto che dello scontro frontale.
È in corso una ristrutturazione dell’Onu, della sua agibilità e ruolo globale, con la ricostituzione di un sistema di Stati-Nazione fondato sulla potenza più che sulla mediazione
Le conseguenze per le Nazioni Uniti sono evidenti non solo in termini di bilanci, stanziamenti, policy e prospettive. Gli Stati Uniti sono, ad esempio, usciti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal consiglio dei Diritti Umani, dall’Organizzazione per l’educazione, la scienza e la cultura (meglio nota come Unesco) e dai trattati internazionali sul clima come quello di Parigi del 2015. Non esattamente schermaglie o solo dichiarazioni. È in corso, dunque, una ristrutturazione, di fatto, dell’organizzazione dell’Onu, della sua agibilità e ruolo globale, con la ricostituzione di un sistema di Stati-Nazione fondato sulla potenza più che sulla mediazione e sul potere economico/militare piuttosto che su quello dei diritti umani e civili. Volendo osservare con maggiore attenzione ai settori dell’Onu dai quali gli Stati Uniti sono usciti, si può facilmente notare che essi sarebbero stati, fino a qualche anno fa, considerati strategici a livello globale su alcuni assetti fondamentali per il progresso democratico, come la cultura, i diritti umani, ambientali e la salute.
La Cina rafforza la sua presenza in seno alle Nazioni Unite in un’ottica di evidente consolidamento dei suoi assetti principali
Le conseguenze sotto il profilo geopolitico globale non sono secondarie. L’Unione europea, ad esempio, sembra un evidente “vaso di coccio” in uno schema mondiale in cui, anche per l’assenza di una strategia interna comune, è relegata a una pericolosa marginalità. La Cina, al contrario, rafforza la sua presenza in seno alle Nazioni Unite in un’ottica di evidente consolidamento dei suoi assetti principali e della maggiore legittimità del suo status di potenza politica globale. Anche in questo caso emerge un nuovo paradosso, impensabile fino a soli dieci anni fa. La Cina comunista sembra scalzare in seno alle Nazioni Unite il ruolo strategico svolto per anni dagli Stati Uniti con l’obiettivo di edificarsi come nuovo polo di stabilità e di difesa multilaterale. Una strategia che non ridefinisce solo il ruolo e il rilievo politico dell’Unione europea e più in generale dell’Occidente, ma consente una nuova centralità dei paesi del Sud del mondo in relazione commerciale, d’impresa e geopolitica con la stessa Cina. Il paese governato da Xi Jinping, infatti, ha da anni un peso crescente nella fascia del Sahel, in alcune aree del Nord Africa e in Medio Oriente, oltre ad allargare lo spettro della propria influenza sul Mediterraneo e in Medio Oriente. Nel contempo la Russia, che conserva e usa strumentalmente il suo fondamentale diritto di veto in seno alle Nazioni Unite, esprime una serie di profonde contraddizioni che ne identificano la strategia, a partire dalla feroce critica che Putin ha espresso nei riguardi dell’interventismo francese in Africa e dichiarato apertamente il proprio favore al multipolarismo pacifico in contemporanea con l’aggressione militare compiuta in Ucraina che delle volontà politiche sopra dichiarate rappresenta la piena contraddizione.
La crisi dell’Onu riflette nuovi rapporti di potere e di interesse tra le maggiori potenze del mondo
La crisi delle Nazioni Unite, dunque, non fa riferimento solo a una necessaria riorganizzazione interna per una complessità globale, che sotto molteplici aspetti è ormai esplosa in tutta la sua dirompente potenza imponendo la sua agenda politica, ma anche ad uno schematismo che riassetta le gerarchie e corrisponde a nuovi rapporti di potere e di interesse tra le maggiori potenze del mondo. È in quest’ottica che va collocata la “crisi del multilateralismo” da cui deriva la compromissione delle Istituzioni finanziarie internazionali (Ifi), come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale (Fmi), create un anno prima dell’Onu a Bretton Woods nel 1944, per la cooperazione economica internazionale. Si tratta di un terzo fondamentale paradosso. Per anni le Istituzioni finanziarie internazionali sono state oggetto di critiche severe per il regime economico e finanziario che imponevano a paesi in crisi o in transizione. Nessuna di queste critiche è stata in grado di procedere in favore di una ridefinizione della governance delle Istituzioni finanziarie globali o della loro messa in discussione. Ciò è invece accaduto, per mezzo di nuovi posizionamenti interni, da parte delle superpotenze e di un riassetto del mondo di lungo periodo che ha di fatto tolto terreno sotto ai piedi delle agenzie internazionali, capacità di governance e potere direttivo. Lo dimostrano anche le rilevanti difficoltà che il Consiglio economico e sociale dell’Onu ha incontrato nel sollecitare percorsi di riforma dell’Ifi, nonostante i poteri ad esso conferiti dalla stessa Carta fondamentale delle Nazioni Unite.
