Il Prof. Alberto Mattiacci all’Eurispes: “La vicenda del Ponte viene affrontata e rivoltata sull’immaginario collettivo con una banalizzazione tremenda: come in un film di John Wayne, in uno scontro tra buoni e cattivi”.
Nella triste ricorrenza del crollo del Ponte Morandi, l’Eurispes attraverso le pagine elettroniche del suo magazine online ha realizzato uno speciale, raccogliendo diversi videocontributi a firma di Emilio Albertario. Tra questi, l’intervista realizzata con il Prof. Alberto Mattiacci, ordinario di Economia e Gestione delle imprese presso la Sapienza Università di Roma.
Professore, facciamo un esame sociologico di tutta questa vicenda, a due anni dal crollo del Ponte Morandi e sulla nascita del Ponte San Giorgio. Oggi, le due parole al centro dell’attenzione sembrano essere “giustizia” e “vendetta”. Giustizia, le 43 vittime la vedranno chissà quando, e vendetta sembra quella che invocano, come subita, i Benetton, una vendetta dello Stato, anche se le cose vanno così a rilento che anche in questo caso, per vedere se le concessioni verranno revocate o modificate, ci vorrà del tempo.
È il racconto di un film western quello che facciamo e questo è il suo limite. “Giustizia” e “vendetta” sono parole dette spesso da John Wayne, non lo dico polemicamente, ma per fotografare la realtà del nostro dibattito pubblico. Da anni siamo stati abituati dai media – che hanno un ruolo secondo me mai abbastanza messo sotto la lente di ingrandimento e sotto la dovuta luce nel decadimento morale e culturale di questo Paese – ad un confronto in cui c’è il buono da un lato e il cattivo dall’altro, e sono due attori ben distinti.
Professore, però è sempre colpa dei medici, è sempre colpa dei giornalisti, degli avvocati, dei magistrati?
No, è colpa di tutti e tutti abbiamo le nostre responsabilità. Però, mi consenta di dire che i media, proprio per quello che sono, cioè un megafono, un amplificatore che ripete i messaggi nel tempo, da questo punto di vista hanno un pizzico di responsabilità particolare. Ricordiamoci che questa, purtroppo, è propaganda politica che viene da Goebbels, la ripetizione di un messaggio in un certo modo diventa, automaticamente, verità in un corpo sociale ignorante. Siccome ci siamo dotati di un corpo sociale ignorante – perché noi italiani abbiamo votato tutti complici dei politici che si sono riempiti la bocca con le parole come istruzione, scuola, Università, ricerca ma non hanno mai fatto nulla di serio su questo da quarant’anni – le responsabilità sono di tutti. Però, è passata l’idea di una qualità del confronto sui singoli problemi veramente tipico da film di John Wayne, dove c’è il buono che è buonissimo, il cattivo che è pessimo ed è tutto un parlare di giustizia e vendetta. La giustizia deve essere fatta, ma ha i suoi tempi necessari, se non altro perché c’è un principio che qualcuno ha messo recentemente in discussione: vale a dire quello dell’innocenza fino a prova contraria. Si è innocenti fino a prova contraria e questo è un portato di civiltà, e bisogna far capire ai cittadini che questo nei film western non succede, perché nei film western è chiaro, non hai bisogno della prova contraria, sai già chi è il cattivo. La vendetta: che ci sia stata una risposta emozionale da parte del Governo, della classe dirigente responsabile della tenuta dello stato di diritto del Paese, una risposta di tipo emotivo, che ha tirato fuori la colt e intanto ha sparato, poi ha chiesto “chi è?”, è indubbio. In questo avallando, anche non so se a torto o a ragione, l’idea di una vendetta di nuovo da film western. Ma stiamo parlando di un impoverimento della questione, perché tutta questa vicenda del Ponte, a mio modo di vedere, viene affrontata e viene rivoltata sull’immaginario collettivo con una banalizzazione tremenda.
Ricordando il 2 agosto (la strage di Bologna), il 3 è stato inaugurato il Ponte. Ci sono poi le stragi famose definite “stragi di Stato”. Il Ponte Morandi, secondo Lei, si iscrive nella lunga lista?
Mi vengono in mente le parole di Walter Veltroni, e in questo senso non vorrei dire cose che non siano vere: «Immaginate di incontrare qualcuno che vi racconti di venire da un Paese dove buttano giù gli aerei, mettono le bombe nelle banche, nelle piazze, nei treni, sparano ai magistrati, ai professori universitari, ai giornalisti (aggiungerei mettono la sabbia nel cemento per costruire le residenze per i ragazzi che vanno a studiare in città in zone altamente sismiche, non fanno le verifiche che devono pur quando è a rischio la vita delle persone, eccetera, ndr) ecco, chiedetevi che Paese è questo». Questo lo metto nella narrazione, fatti i debiti distinguo, perché lo stragismo è stato la guerra civile, a mio modo di vedere, europea, che si è combattuta in Italia. Cioè, noi siamo un Paese in cui la grande sfida – ed è quello che non si è riuscito a fare come Stato repubblicano, democratico, liberale – è quella di costruire una struttura fiduciaria fra il cittadino e la collettività organizzata nella quale questo vive. Lo vediamo anche sul fisco, dove siamo tutti in autodifesa, perché non c’è fiducia. In parte i colpevoli sono i cittadini, in parte sono le norme fiscali, in parte gli attuatori di queste norme fiscali.