Da “sapiens” a “stupidus”: l’uomo digitale verso la barbarie

L’uomo a rischio autismo digitale, da “sapiens” sta diventando “stupidus”. Parola di Vittorino Andreoli, uno dei più noti psichiatri italiani.

«Non stiamo dando più importanza ai princìpi con il risultato che stiamo progressivamente precipitando nella barbarie. La civiltà non è un fatto scontato, ma una conquista che passa attraverso la trasmissione di valori e comportamenti. Così da sapiens sapiens, l’uomo di oggi corre il rischio di trasformarsi in stupidus stupidus, facile preda di nuove solitudini oltre che vittima di una patologia sempre più diffusa: l’autismo digitale».
Fa molto riflettere l’ultimo saggio di Vittorino Andreoli, Homo Stupidus Stupidus, edito da Rizzoli, tra i più noti psichiatri italiani, da sempre attento osservatore e studioso delle complesse dinamiche sociali che attraversano la contemporaneità.

 

Professore, come Lei scrive, l’uomo sembra aver perso il “beneficio della neocorteccia”. Perché la nostra specie sta facendo di tutto per “meritare” il poco lusinghiero attributo di “Stupidus Stupidus”?
Dobbiamo prima di tutto intenderci su un dato di fondo: la civiltà che abbiamo faticosamente raggiunto nel corso di millenni di storia si fonda su princìpi e comportamenti praticati e appresi. Significa che se non riusciremo a trasmettere alla prossima generazione determinati valori e stili di comportamento, siamo destinati a smarrire tutto quello che abbiamo erroneamente considerato come un patrimonio definitivamente acquisito. Le neuroscienze dicono qualcosa di molto chiaro in proposito.

Che cosa intende dire?
Semplicemente che il grado di civiltà che abbiamo conquistato con grande sforzo, non è contenuto nei nostri geni, non è la realizzazione dovuta alla messa in pratica di un comportamento meccanico istintuale; è un importante risultato propiziato da quella parte del cervello “plastico” che si forma sulla base delle esperienze e che presiede all’apprendimento, alla creatività, che è poi il vero motore della nostra attività intellettuale. Se non diamo più importanza alla dimensione valoriale e ai princìpi, al rispetto della vita, la regressione diventa non un’ipotesi vaga, ma una prospettiva certa.

La tecnologia, questa protesi che dovrebbe colmare la nostra imperfezione, che ha generato una sorta di pericoloso “illusionismo”, è la principale responsabile di questa marcia indietro?
La tecnologia, penso per esempio allo sviluppo del cervello digitale, ha permesso grandi conquiste. Il problema nasce quando si fa un uso distorto di questi strumenti. Faccio un esempio: stiamo perdendo l’uso della memoria dei numeri. Per telefonare a un amico o a un genitore facciamo un clic, senza fare nessun esercizio per ricordare il numero. Questo vuol dire che fra non molto non sapremo fare più alcun calcolo, il mondo dei numeri di fatto è scomparso. Discorso ancora più grave si può fare per la memoria semantica. Quando parliamo, siamo abituati ad associare un suono a un significato. Nel linguaggio ordinario usiamo circa 150 parole, poche rispetto alle trentamila indicate dalla Treccani, questo declino già denunciato dai linguisti è destinato ad accentuarsi, perché la maggior parte delle persone comunicano con dei segnali, utilizzando il pc. Il rischio che si profila è quello dell’“Autismo Digitale”, abiteremo in un universo chiuso, popolato da tante monadi che non comunicano.

In questa progressiva “caduta dei princìpi”, l’intera civiltà occidentale sta correndo verso il baratro?
La civiltà occidentale sarà sotto scacco se non riusciamo a trovare adeguate contromisure. La questione non è tanto relativa alla violenza, che è un comportamento orientato a uno scopo e, in quanto tale, si può ridimensionare e sconfiggere. La distruttività mi preoccupa molto di più, quella cieca volontà di potenza che travolge tutto: il terrorismo globale è l’esempio drammatico che può far comprendere a che cosa mi riferisco. Difficile trovare un antidoto di fronte a una follia, che non ha più una logica, un orizzonte di senso.

Il potere, tra i fattori di distruttività elencati, è forse il termine più ambivalente. Come lo si può definire nel contesto della società globale che sta sperimentando una profonda mutazione del concetto stesso di democrazia?
Quando parlo del potere intendo il potere come “verbo” perché il sostantivo include il concetto di autorità, divenendo altro e va maneggiato con cura. Potere come verbo vuol dire: faccio perché posso. Come nel caso che ricordavo della distruttività, esiste anche un potere che viene esercitato senza scopo. Platone sosteneva che il potere doveva avere come fine supremo la felicità di tutti. Oggi, non accade nulla di tutto questo: la dinamica la si vede molto bene anche nella politica, dove spesso si contraddice l’altro solo per spirito di propaganda senza mai entrare nel merito delle questioni. Il Potere fine a se stesso è, insomma, il “verbo dominante” di questa epoca densa di contraddizioni.

Dobbiamo essere ottimisti a dispetto di tutto?
Mi definisco un “pessimista attivo”. I rischi sono quelli che abbiamo cercato di individuare, ma bisogna continuare a cercare il meglio senza sosta. Nel lungo cammino della nostra evoluzione abbiamo meritato il doppio appellativo di “sapiens”, se pensiamo alla poesia, al Canto XXXIII del Paradiso, alla scienza, alle grandi scoperte. Dietro “l’uomo rotto” ho sempre ritrovato questa grandezza di cui ogni individuo è portatore.

“Neoumanesimo digitale” è la prospettiva da più parti auspicata, come ci ricordano gli ultimi scritti di Morin, Sennett, Ceruti, Sen, e dello stesso Baricco. Le pare una via d’uscita realmente praticabile?
A condizione di tornare ad un umanesimo nuovo, che guardi all’altro come valore, dove ci sia un senso del limite, che bandisca quella stupidità, che non conosce la sapienza. Lo stupido si ritiene perfetto, il sapiente coltiva il dubbio, per questo ha dei margini di crescita. Tutta la nostra civiltà è fondata sul dubbio, i dialoghi di Platone hanno questa radice che è la stessa che informa l’“umiltà socratica”. Difendiamo ciò che umano, non vergognandoci di quella fragilità che porta ad avere bisogno dell’altro e che rinsalda il bisogno della relazione e del confronto.

In chiusura del saggio viene evocato Timore e tremore, celebre opera del grande filosofo danese Soren Kierkegaard. Che cosa fa tremare e che cosa terrorizza uno psichiatra che ha saputo, nel corso di una lunga e brillante carriera, misurarsi con tante manifestazione del male, esorcizzandolo?
Quello che descrive Kierkgaard in Timore e tremore è degno di studio per l’uomo di ogni tempo. Dio, come è noto, suggerisce ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco. Un controsenso, qualche cosa di inaccettabile per qualsiasi genitore. Abramo riesce comunque a trovare una soluzione, va oltre l’assurdo, segue la regola che ha appreso: sa che Dio c’è, ne ha avuto esperienza. Noi di fronte alle contraddizioni che attanagliano l’uomo contemporaneo, a differenza di Abramo, non facciamo niente, scappiamo. Il grande conflitto, il dramma è proprio questo: c’è una strada indicata dalla civiltà che ci porta verso l’alto, all’opposto ne esiste un’altra che ci porta verso la regressione. Non dobbiamo mai finire di lottare ed entrare dentro questa contraddizione per superarla, perché a prevalere sia la tensione verso obiettivi di progresso e di crescita umana e civile, perché di questo, mi creda, abbiamo un bisogno estremo e disperato.

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