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Per scandire un vero progresso la ricerca deve avere un senso del limite

di
Massimiliano Cannata

L’uomo è un algoritmo? Paolo Benanti pone la spinosa questione nel suo ultimo saggio edito da Castelvecchi. Se sarebbe fuorviante una risposta positiva, rimane l’onere della prova, per chi vuole difendere la superiorità dell’uomo nel “villaggio globale tecnologico” che è il “liquido amniotico” che ormai ci nutre fin dai rimi vagiti. Il mito di Ulisse ci insegna che la ricerca umana è ispirata dalla curiositas e guidata dall’intelli­genza. Nello studio vengono evocate due declinazioni di questa facoltà superiore classica: nous e metis. Dalla sinergia di queste facoltà sono nate le grandi invenzioni che segnano la nostra specie, a partire dalla «grande invenzione del linguaggio». Oggi però il linguaggio non sembra più una prerogativa esclusivamente umana: l’Intelligenza artificiale, nelle vesti di ChatGPT e dei Large Language Models (LLM), ha introdotto una lingua computazionale che riconfigura in modo nuovo parola e pensiero.

L’intelligenza algoritmica deve tornare a essere uno stru­mento nelle nostre mani, al servizio della piena dignità umana

Paolo Benanti ci accompagna in una breve e suggestiva riflessione etica sul paradosso della tecnica, pur riconoscendone le potenzialità: questa estensione della nostra «naturalità artificiale» sembra infatti sempre meno orientata a mappare la realtà e sempre più propensa a confonderci. Muovendosi tra informatica, filosofia e spiritualità – da Turing a Searle, da Scheler a Jonas – Benanti avanza una proposta semplice ma dirompente, capace di restituire centralità alla dimensione umana. Recuperare oggi un «pregiudizio umanista» non significa infatti ripudiare il progresso, ma riaffermarne la sfida più autentica: vivere una vita buona e consapevole. L’intelligenza algoritmica deve tornare a essere uno stru­mento nelle nostre mani, al servizio della piena dignità umana. È alle Università, oggi, che spetta il compito fondamentale di creare nuovi «paesaggi culturali», dove ritrovare il senso delle nostre creazioni e delle nostre vite. Affrontare la svolta radicale che abbiamo di fronte rimane l’interrogativo di fondo del saggio. «La condizione tecno-umana dà una continua sfida rispetto all’ambiente. La tecnologia è uno strumento di adattamento e sopravvivenza, ma anche uno strumento per elevarsi, andare oltre, non si spiegherebbero se no capolavori come le Piramidi – scrive Paolo Benanti ‒ o la Cappella Sistina». Ecco perché il linguaggio è la grande invenzione, la traccia di un’eccedenza umana che aspira a superare il regno del visibile.

Paolo Benanti riflette sul linguaggio considerandolo né più né meno che una tecnologia

Benanti riflette sul linguaggio considerandolo né più né meno che una tecnologia che, come tale, ha bisogno di essere affinata, che si evolve nel tempo, che vive in divenire. Con il linguaggio l’individuo crea il mondo simbolico, attribuendo significati, presuppone il dialogo come requisito essenziale della sua stessa natura, come porta dell’apprendimento. Torna di attualità la lezione di Umberto Eco che teorizzava la differenza sostanziale tra informazione cibernetica e informazione semantica. Nell’era del “testo computato”, introdotta dal salto quantico apportato dalla digitalizzazione dei contenuti, si è allargata a dismisura la possibilità di veicolare messaggi, idee, pezzi di realtà. Ma l’informazione semantica è qualcosa di più della potenza riproduttiva che sofisticati software oggi consentono, richiede pensiero critico, selezione e interpretazione dei big data che sono il nuovo petrolio dell’information society. La costruzione automatica di frasi di senso, che le intelligenze generative (Chat GPT rimane il caso più affascinate e dibattuto) ben istruite sanno mettere in campo, non può né mimare né riprodurre l’intenzionalità della coscienza umana. L’AI che oggi sfida l’individuo nelle facoltà superiori, si basa su correlazioni statistiche, non riesce a controllare la semantica delle frasi, la loro correlazione con il contesto che le rende mutanti, sempre diverse. Questa singolare “gara” tra uomo e macchina impone il recupero dei due termini usati all’inizio, dandoci l’opportunità di comprendere meglio la loro attualità. La macchina possiede la metis, quella che i greci consideravano come un’intelligenza pragmatica che opera su dati precostituiti, a essa sfugge qualsiasi forma di nous, la visione razionale, contemplativa, potremmo definirla astratta, in grado di entrare nella semantica.

L’artefatto tecnologico entra nella struttura profonda del nostro essere, diventando una questione ontologica

«I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo» come sosteneva Wittgenstein nel suo Tractatus. Quel mondo cui il grande pensatore si riferiva appare capovolto dalle scoperte della tecnoscienza. Quella che possiamo esercitare, da esseri dotati di intelligenza e ragione, è una forma di equilibrato discernimento che ci consenta di afferrare tutte le opportunità che possono aprirsi in un universo in espansione. L’artefatto tecnologico entra nella struttura profonda del nostro essere, è divenuto una questione ontologica direbbero i filosofi, non più una riflessione a latere confinata nei salotti degli addetti ai lavori. L’algoretica, neo disciplina invocata da Benanti e da Sebastiano Maffettone ‒ filosofo della politica, docente emerito della LUISS, che cura la prefazione del saggio ‒ può essere una “medicina”, una strada verso una possibile “sostenibilità” digitale, che vuol dire orientare la ricerca della tecno-scienza in una direzione coerente rispetto ai bisogni della “famiglia umana”, intesa nella sua accezione più alta e universale.

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