«È il momento di avere più Europa, non meno. Ci serve un’Europa più forte». Con queste significative parole di commiato, Mario Draghi ha passato il testimone alla guida della Banca centrale europea, nel corso della cerimonia di lunedì 28 ottobre nell’Eurotower di Francoforte, alla presidente designata Christine Lagarde, chiamata a succedergli dal primo novembre. La presenza corale di tutti leader che contano nell’Ue, in primis Merkel e Macron, ha contribuito ad accrescere l’eco mediatico sull’evento, già rilevante per l’importanza dell’avvicendamento, preparato da mesi, come da consuetudine a questi alti livelli istituzionali.
Il presidente Draghi ha chiuso i suoi otto anni di mandato in un clima di rinnovata inquietudine per i dati non entusiasmanti dei Prodotti interni degli Stati Ue. Un dato appare però inoppugnabile: nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica europea, Draghi è il civil servant che è riuscito a prevenire il crollo della zona euro, come ha autorevolmente rimarcato il nostro Presidente, Sergio Mattarella. Nel suo discorso alla cerimonia, Mattarella ha ricordato come «nel 2011 l’impatto della crisi finanziaria imponeva all’Unione e alla Banca, in primo luogo, un cambio di passo». E così, ha detto Mattarella, «la sfida era presto divenuta esistenziale: sconfiggere la percezione della possibilità, se non del rischio, di dissoluzione dello stesso eurosistema». Una possibilità, e un rischio, che grazie a Draghi «oggi possiamo considerare sconfitti». Da par suo, Draghi ha voluto concludere il suo discorso ringraziando lo stesso Mattarella, il capo di Stato francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel per aver «respinto con forza le voci illiberali che ci avrebbero fatto voltare le spalle all’integrazione europea». Ritratto soprattutto dai media di tutto il pianeta come un ottimo stratega, Draghi ha sicuramente saputo costruire in favore delle sue decisioni, solide maggioranze decisionali nel Consiglio della Bce e ha magistralmente usato la sua parola e l’effetto annuncio come strumento di politica monetaria.
Il presidente uscente della Bce ha costantemente convissuto con la malcelata ostilità dei consiglieri tedeschi nel Consiglio Bce, subito in trincea contro il repentino calo dei tassi, portati a ridosso dello zero da Draghi in soli quattro anni di mandato. La Bundesbank si è sempre mostrata scettica sull’efficacia delle misure di Draghi, sin dall’annuncio dello scudo OMT del 2012, o contro il cosiddetto bazooka da 60 miliardi al mese di acquisto di titoli bancari nel 2016 o, come ancora, nel caso delle pressioni del ministro tedesco Schauble, avversate da Draghi, per far uscire la Grecia dall’euro. In otto anni Draghi ha implementato politiche avverse al credo da molti definito monetarista e ordoliberale, secondo altri, fideisticamente perseguito da decenni dai governatori di Berlino e applicato, secondo i tedeschi in modo esemplare, dal primo presidente della Bce Duisenberg. In una eurozona così inquieta e divisa, l’italiano Draghi è riuscito a imporre politiche monetarie non convenzionali grazie alle quali, l’economia europea, pur senza alti picchi di crescita, ha sostanzialmente retto agli urti procurati dalla più grande crisi che si ricordi nel vecchio continente dagli anni Trenta del Novecento e in presenza da anni di un mood deflattivo che ha legittimato le politiche espansive attuate dal presidente italiano.
Al bilancio finale di un mandato all’insegna di uno stile così attivo e interventista, non sono mancate le critiche severe del fronte monetarista degli economisti, fondate su un presunto e scarso impatto delle misure adottate dalla Bce sulla risalita dell’inflazione verso il target del 2% statutario dell’istituto di Francoforte e sul ricorso al quantitative easing, rinnovato negli ultimi mesi. Di converso, dal fronte postkeynesiano, a Draghi, pur allievo del keynesiano professor Caffè alla Sapienza, non sono stati risparmiati rilievi sulle insufficienti risorse messe in campo, pari a un terzo di quelle impiegate dalla Federal reserve, e sulla tempistica e i ritardi negli interventi.
Le differenti prospettive d’analisi e di giudizio vertono, oltre che sulla strategia della Bce durante la crisi, anche sugli effetti inevitabilmente asimmetrici nei 19 paesi dell’area dell’euro che, negli otto anni del mandato Draghi, hanno versato in condizioni di differenti difficoltà e gradi di sviluppo.
Tutto sommato, il mandato di Draghi sarà ricordato per essere quello in cui la Bce ha mostrato grande creatività nel cercare di rilanciare l’economia, con misure d’impatto sugli equilibri della finanza europea. A futura memoria, Draghi resterà, per cittadini e cultori della storia monetaria continentale, il presidente del whatever it takes e del quantitative easing. «La tua eredità», ha detto la francese Lagarde all’insegna del suo predecessore «è averci insegnato a eccellere e a superare le attese». Ora tocca a lei, già al timone del Fondo Monetario, guidare una istituzione fondamentale per i progressi dell’integrazione europea.