Semplificare per crescere: il bisogno di razionalità

Non c’è progetto strutturale, specie se ambizioso e innovativo, che non si accompagni ad intenti di semplificazione delle norme e degli atti amministrativi. Esplicitamente enunciati come prioritari, per il successo delle iniziative, spesso rimangono sulla carta. Alle prese con questo tipo di problema è, per esempio, il mastodontico PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), a cui il Paese affida molte speranze per spingere l’economia, realizzare infrastrutture, ammodernare l’apparato burocratico pubblico.

Il vero problema del Pnrr: semplificare

Ma già si segnala che la questione principale, una volta ottenute le risorse, sarà proprio entrare nel dettaglio, costruire piani di intervento e riuscire a disciplinarli in modo semplice e spedito, per raggiungere rapidamente i risultati, come abbiamo dimostrato di saper fare con la ricostruzione del ponte Morandi a Genova. Concepire e implementare nuove regole operative. In una parola, se occorrono soldi per fare le riforme, serve poi saperli spendere senza perdite di tempo, inefficienze e frodi, e questo dipende dalla capacità di costruire strumenti normativi all’altezza.

Sia questo che il precedente governo Conte, per il rilancio dell’economia, hanno significativamente denominato il Piano di rilancio concepito, con l’espressione “decreto semplificazione”. L’attuazione di qualsivoglia progetto sembra effettivamente incompatibile con il dedalo delle norme vigenti e con l’incertezza sul loro significato specifico; nessuna iniziativa può sfuggire a queste forche caudine, pena l’insuccesso.

La confusione dei bonus

Lo si è visto di recente, sempre in materia economica, con gli svariati “bonus edilizi”, sottoposti a continue modifiche ed integrazioni, che hanno disorientato l’opinione pubblica e reso incerto l’uso di una misura in sé positiva. C’è un sovraccarico di chiarimenti e precisazioni, resi necessari dalle lacune della normativa, con la conseguenza di dover sempre confidare nelle specificazioni di altri organi statali, in questo caso l’Agenzia delle entrare, per avere lumi, sperando naturalmente che le indicazioni valgano sempre e non siano disattese dal controllore di turno.

I diritti civili

In un campo del tutto diverso, la tutela dei diritti civili, l’inciampo contro cui si è abbattuto il ddl Zan è stato anche quello della difficoltà di usare parole giuridiche appropriate, di fronte a concetti nuovi (“genere”, “diversità”) o in campi dai confini incerti (come quando si è provato a tradurre in “prescrizioni” i propositi di sensibilizzazione sul tema). La semplificazione delle norme e delle procedure pare il punto chiave di qualsivoglia intento riformatore, ma anche quello che, nonostante inviti, esortazioni e proclami, tarda ad essere realizzato.

Oltre ai propositi normativi, si moltiplicano convegni, incontri per declamare – stancamente – l’esigenza della buona legislazione, le buone pratiche normative, eppure i nobili princìpi, messi alla prova, cedono all’accordo politico del momento, alla pigrizia di modificare vecchie abitudini, all’urgenza di legiferare sotto la spinta di qualche accadimento importante. Non mancano però contributi importanti ed illuminati di cui tener conto.

Le leggi non parlano ai cittadini

Nel “Manifesto” approvato a Bruxelles dalla REI (Rete di eccellenza dell’italiano istituzionale, sorta per impulso del Dipartimento italiano della Commissione Europea) il 26 aprile 2010, non un secolo fa, si sottolineava drammaticamente che l’italiano istituzionale era scarsamente accessibile perché la lingua non era quella usata dai cittadini e, dunque, non rispondeva a «criteri di chiarezza, precisione, uniformità, semplicità, economia». Un rilievo centrale in tema di applicabilità delle norme e quindi di conseguimento di risultati. Nell’uso di una lingua non adeguata, oscura, contorta, barocca, è la causa di ritardi, inefficienze, incongruenze di ogni tipo. Pare questa una pietra insormontabile sul cammino della modernizzazione, e più modestamente per muoversi meglio nel presente senza essere immediatamente contraddetti.

