“Credi in te stesso e ce la farai.” Questa frase, declinata in infinite varianti, risuona nelle aule scolastiche, nei corsi di formazione aziendale, nei programmi di salute pubblica, nelle app di wellness. È il mantra del nostro tempo e ha un nome scientifico: autoefficacia. Il concetto, introdotto dallo psicologo Albert Bandura nel 1977, indica la credenza che una persona ha nelle proprie capacità di riuscire in un compito specifico. Non si tratta di autostima generica, ma di una convinzione circoscritta: “Sono capace di parlare in pubblico”, “Posso smettere di fumare”, “Riuscirò a superare questo esame”. Secondo la teoria, chi possiede elevata autoefficacia affronta le sfide con maggiore persistenza, gestisce meglio lo stress, ottiene risultati migliori. Chi ne è privo, invece, tende a evitare, procrastinare, arrendersi. Le applicazioni sono ovunque. Nel mondo del lavoro, i programmi di “employability” mirano ad aumentare l’autoefficacia dei disoccupati per renderli più competitivi sul mercato. Nelle scuole, gli interventi di potenziamento dell’autoefficacia promettono di migliorare il rendimento degli studenti svantaggiati. In medicina, i protocolli di patient empowerment insegnano ai malati cronici a credere nella propria capacità di gestire la patologia. L’autoefficacia è diventata una sorta di panacea psicologica, applicabile a qualsiasi problema: se non funziona, probabilmente non ci hai creduto abbastanza. Ma da dove viene questa idea? E soprattutto: regge a un esame critico?
Il contesto: una disciplina in cerca di legittimità
Per comprendere il successo dell’autoefficacia, occorre tornare agli anni Settanta del Novecento. La psicologia attraversava una fase di profonda incertezza identitaria. Da un lato, il comportamentismo — la scuola dominante negli Stati Uniti per decenni — mostrava crepe sempre più evidenti: la sua rigida esclusione dei processi mentali dallo studio scientifico appariva ormai insostenibile dopo la “rivoluzione cognitiva” inaugurata da Noam Chomsky, George Miller e altri. Dall’altro, la psicoanalisi freudiana, pur influente nella pratica clinica, veniva criticata per la sua scarsa verificabilità empirica.
A quasi cinquant’anni dalla sua formulazione, l’autoefficacia è uno dei costrutti più citati nella letteratura psicologica
La psicologia sociale, in particolare, viveva quella che gli storici della disciplina hanno definito una vera e propria “crisi”: crisi di metodo, crisi di rilevanza sociale, crisi di identità teorica (Faye, 2012). I ricercatori si interrogavano su questioni fondamentali: la psicologia può davvero essere una scienza? I suoi risultati sono replicabili? Le sue teorie hanno valore predittivo o sono semplici razionalizzazioni post-hoc? In questo clima di incertezza, l’autoefficacia di Bandura arrivò come una promessa di rigore e applicabilità. La teoria sociale cognitiva, di cui l’autoefficacia costituisce il perno, offriva un framework apparentemente solido: variabili misurabili, relazioni causali testabili, applicazioni pratiche immediate. Era esattamente ciò di cui la psicologia aveva bisogno per presentarsi come scienza “seria” — capace di competere con economia, medicina, neuroscienze. Il successo fu travolgente. A quasi cinquant’anni dalla sua formulazione, l’autoefficacia è uno dei costrutti più citati nella letteratura psicologica. Ma popolarità e validità scientifica non sono sinonimi. E quando un’idea diventa così pervasiva da trasformarsi in senso comune, è il momento di sottoporla a scrutinio critico.
Un edificio concettuale da esaminare
La teoria sociale cognitiva di Bandura si fonda su un principio chiamato “determinismo reciproco triadico”. L’espressione, dietro il suo tecnicismo, descrive un’idea relativamente semplice: il comportamento umano non è determinato né solo dall’ambiente esterno (come sostenevano i comportamentisti), né solo da fattori interni come personalità o inconscio (come sostenevano altre tradizioni). Piuttosto, tre elementi — cognizione, comportamento e ambiente — si influenzano reciprocamente in un ciclo continuo. Le nostre credenze modellano le nostre azioni; le nostre azioni modificano l’ambiente; l’ambiente, a sua volta, influenza le nostre credenze. In questo schema, l’autoefficacia occupa una posizione centrale: è il mediatore cognitivo che connette stimoli ambientali e risposte comportamentali. Una persona esposta a un’opportunità (ambiente) la coglierà o meno in funzione di quanto si ritiene capace di sfruttarla (cognizione) e il risultato dell’azione (comportamento) retroagirà sulle credenze future.
