Non passa giorno in cui in Italia, grazie in particolare all’attività investigativa delle Forze dell’ordine e di varie Procure, non risulti evidente l’emergenza diffusa legata alle modalità di reclutamento, intermediazione e impiego di lavoratori e lavoratrici, spesso migranti, nelle campagne del Paese. Si tratta di condizioni che a volte rasentano la schiavitù, producendo un costante e quotidiano stato di segregazione per migliaia di persone. È questa la voce fondamentale – come ha stimato l’Eurispes nell’ultimo Rapporto Agromafie, realizzato in collaborazione con Coldiretti – di un business agromafioso complessivo e criminale di 24,5 miliardi di euro nel 2019, con una crescita del 12,4% rispetto al 2018.
L’ultimo intervento, in ordine di tempo, porta la firma della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, guidata da Maria Antonietta Troncone, ed è stato condotto il 15 settembre scorso dai finanzieri della Compagnia di Mondragone. Un’operazione attuata in un territorio già caratterizzato da una diffusa e storicizzata attività di “caporalato” e dalla presenza di importanti clan della Camorra. Tale intervento della Procura ha permesso l’applicazione di un’ordinanza esecutiva di misure cautelari personali e reali nei confronti di due imprenditori agricoli, ritenuti responsabili del delitto di sfruttamento del lavoro, previsto e punito dall’art. 603-bis Codice penale. Si tratta del noto reato di “caporalato”, diffuso in realtà in tutto il Paese, sia pure con modalità e capacità di penetrazione e condizionamento diverse.
Il provvedimento della Procura di Santa Maria Capua Vetere ha disposto per i titolari delle imprese agricole interessate – una operante nel territorio di Carinola, l’altra in quello di Falciano del Massico (Provincia di Caserta) – il divieto di dimora nella Regione Campania e nella Regione Lazio, nonché l’interdizione all’esercizio di attività d’impresa e di direzione delle persone giuridiche per un periodo di dodici mesi. Un’interdizione che indica una evidente volontà di espulsione di questi soggetti dall’attività di impresa che, invece, richiede una rigorosa adesione alla normativa vigente sia in termini ambientali sia, soprattutto, giuslavoristici.
Sono state, inoltre, sequestrate due aziende e beni mobili e immobili per un valore complessivo di oltre 3 milioni di euro, tra cui disponibilità finanziarie per circa 450mila euro. Ciò indica un’attività produttiva sviluppata, in grado di reggere la competizione del mercato – agevolata dalla violazione evidente della leale concorrenza d’impresa – e di ottenere profitti milionari. Sono stati sequestrati due terreni sui quali gli agenti della Guardia di Finanza hanno accertato l’attività lavorativa svolta in condizioni di sfruttamento da parte di numerosi lavoratori migranti.
Secondo l’accusa, gli imprenditori agricoli si sarebbero avvalsi dell’intermediazione illecita di diversi “caporali” (arrestati anch’essi nell’ambito della medesima indagine), i quali reclutavano, quotidianamente, decine di lavoratori, spesso migranti non comunitari, versanti in uno stato cronico di povertà, emarginazione e ricattabilità, per impiegarli, alle condizioni economiche e lavorative stabilite dai datori di lavoro coinvolti, nella raccolta di prodotti agricoli. Questo risultato è stato ottenuto grazie ad un’accurata e attenta attività di indagine che ha consentito di acquisire rilevanti elementi probatori a carico dei sei soggetti accusati di “caporalato”, peraltro già sottoposti nel 2018 a misure restrittive per via ancora di questa attività criminale.
Le indagini della Guardia di Finanza hanno consentito, peraltro, di ricostruire i profili economico-finanziari legati alla filiera della loro illecita redistribuzione tra datori di lavoro consapevoli e “caporali”. Proprio questa attività ha permesso di adottare diverse misure di aggressione patrimoniale che derivano dall’applicazione specifica della legge 199/2016, più comunemente definita “legge anti-caporalato”. Una norma, è utile ricordarlo, fondamentale per contrastare le agromafie in Italia di cui è, però, necessaria la completa applicazione su tutto il territorio nazionale. Tutti gli elementi investigativi hanno confermato la gravità e la diffusione di un fenomeno che alimenta il “lavoro nero” e, nel contempo, nega ai lavoratori alcuni loro diritti fondamentali. Non si tratta infatti solo di sfruttamento, ma di un’attività di emarginazione, di violenza e di ricatto che produce forme radicali di mortificazione e, in alcuni casi, anche di riduzione in schiavitù. È questa l’espressione, come ricorda l’Eurispes, di una rete criminale che incrocia la filiera del cibo, dalla produzione al trasporto, dalla distribuzione alla vendita, che inquina l’attività agricola di qualità, rafforza sistemi criminali già diffusi nel Paese e produce violenza e segregazione.