La drammaticità di questo aspetto appare in tutta la sua rilevanza se si guarda ai processi virtuosi che una lingua di maggiore qualità potrebbe innestare. Una circostanza emersa, tra tutte, anche durante i recenti “Stati generali della lingua e creatività italiana nel mondo”, quando un tavolo è stato dedicato al tema specifico “L’italiano ‘motore’ del Made in Italy e nell’innovazione”. La lingua dunque come un vero e proprio “propulsore” di trasformazione, non solo “rappresentazione” statica dell’esistente, specchio della realtà odierna.

Se però l’armamentario della buona qualità degli atti e della lingua è ampio e adeguato, in concreto il proposito di passare all’atto pratico, di tradurre quelle intenzioni in nuove disposizioni, segna il passo e provoca risultati sconfortanti. Troppo forti le resistenze. Il sistema politico e istituzionale non se ne fa carico e dimostra di non crederci più di tanto. Lo utilizza solo occasionalmente in circostanze minori, quando – si direbbe – se ne potrebbe persino fare a meno. Invece se più alte sono le necessità, più scadente è l’esito.

Norme: necessario un centro di valutazione

Perché tutto questo accada è stato approfondito più volte, come del resto molteplici sono stati i suggerimenti. È probabile che proprio la compromissione della qualità della classe dirigente impedisca di fare sostanziali passi in avanti, e ciò rende inevitabile tornare al punto di partenza, considerare la bontà delle riforme immaginate e le difficoltà di attuazione. Tra tante magagne, va annoverata la mancanza di un “centro” di valutazione e organizzazione delle politiche pubbliche, che è alla base della cattiva fattura delle norme: nei più svariati settori, dalla giustizia penale a quella civile e amministrativa, al funzionamento della Pubblica amministrazione.

Parlare di un “centro” significa non tanto pensare ad un nuovo (inutile) organismo quanto ad una qualità diffusa, necessaria nelle organizzazioni di vertice, e ai livelli operativi. Significa porsi il problema della chiarezza delle idee e della padronanza degli strumenti tecnici necessari a metterle in pratica: la linea politica da seguire, il coraggio di condurla, la competenza per farlo, ciascuno nel proprio ruolo.

La normativa soffre di una visione “contrattualistica” per cui alla fine il testo è il risultato di mediazioni logoranti tra posizioni diverse e talora opposte, come accade per l’attuale maggioranza, piuttosto che l’espressione alta di una visione chiara, coerente ed organica. Da ciò discende l’oscurità delle disposizioni, la sostanziale e consapevole ambiguità lasciata volutamente nel testo. Serve questa incertezza a non scontentare e a permettere a tutti di cantare vittoria per guadagnare consenso.

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La conseguenza devastante però è l’incertezza sul significato delle norme, il cui contenuto è furbescamente rinviato alle applicazioni che verranno date dalle singole Amministrazioni o dai giudici, salvo scaricare su detti soggetti le incongruenze. A questo va aggiunto lo scarso o nullo supporto tecnico utilizzato nella formazione dei testi di legge, che sarebbe particolarmente utile in un momento storico in cui si assiste all’ipertrofia legislativa, con un accumulo di norme non coordinate tra loro e difficilmente rintracciabili perché sparse in fonti eterogenee.

Il fenomeno della normativa a cascata

La fretta di predisporre un testo di legge senza un bagaglio di conoscenze specifiche e prescindendo dal supporto di esperti di tecnica legislativa, pregiudica la buona fattura delle leggi. E alimenta il fenomeno della normativa a cascata. Le norme, appena abbozzate, incompiute, richiedono ulteriori disposizioni, per specificare ed attuare, provocando ridondanza e polverizzazione del quadro normativo; in una parola, l’eccesso, la stratificazione, la sovrapposizione, causa di equivoci e contraddizioni.

Ciò che non cessa di stupire è la pervicacia dell’impostazione, ormai a rischio di immodificabilità, nonostante la buona volontà degli addetti ai lavori e le avvertenze degli studiosi. Anzi, le criticità normative sembrano quasi un vezzo intenzionale, un vanto rimarcato, una referenza di autolegittimazione. Denotano soltanto pigrizia, narcisismo, esercizio del potere svincolato dal sistema di valori. La lingua con la quale sono scritte le norme sarebbe meno corrosiva per le Istituzioni e la società se innanzi tutto si sforzasse di essere comprensibile a tutti, se fosse capace di distinguere con semplicità i comportamenti leciti dagli altri, se avesse il pregio di indirizzare i comportamenti in vista del bene comune.

 

 

 

 

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