L’autoefficacia non è un tratto globale di personalità, non esiste una “persona sicura di sé” in senso assoluto
Bandura specifica che l’autoefficacia non è un tratto globale di personalità, non esiste una “persona sicura di sé” in senso assoluto, ma un insieme di giudizi specifici per dominio. Si può avere alta autoefficacia nella guida e bassa autoefficacia nel parlare in pubblico. Questi giudizi, secondo la teoria, derivano da quattro fonti principali: le esperienze dirette di successo (“ce l’ho fatta, posso rifarlo”); l’apprendimento vicario (“se ce l’ha fatta lui, posso farcela anch’io”); la persuasione verbale (“il mio capo mi dice che sono capace”); gli stati fisiologici ed emotivi (“non sento ansia, sono pronto”). L’impalcatura teorica appare robusta. Eppure, già nei primi anni dalla sua formulazione, alcune voci critiche cominciarono a sollevare obiezioni che, a distanza di decenni, non hanno ancora trovato risposta soddisfacente.
Il problema della circolarità logica
Nel 1978, il filosofo della psicologia Jan Smedslund pubblicò un articolo dal titolo provocatorio: “La teoria dell’autoefficacia di Bandura: un insieme di teoremi di senso comune”. La tesi di Smedslund era radicale: molte proposizioni della teoria non sono ipotesi empiriche verificabili, ma affermazioni analiticamente vere — vere, cioè, in virtù del significato stesso delle parole utilizzate. Consideriamo l’affermazione centrale della teoria: “Le persone che credono di poter eseguire un compito hanno maggiori probabilità di tentarlo”. Per Smedslund, questa non è una scoperta scientifica, ma una tautologia mascherata. Se qualcuno afferma di credere di poter fare qualcosa ma poi non ci prova nemmeno, diremmo che in realtà non ci credeva davvero. La proposizione è vera per definizione, non per evidenza empirica. È come dire “gli scapoli non sono sposati”: tecnicamente corretto, ma non ci insegna nulla sul mondo.
Facciamo un esempio concreto. Immaginiamo di chiedere a Mario: “Credi di poter correre una maratona?” Mario risponde: “Sì, credo di potercela fare.” Ma poi Mario non si iscrive a nessuna maratona, non si allena, non ci prova nemmeno. Cosa concludiamo? Che la teoria dell’autoefficacia è stata falsificata? No: concludiamo che Mario, evidentemente, non ci credeva davvero. La teoria diventa così immunizzata dalla smentita, un problema serio per qualsiasi pretesa scientifica.
Che cosa misuriamo davvero?
Nel 1984, Clive Eastman e John Marzillier approfondirono la critica con un’analisi più tecnica. Il loro bersaglio era la distinzione, cruciale per Bandura, tra “aspettative di efficacia” e “aspettative di risultato”. Le aspettative di efficacia rispondono alla domanda: “Sono capace di farlo?” Le aspettative di risultato rispondono a: “Se lo faccio, cosa succederà?” Per Bandura, la prima è il vero motore dell’azione: posso credere che smettere di fumare migliorerebbe la mia salute (aspettativa di risultato positiva), ma se non credo di essere capace di smettere (bassa aspettativa di efficacia), non ci proverò. Eastman e Marzillier obiettarono che questa distinzione, elegante sulla carta, è quasi impossibile da mantenere nella pratica empirica. Quando un ricercatore chiede a un soggetto “Puoi fare X?”, che cosa sta realmente misurando? Un giudizio puro sulla capacità? O un amalgama indistinguibile di capacità percepita, desiderio di fare X, previsione delle conseguenze, stato emotivo del momento? Prendiamo un esempio. Chiediamo a una persona: “Sei capace di mangiare un verme vivo?” La maggior parte risponderà di no. Ma perché? Manca loro la capacità fisica di masticare e ingoiare un verme? Ovviamente no. La risposta negativa riflette disgusto, norme sociali interiorizzate, mancanza di motivazione e non un giudizio sulla capacità in senso stretto. Le scale standard di autoefficacia, secondo questa critica, confondono sistematicamente il “posso” con il “voglio”.
