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Aree interne e periferiche: i divari territoriali in Italia

di
redazione

Uno dei tratti più qualificanti del nostro Paese è la sua eterogeneità, storica e culturale, ma fatta anche di divari territoriali. Abbiamo infatti una straordinaria geodiversità che, pur rendendo unico e ricchissimo il nostro patrimonio naturalistico, contribuisce ad aumentare i proprio divari territoriali. Ma non si tratta di una peculiarità prettamente italiana. All’interno dell’Unione europea sono diverse le aree di marginalità, come in Spagna la cosiddetta España vacia, in Danimarca “the Rotten banana”, o in Belgio, dove il nostro “Mezzogiorno” coincide con la Vallonia povera.

Dal meridionalismo ai meridionalismi

In Italia la cosiddetta “questione meridionale” è ancora oggetto di un ricorrente dibattito che ripropone analisi, problematiche e tentativi di risoluzione. Se in un primo momento, all’unificazione del Paese aveva corrisposto la centralizzazione delle politiche di coesione, dagli anni Settanta, le Regioni si sono affiancate allo Stato, nell’ottica di un approccio policentrico e decentrato, più attento alle specificità dei singoli territori. Infine, si è passati dal meridionalismo ai meridionalismi, cogliendo una forte eterogeneità ‒ infrastrutturale, economica, demografica, sociale ‒ che caratterizza le diverse realtà territoriali del Sud d’Italia.

I divari territoriali e le politiche messe in atto in Italia

Dagli anni Novanta, una delle politiche messe in campo, è stata la Strategia Nazionale delle Aree Interne (SNAI) mediante la quale si è tentato di individuare tutte le zone cosiddette periferiche, localizzate in prevalenza nel Sud dell’Italia, sulla base di misurazioni spazio-temporali della loro distanza dai centri di erogazione dei servizi essenziali. Nel 2022, la legge ha incluso nel perimetro della SNAI le Isole minori. La politica di coesione ha anche assunto, dal 2017, la forma di Zone Economiche Speciali, localizzate nelle otto Regioni del Mezzogiorno, che dal 2024, sono state unificate in una ZES Unica per l’intero Sud Italia. Infine, in sede di implementazione del PNRR, si è data priorità alla macrocategoria, semplificante ed omnicomprensiva, del Mezzogiorno.

La coesione economico-sociale nel TFUE e in Italia

In materia di coesione economico-sociale, la normativa europea è chiara e non lascia spazio a possibili interpretazioni. L’art. 4, par. 2 del TFUE annovera la coesione economica, sociale e territoriale tra le materie di competenza concorrente della Ue. Per lungo tempo, non si è affrontato il tema delle cause che hanno portato ad una riduzione del Pil pro capite nelle Regioni in ritardo di sviluppo, preferendo piuttosto tentare di rimuoverne gli effetti attraverso la distribuzione di aiuti utili a riportare il Pil al di sopra della soglia individuata. E ciò è avvenuto sia per un approccio forse semplicistico al problema, sia da parte delle Istituzioni europee che degli Stati membri. Nel nostro ordinamento, fatta forse eccezione per le aree montane, il legislatore si è limitato ad istituire le aree di crisi industriale ed a redigere una mappatura di massima di quelle insulari.

Le Regioni di montagna

Secondo la legge n. 991/1952sono considerati territori montani i Comuni situati per almeno l’80 per cento della loro superficie al di sopra di 600 metri di altitudine sul livello del mare e quelli in cui il dislivello tra la quota altimetrica inferiore e la superiore del territorio comunale non è minore di 600 metri. In termini di estensione territoriale (147.517 km²) essi rappresentano il 49% del territorio nazionale.

Divario territoriale nelle zone rurali

Per l’individuazione di tali aree, è stata adottata, in accordo con le Regioni, una metodologia di classificazione mutuata da quella dell’Ocse, ma integrata con l’altimetria dei Comuni e con l’estensione della superficie agricola territoriale dei capoluoghi di provincia. La metodologia individua quattro macro-tipologie di aree: a) Aree urbane e periurbane, b) Aree rurali ad agricoltura intensiva c) Aree rurali intermedie, d) Aree rurali con problemi complessivi di sviluppo. Il Ministero dello Sviluppo Economico riconosce poi le zone interessate da transizione industriale, ovvero specifici territori soggetti a recessione economica e perdita occupazionale di rilevanza nazionale.

