Il riconoscimento di azioni a tutela della insularità è un obiettivo importante per un paese come l’Italia. Eppure, il primo ostacolo, seppure possa sembrare incredibile, è proprio definire che cosa si intenda per isola.
Un conto infatti è la definizione geografica e un conto quella giuridica. E un altro ancora quella comunitaria. La legislazione Ue non offre una definizione concreta di isola, o di insularità. Il Parlamento europeo, in una lontana Risoluzione del 1998 ne aveva tentato una definizione geo-politica, sancendo che una regione insulare è una parte di un paese membro interamente circondata dal mare, senza alcun legame fisso con il continente e non ospitante una capitale dell’Unione (per escludere, in sostanza, dalla definizione “isole” come l’Inghilterra, l’Irlanda o Malta). Più elaborata la definizione, a fini statistici, di Eurostat, che fa riferimento a cinque criteri fondamentali, per cui un’isola deve:
‒ avere una superficie di almeno un chilometro quadrato;
‒ essere distante almeno un chilometro dalla terraferma;
‒ avere una popolazione che vi risiede stabilmente di almeno 50 abitanti;
‒ non avere legami permanenti con il continente;
‒ non annoverare fra le proprie città la capitale di uno Stato membro dell’Ue.
Usando questo criterio selettivo, ventiquattro regioni europee, abitate da poco meno di 14 milioni di cittadini dell’Unione, rientrano nella definizione di regione insulare: il 3,5% della popolazione dell’Ue.
In Italia, oltre alla Sicilia ed alla Sardegna, altre 29 isole minori rientrerebbero in questa definizione. Il Comitato economico e sociale europeo (Cese), dopo un primo parere nel 2008, ha però ribadito, nel 2012, di considerare questa definizione del concetto di isola totalmente inadeguata e ne ha chiesto una revisione. Il problema della definizione è legato, del resto, al fatto che le isole necessitano di maggiori risorse finanziarie da parte dello Stato membro o dell’Unione, rispetto alle regioni continentali. Tra i principali fattori negativi che contraddistinguono le regioni insulari vi è l’effettiva perifericità. Questo fattore è diverso dalla perifericità geografica, o dal concetto di ultraperifericità, citato anche nel Trattato, ed è determinato da un insieme di elementi, quali, ad esempio, la velocità e la frequenza dei trasporti, con gravi perdite di competitività a causa degli oneri rappresentati dalle spese di trasporto, molto più elevate di quelle sostenute in qualsiasi altro territorio del continente europeo. Quasi tutte le isole dell’Unione sono inoltre anche regioni montuose e le attività economiche si incentrano prevalentemente su attività quali la pesca, il turismo e l’agricoltura. Da questo punto di vista, la mancanza di diversificazione delle economie insulari rischia di renderle vulnerabili, particolarmente nei momenti di crisi economica generalizzata.
Da una prima lettura del Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) appare evidente che l’insularità, di per sé, non è sufficiente ad assicurare un accesso privilegiato a politiche di favore, ma può fungere in qualche modo da acceleratore, nel caso in cui la regione in questione si trovi in una situazione oggettiva di disagio economico. Occorre, dunque, chiarire quale sia il divario del livello di sviluppo rispetto alla media europea e, di conseguenza, determinare se tale divario possa giustificare un adeguato intervento.
Altro tema fondamentale è, poi, se l’insularità possa giustificare l’introduzione di regimi fiscali regionali di vantaggio, in deroga alle disposizioni dell’Ue in materia di mercato interno ed aiuti di Stato, laddove comunque la Conferenza intergovernativa ha allegato al Trattato una dichiarazione esplicativa che, sul punto, riconosce che la legislazione comunitaria deve tener conto di tali svantaggi e che possono essere adottate misure specifiche per integrare queste regioni nel mercato interno a condizioni eque, considerando quindi positivamente la possibilità di adottare misure di favore, anche di natura fiscale.