Non stiamo misurando la fiducia nelle proprie capacità, ma qualcosa di più simile alla motivazione generale
David Williams e Ryan Rhodes, in un’analisi del 2016, hanno portato questa critica alle sue conseguenze più radicali. Hanno dimostrato sperimentalmente che manipolando le aspettative di risultato si influenzano causalmente i punteggi successivi di autoefficacia, un risultato incompatibile con la teoria originale, secondo cui l’efficacia dovrebbe precedere logicamente le aspettative di risultato, non esserne influenzata. Quando Williams riformulò gli item dei questionari per isolare la capacità dal desiderio (aggiungendo “se volessi” alla fine delle domande: “Potresti fare X se volessi?”), le correlazioni con il comportamento si attenuarono drasticamente. La conclusione è scomoda: gran parte del potere predittivo attribuito all’autoefficacia potrebbe derivare da confusioni concettuali. Non stiamo misurando la fiducia nelle proprie capacità, ma qualcosa di più simile alla motivazione generale, forse un costrutto assai meno specifico e teoricamente meno interessante.
L’individualismo metodologico come occultamento strutturale
Ma le critiche all’autoefficacia non si limitano a questioni di coerenza logica o precisione metodologica. Esiste una dimensione politica del costrutto che merita attenzione. L’autoefficacia è, per sua natura, un costrutto individualistico: localizza la fonte dell’azione e dell’inazione dentro la mente del singolo soggetto. Questa scelta epistemologica non è neutrale. Come hanno argomentato Susan Franzblau e Michael Moore nel 2001, la teoria dell’autoefficacia tende a “depoliticizzare i meccanismi sociali di controllo”: quando il fallimento viene attribuito a credenze di efficacia carenti, l’attenzione viene deviata dalle strutture di potere, dalle disuguaglianze materiali e dalle barriere istituzionali che limitano concretamente le possibilità di azione.
Gli interventi centrati sul potenziamento dell’autoefficacia rischiano di “colpevolizzare la vittima”: se non raggiungi il successo, il problema sono le tue credenze
Prendiamo il caso dell’istruzione. William Elliott e Michael Sherraden, studiando studenti svantaggiati, hanno dimostrato che le misure convenzionali di autoefficacia non riescono a catturare i vincoli istituzionali e materiali che determinano la performance accademica. Uno studente può avere credenze di efficacia elevate, ma se la sua scuola è sottofinanziata, se non ha accesso a tutor o risorse educative, se vive in un contesto di insicurezza economica e sociale, le sue credenze risulteranno inefficaci. Gli interventi centrati sul potenziamento dell’autoefficacia, in questo contesto, rischiano di “colpevolizzare la vittima”: se non raggiungi il successo, il problema sono le tue credenze, non il sistema educativo ingiusto. Il sociologo Viktor Gecas lo ha detto con chiarezza già nel 1989: ciò che appare come autoefficacia individuale è spesso “efficacia sociale” incorporata nelle istituzioni — l’accesso al capitale sociale, alle reti di supporto, alle opportunità strutturali che non possono essere ridotte alla psicologia del singolo. Trattare l’efficacia come una variabile cognitiva individuale reifica e psicologizza ciò che è fondamentalmente un fenomeno sociale.
Il lavoratore precario non soffre di “bassa autoefficacia occupazionale”, ma vive dentro un mercato del lavoro strutturalmente ingiusto
Questo meccanismo opera come una forma di feticismo cognitivo: le relazioni sociali (chi ha accesso alle risorse, al potere, alle opportunità) vengono mistificate e rappresentate come proprietà psicologiche degli individui. Il feticismo, nell’accezione qui utilizzata, indica quel processo attraverso cui caratteristiche che derivano da rapporti sociali vengono attribuite a qualità intrinseche degli individui o degli oggetti. Il lavoratore precario che non riesce a trovare un’occupazione stabile non soffre di “bassa autoefficacia occupazionale”, ma vive dentro un mercato del lavoro strutturalmente ingiusto. Eppure, le politiche di “attivazione” e “formazione all’occupabilità” si concentrano sistematicamente sul potenziamento delle credenze individuali, lasciando intatte le condizioni materiali di sfruttamento e insicurezza.
Le ambiguità concettuali e il problema della misurazione
Oltre alle questioni ideologiche, il costrutto di autoefficacia presenta problemi tecnici intrattabili. David Williams e colleghi hanno condotto negli ultimi due decenni una critica metodologica sistematica, culminata in un’analisi del 2016 che ha scosso il campo: le misure standard di autoefficacia sono contaminate da confusione motivazionale(Williams & Rhodes, 2016). Sperimentalmente, quando si manipolano le aspettative di risultato, queste influenzano causalmente i punteggi successivi di autoefficacia — un risultato incompatibile con la teoria originale di Bandura, secondo cui l’efficacia dovrebbe precedere logicamente e causalmente le aspettative di risultato.