Le Regioni insulari e transfrontaliere

Oltre alle maggiori, Sicilia e Sardegna, nel nostro territorio nazionale vi sono molte altre Isole. Vengono chiamate Isole minori in quanto inferiori, nella superficie, a mille km2. L’Italia non ha individuato alcun criterio adatto ad individuare e circoscrivere le zone transfrontaliere. Unica eccezione, che risponde ad esigenze e finalità fiscali, è la categoria del lavoratore frontaliero la cui disciplina è da ricercare nelle legislazioni nazionali e nelle singole Convenzioni contro le doppie imposizioni e/o accordi stipulati tra gli Stati di volta in volta interessati.

La condizione empirica dei territori marginali

Una prima fotografia dei territori periferici è stata elaborata, nel 2013, nell’ambito della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) attraverso una classificazione dei Comuni di riferimento in base alla distanza dai servizi pubblici essenziali, ovvero: la presenza di almeno un ospedale sede di DEA di primo livello; la presenza di un’offerta scolastica secondaria; la presenza di una stazione ferroviaria di categoria c.d. Silver. I Comuni sprovvisti di centri di erogazione di simili servizi sono invece stati qualificati sulla base del tempo di percorrenza che un residente deve effettuare per raggiungere il centro di offerta dei servizi più vicino. Si sono quindi individuate: aree di cintura, tempo di percorrenza inferiore ai 20 minuti; aree intermedie, tra 20 e 40 minuti; aree periferiche, tra 40 e 75 minuti; aree ultra-periferiche, con tempo di percorrenza superiore ai 75 minuti.

Rilevazioni e analisi Istat

La rappresentazione dei Comuni interessati dalla SNAI, nella rilevazione territoriale di Istat, evidenzia un notevole aumento, negli ultimi anni, dei territori ricadenti nelle aree periferiche ed ultraperiferiche. Altrettanto indicativi sono i dati che riguardano il progressivo invecchiamento della popolazione nelle aree interne e marginali. La popolazione delle aree interne è mediamente più anziana di quella che risiede nei centri (45,9 rispetto ai 45,3 anni). Allo stesso modo, nei Comuni ultraperiferici la popolazione ha in media 46,9 anni; due in più rispetto a quella dei Comuni cintura. Nei Comuni ultraperiferici si registrano oltre 223 anziani ogni 100 giovani. Esiste una correlazione recessiva tra il progressivo invecchiamento della popolazione italiana e la sua ubicazione nelle aree più isolate e periferiche del Paese; e questo rende queste stesse comunità ancora più fragili ed esposte a processi di deterioramento della qualità della vita. Analoghe considerazioni riguardano il dato demografico, anch’esso sensibilmente più rarefatto nelle aree periferiche. In Italia, la popolazione, tra il 1951 e il 2019, è cresciuta ad una media annua del 5,1‰ nelle aree urbane (Centri) e del 4,8‰ nelle aree interne.

Divari territoriali, ricucire la normativa nazionale ed europea

I territori cosiddetti marginali, tendenzialmente caratterizzati da scarsa accessibilità, perifericità geografica, scarsa densità demografica, forte tasso migratorio, connotazione rurale o in transizione industriale, sono intrappolati in una spirale recessiva che vede progressivamente crescere il loro impoverimento e la loro marginalizzazione; e il loro inquadramento giuridico risulta sostanzialmente inadeguato ad innescare processi di riscatto e rivitalizzazione. Bisogna innanzitutto operare una ricucitura, tra la normativa europea e quella nazionale, al fine di poter dare diretta applicazione a dettami che altrimenti rischiano di rimanere sulla carta. Occorre, dunque, adottare una normativa interna che individui i territori che rientrano nelle diverse categorie menzionate dall’articolo 174 del TFUE e non affidarsi a inquadramenti sporadici, frammentari e disorganici che prescindono dal diritto europeo finendo col minarne l’applicazione. Una volta armonizzato il quadro nazionale con quello euro-unitario, occorre tener conto, non solo delle risorse disponibili ma anche dello “stato di salute” degli apparati burocratici, centrali e locali, deputati a spendere le risorse stanziate. Occorre, infine, adottare l’unico strumento utile a far pervenire ai territori le risorse necessarie al loro riscatto: cioè la leva fiscale, la quale, se opportunamente azionata, è capace di irrorare i tessuti produttivi in modo incomparabilmente capillare e senza alcuna intermediazione. Gli sgravi fiscali, inoltre, per definizione, beneficiano coloro che producono, innescando un processo meritocratico.

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