Nel contempo, proliferano gli accordi di libero scambio in un contesto bilaterale o multilaterale su cui l’Onu non ha alcuna influenza
Nel contempo, proliferano gli accordi di libero scambio in un contesto bilaterale o multilaterale su cui l’Onu non ha alcuna influenza. Sono accordi che, in alcuni casi, sono in contraddizione palese coi vari trattati dell’Onu e la sua vocazione originaria, che vengono tuttavia regolarmente sottoscritti e spesso immediatamente vincolanti con una rinnovata potenza politica di intervento e applicazione senza precedenti. Va anche ricordata l’irrilevanza delle Nazioni Unite sulla crisi finanziaria del 2007-2008 e la sua marginalità nel dibattito e azione prevalente del capitalismo estrattivo con riferimento, in particolare, ai percorsi di estrazione di materie prime o ambientali fondamentali per il capitalismo digitale. Le stesse considerazioni sono valide anche per le alleanze militari, spesso di natura strategica, sulle quali prevale l’Organizzazione del trattato Atlantico del Nord (Nato), come anche sui grandi temi geopolitici vi è un imprinting superiore da parte del G7 e del G20.
Anche l’articolazione ormai iniqua della rappresentanza dei paesi in seno al Consiglio di sicurezza solleva critiche crescenti
Anche l’articolazione ormai iniqua della rappresentanza dei paesi in seno al Consiglio di sicurezza solleva critiche crescenti in ragione di formule vetuste volte a conservare poteri di indirizzo e di blocco dell’azione di governo sempre favorevoli, in spregio al principio democratico, ai paesi con potere di veto. Nessun paese africano e latinoamericano, ad esempio, ha un peso pari a quello dei cinque grandi paesi con potere di veto, quali Francia, Stati Uniti, Russia, Cina e Regno Unito, anche se il loro percorso dal 1945 ad oggi è stato straordinariamente avanzato. Basti ricordare che nel 1945, anno di istituzione dell’Onu, il Continente africano era ancora quasi completamente colonizzato, e che attualmente tra le economie più importanti a livello mondiale si trovano due paesi latinoamericani come il Messico e il Brasile.
Lo stesso Comitato internazionale della Croce Rossa, in una fase in cui i conflitti e le tragedie sono all’ordine del giorno, è sottoposta alla soppressione di oltre 4.000 posti di lavoro e la contrazione del 17% del suo bilancio
L’elemento di maggiore preoccupazione è accaduto il 25 aprile scorso quando una nota firmata dal capo di gabinetto del segretario Guterres esortava le direzioni del segretario generale a individuare entro tre settimane le funzioni da eliminare o trasferire. Una conseguenza diretta non solo dei mancati finanziamenti erogati dai paesi facenti parte le Nazioni Unite, ma anche della strozzatura della governance in cui l’Onu è precipitata, il cui combinato disposto rischia di farla arenare se non di determinarne il definitivo fallimento. Lo stesso Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr), in una fase in cui, come già scritto, i conflitti e le tragedie sono all’ordine del giorno, è sottoposta a un’allarmante cura dimagrante con la soppressione di oltre 4.000 posti di lavoro e la contrazione del 17% del suo bilancio entro il 2026. È un intero sistema che sta dunque imbarcando acqua, dentro riforme strutturali che gli esperti definiscono immutabili e insuperabili.
La riforma del Consiglio di sicurezza risulta inevitabile per riprendere in mano, alla luce dei conflitti armati in vigore, la governance della pace
Restano inevase molte riflessioni, a partire da alcune proposte necessarie per impedire il fallimento di un’organizzazione che, se rinnovata, potrebbe tornare, probabilmente, a svolgere un ruolo fondamentale per il bene comune, per la pace e, più in generale, per l’umanità intera. La riforma del Consiglio di sicurezza, sotto questo punto di vista, risulta ormai inevitabile per riprendere in mano, alla luce dei conflitti armati in vigore, la governance della pace. La rotazione dei seggi nel Consiglio di sicurezza non ristabilisce adeguatamente l’equilibrio regionale. Anche con due dei 10 seggi a rotazione del Consiglio di sicurezza, la regione Asia-Pacifico sarebbe ancora massicciamente sottorappresentata. Essa, pur costituendo circa il 55% della popolazione mondiale e il 44% del Pil mondiale, ha solo il 20% (tre su 15) dei seggi nel Consiglio di sicurezza e dunque un peso politico marginale. Andrebbe, quindi, in primis, riaffermata l’ineludibilità dell’interdipendenza dei popoli in termini di prosperità e sicurezza per poter raggiungere un consenso su qualche forma di governo multilaterale dell’umanità.