L’autoefficacia generalizzata e il concetto di sé risultano empiricamente indistinguibili in molti contesti
A ciò si aggiunge il fenomeno della proliferazione delle scale: non esiste una misura standard di autoefficacia. Ogni ricercatore sviluppa scale ad hoc per il proprio dominio specifico — autoefficacia matematica, autoefficacia per smettere di fumare, autoefficacia nella gestione del diabete. Questa iper-specificità, pur essendo teoricamente giustificata da Bandura, produce un panorama frammentato in cui è impossibile confrontare studi e accumulare conoscenza cumulativa. Marsh e colleghi nel 2019 hanno introdotto il concetto di jingle-jangle fallacies per descrivere questa situazione. Il termine, che potremmo tradurre come “fallacie del tintinnio e dello sferragliare”, indica due errori speculari nella ricerca psicologica: costrutti etichettati con lo stesso nome che in realtà misurano cose diverse(jingle fallacy — stesso suono, contenuto diverso), e costrutti con nomi diversi che misurano la stessa cosa (jangle fallacy — suoni diversi, stesso contenuto). L’autoefficacia generalizzata e il concetto di sé, per esempio, risultano empiricamente indistinguibili in molti contesti, sollevando dubbi sulla validità discriminante del costrutto.
La relazione inversa: quando l’autoefficacia diventa un ostacolo
Ma c’è di più. Recenti studi longitudinali hanno prodotto risultati sconcertanti: in alcuni contesti, l’autoefficacia correla negativamente con la performance futura. Per comprendere questo risultato, occorre distinguere tra due livelli di analisi. Gli studi between-person (tra persone) confrontano individui diversi: chi ha più autoefficacia tende a performare meglio di chi ne ha meno. Gli studi within-person (dentro la persona) invece seguono lo stesso individuo nel tempo, osservando come variazioni nella sua autoefficacia si associano a variazioni nella sua performance. Gillian Yeo e Andrew Neal, usando un compito di controllo del traffico aereo simulato, hanno scoperto che a livello within-person, ossia tracciando lo stesso individuo nel tempo, aumenti di autoefficacia predicevano diminuzioni nella performance successiva (Yeo & Neal, 2006). Come è possibile?
Quando le persone si sentono molto efficaci riducono lo sforzo investito, una sorta di autocompiacimento
L’interpretazione, coerente con la teoria del controllo percettivo, suggerisce che quando le persone si sentono molto efficaci, riducono lo sforzo investito, una sorta di autocompiacimento. L’autoefficacia elevata segnala: “Ho già padronanza, posso rilassarmi”. Al contrario, performance passate influenzano fortemente l’autoefficacia futura (l’effetto è più forte nella direzione performance → autoefficacia che viceversa), suggerendo che l’autoefficacia sia più un prodotto della performance passata che un motore della performance futura. Questo risultato capovolge la narrazione dominante: invece di essere una forza causale che spinge l’individuo al successo, l’autoefficacia potrebbe essere largamente epifenomenica — un sottoprodotto dell’esperienza che co-varia con il comportamento senza necessariamente causarlo.
L’ideologia della responsabilizzazione: quando la psicologia serve il potere
È nel dominio applicato che la critica all’autoefficacia trova la sua massima espressione. Isabelle Aujoulat e colleghi, analizzando i programmi di “empowerment” dei pazienti cronici basati sull’autoefficacia, hanno denunciato l’imposizione normativa di un modello di controllo e padronanza corporea che può risultare alienante per molti pazienti (Aujoulat et al., 2008). L’enfasi sul self-management e sull’autoefficacia si allinea perfettamente con quella che Michel Foucault ha chiamato “governamentalità neoliberale”: l’individuo deve diventare imprenditore di se stesso, responsabile della propria salute, del proprio successo, del proprio destino. Il concetto di governamentalità descrive l’insieme delle tecniche e dei saperi attraverso cui il potere modella la condotta degli individui, non tanto attraverso la coercizione diretta, quanto inducendoli a governare se stessi secondo razionalità specifiche. Nel contesto neoliberale, questa razionalità è quella del mercato: ogni soggetto è chiamato a gestire la propria vita come un’impresa, massimizzando il proprio “capitale umano”.