D’altronde, la possibilità di adottare misure specifiche per le regioni insulari ultraperiferiche è prevista nello stesso Tfue, all’art. 349, ma tra tali regioni insulari non sono incluse, tuttavia, la Sardegna o la Sicilia. Come noto, gli aiuti di natura fiscale, suscettibili di turbare la concorrenza, in via di principio, sono proibiti, in quanto incompatibili con il mercato unico. Il principio d’interdizione trova, però, nello stesso Trattato, una serie di limiti e deroghe, che lasciano un certo margine di manovra agli Stati membri. La stessa Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, 6 settembre 2006, relativa alle Azzorre) ha inoltre precisato che il regime fiscale applicato in una determinata parte del territorio nazionale non riveste carattere selettivo (e dunque vietato) rispetto a quello applicato nel restante territorio dello Stato, qualora l’ente territoriale che governa la zona di riferimento goda di una vera autonomia sotto il profilo istituzionale, procedurale e finanziario. Questa decisione, visti anche i relativi Statuti speciali, rappresenta un precedente importante anche per territori italiani, come la Regione Sicilia o la Regione Sardegna.
Tanto premesso quanto alla disciplina generale, sarebbe opportuno avviare, in sede europea, un confronto con la Commissione, per verificare la sua disponibilità ad ammettere norme volte a ridurre il carico fiscale, quantomeno per un periodo limitato ed ancorché solo per quelle imprese che operino localmente nelle citate regioni insulari. L’insularità dovrebbe in sostanza assurgere al rango di parametro autonomo rappresentativo di una situazione di svantaggio e di disparità nei confronti delle altre regioni, laddove anche il Parlamento europeo ha peraltro invitato la Commissione a tener conto di altri indicatori statistici, oltre al Pil.
Il fatto che la politica di coesione e il criterio che seguono i finanziamenti prendano come indicatore il Pil, con riferimento all’Italia, determina la conseguenza che, ad esempio, nel caso della Sardegna, l’isola sia passata da regione in ritardo di sviluppo a regione in transizione, non perché siano migliorate le condizioni economiche e sociali, ma semplicemente perché l’ingresso dei paesi dell’Est ha abbassato la media del 75% del Pil comunitario. E con l’entrata dei nuovi paesi, anche la Sicilia ha visto ridotti i finanziamenti erogati dalle Istituzioni comunitarie. La politica di allargamento dell’Unione ha, dunque, come conseguenza, l’aumento esponenziale del livello relativo di prosperità delle isole Ue, almeno dal punto di vista statistico; il Pil pro capite, molto più basso, dei nuovi paesi determina, infatti, l’abbassamento della media comunitaria, dando luogo così ad un aumento relativo della ricchezza delle stesse regioni. Bisognerebbe, quindi, ricorrere ad altri indicatori statistici, quantitativi o qualitativi, caratterizzati da una specificità regionale (indice di competitività regionale, indice di accessibilità, indice di perifericità insulare, etc.).
Infine, quanto alle possibili, concrete, misure fiscali di vantaggio, per i territori insulari, potrebbero essere istituite specifiche zone franche integrali, facendo anche leva sull’esperienza francese relativa alla Corsica: con la legge n. 96-1143, in seguito al giudizio positivo, preventivo, della Commissione, è stata creata un’area in cui era possibile godere di diversi sgravi fiscali, per cinque anni e limitatamente alle imprese che esercitassero un’attività locale, oppure alle imprese in fase di costituzione o di ampliamento. Le disposizioni volte alla temporanea esenzione dai tributi doganali, tipiche delle zone franche, potrebbero inoltre essere arricchite anche con un corredo di agevolazioni di carattere fiscale. Nell’esperienza internazionale, le cosiddette enterprise zones si caratterizzano, infatti, per la previsione di esenzioni dalle imposte dirette e dai tributi locali, per l’esenzione da imposte sui trasferimenti per l’acquisto di beni immobili strumentali, per lo snellimento delle procedure amministrative per l’ottenimento di licenze e l’esercizio di determinate attività, per l’accesso a finanziamenti agevolati alle imprese, etc.
In alternativa, la riduzione d’imposta dovrebbe essere riconosciuta da un’articolazione territoriale dello Stato – ad esempio, la Regione – in relazione alle imposte per le quali essa può effettuare delle manovre sulle aliquote (in primis per l’Irap). Riflessioni analoghe potrebbero farsi su Ires ed accise. Riflessioni che, si auspica, portino ad azioni concrete.