Altra condizione che si potrebbe definire vitale per l’Onu consiste nella costruzione di una governance più flessibile e adatta alla complessità attuale
Nel contempo, cambiare paradigma analitico consentirebbe lo sviluppo di strumenti cognitivi e politici innovativi e adeguati a prevenire le guerre e a costruire un orizzonte di pace condivisa, come suggerito peraltro dal Parlamento europeo, che ha messo a punto una proposta articolata di riforma delle Nazioni Unite. Il modo in cui i paesi membri hanno invece bloccato le riforme del multilateralismo ha causato un effetto paralizzante. Ogni opposizione a una riforma della governance della pace genera un susseguirsi di opposizioni in un’altra area della governance, che provoca nuove guerre e conflitti. Altra condizione che si potrebbe definire vitale per l’Onu consiste nella costruzione di una governance più flessibile e adatta alla complessità attuale. Attraverso il Review of Peace Operations, previsto dal Pact for the Future, si potrebbero ad esempio ripensare radicalmente strumenti e approcci, affinché siano adatti a contesti sempre più complessi e conflittuali.
Le operazioni di pace non possono funzionare senza volontà collettiva, mandati chiari e un autentico impegno per soluzioni politiche sostenibili
L’ottimizzazione delle risorse economiche, in una fase in cui il budget per il peacekeeping, già equivalente a solo lo 0,5% della spesa militare globale, è sotto pressione, dovrebbe essere incentivata mediante un impegno rinnovato di tutti i paesi rappresentati nel Consiglio di Sicurezza. Questo richiede una maggiore agilità nella gestione del personale, nelle strutture di comando e nella collaborazione con i paesi contributori di truppe. Ovviamente, resta fondamentale il sostegno politico. Le operazioni di pace non possono funzionare senza volontà collettiva, mandati chiari e un autentico impegno per soluzioni politiche sostenibili, per affrontare le sfide del presente e del futuro, ma che non può fare a meno del sostegno degli Stati membri. Si consideri che, per esempio, dopo le tragedie vissute in presa diretta dalla popolazione di Gaza, ad oggi non sono previste operazioni militari o di altro tipo organizzate dall’Onu. L’attività in tal senso è di assoluta competenza dei singoli Stati che, coordinandosi tra di loro, pianificano le varie operazioni da condurre in uno dei teatri più pericolosi e complessi del mondo.
Senza il coraggio delle riforme, il futuro dell’Onu sembra drammaticamente destinato alla ininfluenza o addirittura al suo ufficiale fallimento
Senza il coraggio delle riforme, la costruzione di una nuova volontà politica in grado di guardare a un orizzonte unito e di pace, il futuro delle Nazioni Unite sembra drammaticamente destinato alla ininfluenza o addirittura al suo ufficiale fallimento, lasciando i nuovi governatori del mondo gestire il futuro dell’umanità secondo interessi personali, ideologici o del proprio singolo Stato. Un futuro che sembra richiamare gli anni immediatamente precedenti a quelli di alcune delle tragedie più gravi che l’umanità abbia mai vissuto, come quelle delle due guerre mondiali.
*Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore dell’Eurispes.
[1] Va ricordato, a dimostrazione della complessità della società contemporanea, che nel 1945 solo 50 paesi presero parte alla prima Conferenza, organizzata a San Francisco, per decidere all’unanimità lo Statuto dell’Onu, a fronte di una popolazione mondiale di circa 2,3 miliardi di persone. Oggi invece ci sono 193 popoli membri delle Nazioni Unite mentre altri 50 non sono ancora rappresentati ma hanno ben presenti le sfide che si pongono loro dinnanzi, a fronte di una popolazione mondiale di oltre 8 miliardi di persone.
[2] Nel 2024, ad esempio, si è manifestata la presenza dello Stato Islamico nella provincia del Khorasan (ISKP), quale branca regionale dell’IS, con base in Afghanistan e Pakistan. Sono seguiti gravissimi attacchi terroristici in diversi paesi, come quello alla tomba di Qassem Soleimani a Kerman, Iran, il 3 gennaio (nel quarto anniversario dell’uccisione del generale iraniano da parte degli Stati Uniti) e presso la sala concerti a Krasnogorsk, vicino Mosca, il 22 marzo. L’ISKP ha anche ispirato numerosi piani terroristici anche in Europa.
[3] L’attacco di Hamas a Israele del 2023, chiamata Operazione Diluvio al-Aqṣā, è consistito in una serie di attacchi terroristici di gruppi armati provenienti dalla Striscia di Gaza che ha portato alla morte di 1.200 tra civili e militari israeliani, e al rapimento di circa 250 persone, avvenuto il 7 ottobre 2023 nel territorio di Israele.
[4] Secondo la Commissione d’Inchiesta delle Nazioni Unite la reazione militare di Israele dopo l’attacco terroristico di Hamas condotto il 7 ottobre del 2023 è un genocidio che ha determinato, secondo fonti ufficiali, la morte di oltre 65.000 civili palestinesi, tra cui oltre 20.000 bambini. Migliaia risulterebbero ancora dispersi, intrappolati sotto le macerie di Gaza. Su una popolazione di 2,1 milioni, 9 persone su 10 sono state costrette ad abbandonare le proprie case per dirigersi verso aree sempre più ristrette, inadatte a sostenere condizioni di vita dignitose.