L’autoefficacia, quando applicata senza analisi critica delle strutture di potere, rischia di naturalizzare le disparità
Quando i programmi di salute pubblica si concentrano sull’aumento dell’autoefficacia senza affrontare i determinanti sociali della salute, povertà, accesso ai servizi, discriminazione sistemica, si verifica uno spostamento di responsabilità dal collettivo all’individuale, dall’istituzionale allo psicologico. Se un paziente diabetico non riesce a gestire la propria condizione, il problema viene diagnosticato come “bassa autoefficacia nel self-management”, non come inadeguatezza del sistema sanitario o impossibilità economica di accedere a cure appropriate. Franzblau e Moore lo hanno chiamato esplicitamente: “una ricostruzione dell’autoefficacia nel contesto della disuguaglianza”. L’autoefficacia, quando applicata senza analisi critica delle strutture di potere, rischia di naturalizzare le disparità: i poveri non sono poveri per mancanza di opportunità o sfruttamento sistemico, ma per carenza di autoefficacia imprenditoriale. I disoccupati non sono vittime di ristrutturazioni economiche e precarizzazione del lavoro, ma individui con bassa autoefficacia occupazionale da riabilitare tramite coaching motivazionale.
Le politiche di “attivazione” del lavoro in molti paesi europei incarnano perfettamente questa logica: disoccupati e precari vengono sottoposti a programmi di formazione psicologica per aumentare la loro “employability” e autoefficacia, mentre le condizioni strutturali del mercato del lavoro, salari insufficienti, contratti precari, assenza di protezioni sociali, rimangono invariate. L’autoefficacia diventa così una tecnologia di responsabilizzazione: il fallimento individuale viene attribuito a credenze cognitive deficitarie anziché a rapporti sociali iniqui.
Verso una psicologia critica dell’agency
Che cosa resta dell’autoefficacia dopo questa decostruzione? Non si tratta di rigettare in toto l’intuizione che le credenze sulle proprie capacità contino, sarebbe ingenuo negarlo. Il problema è l’assolutizzazione teorica ed applicativa di questo costrutto, la sua trasformazione da ipotesi psicologica limitata a principio universale di spiegazione del comportamento umano. L’autoefficacia conserva una certa validità predittiva in contesti relativamente privi di vincoli strutturali: quando le barriere esterne sono minime e le risorse disponibili, le credenze di efficacia possono effettivamente guidare l’azione. Ma quando le condizioni di scarsità, disuguaglianza e costrizione istituzionale dominano, come accade per la maggioranza della popolazione mondiale, l’autoefficacia perde gran parte del suo potere esplicativo e rischia di diventare un alibi ideologico. Una psicologia critica dell’agency dovrebbe riconoscere che l’azione umana è sempre situata dentro reti di potere, vincoli materiali e strutture sociali. L’efficacia non è solo una credenza individuale, ma una capacità socialmente distribuita, incorporata in istituzioni, risorse collettive e relazioni di potere. Come ha suggerito Gecas già nel 1989, una sociologia psicologica dell’autoefficacia dovrebbe integrare analisi cognitive con comprensione strutturale, riconoscendo che le credenze si formano dentro contesti materiali e storici specifici.
La popolarità dell’autoefficacia riflette l’egemonia dell’individualismo contemporaneo
Il costrutto di autoefficacia, in ultima analisi, ci dice tanto sulla società che lo produce quanto sulla psiche individuale che pretende di spiegare. La sua popolarità riflette l’egemonia dell’individualismo contemporaneo: l’idea che il destino sia nelle mani (o meglio, nelle menti) del singolo, che il successo sia questione di mindset anziché di giustizia distributiva. Decostruire l’autoefficacia significa mettere in questione non solo una teoria psicologica, ma l’ordine sociale che quella teoria, consapevolmente o meno, contribuisce a legittimare. La sfida per la psicologia del XXI secolo è costruire teorie dell’agency che non occultino le strutture di dominazione, che non trasformino problemi politici in deficit cognitivi, che non sostituiscano la lotta per la giustizia sociale con il coaching motivazionale. Forse, invece di chiedere ai vulnerabili di credere di più in sé stessi, dovremmo chiederci quali strutture impediscono loro di esercitare concretamente il potere sulle proprie vite. L’autoefficacia può essere utile come costrutto psicologico limitato; come ideologia sociale è, invece, parte del problema.
*Andrea Laudadio è a capo della Formazione e Sviluppo di TIM e dirige la TIM Academy.
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