La finanza islamica sta diventando ormai una realtà sempre più radicata anche nel sistema finanziario occidentale. E alcuni istituti finanziari occidentali hanno aperto da tempo rami aziendali che operano secondo i suoi precetti (Abn-Amro, Citibank, Dresdner, Unione delle banche svizzere).
La finanza islamica è peraltro anche aperta all’evoluzione tecnologica. L’Islamic Financial Services Board (IFSB, l’organo internazionale più importante della finanza islamica) nel suo Stability Report del 2017 ha del resto dedicato un’intera sezione al fintech e alle sue applicazioni, dimostrando come sia ormai sempre più diffusa l’idea che il fintech rappresenti la nuova frontiera anche per le banche islamiche. Che questo mondo dovesse incontrare anche quello delle criptovalute era dunque solo questione di tempo. E, infatti, con Goldx, creata da una società malese, è nata la prima criptovaluta Sharia compliant, in cui l’emissione di un token è supportata dall’oro fisico, conservato in un deposito a Singapore.
In pratica, la nuova criptovaluta (tra le circa 1500 esistenti) mira a consentire un accesso facile e conveniente all’oro, attraverso, sostanzialmente, una digitalizzazione dei lingotti. Ma, soprattutto, la nuova valuta digitale potrebbe rappresentare la porta d’accesso per i clienti musulmani al mercato delle criptovalute. E questa sarebbe una novità, dato che il rapporto tra valute digitali e mondo islamico è stato (ed è ancora, in alcuni casi), fino ad oggi, molto “turbolento”.
In Bangladesh, la banca centrale ha fatto sapere infatti che il trading di criptovalute può essere punito con pene fino a 12 anni di carcere. E, in Egitto, il primo gennaio di quest’anno il Gran Muftì (la massima autorità religiosa del Paese) ha lanciato una vera e propria fatwa contro i bitcoin, che sarebbero portatori di “frode, tradimento e ignoranza”, equiparandone il sistema a quello delle scommesse, vietate dal diritto islamico. La condanna dell’autorità religiosa giunge peraltro a supporto della decisione, già annunciata dall’Autorità egiziana di supervisione finanziaria (EFSA), di dichiarare illegittimo il commercio di bitcoin. In Algeria, poi, con la finanziaria del 2018, è stato vietato non solo il trading, ma anche il possesso di bitcoin e di altre criptovalute. E stesso atteggiamento ostile, infine, lo si registra anche in Marocco, Kuwait e Turchia, dove la Direzione turca per gli Affari religiosi (Diyanet), una sorta di Ministero per gli affari religiosi, ha emesso una fatwa per mettere in guardia i musulmani turchi dall’utilizzare i bitcoin, giudicati “immorali”.
Fanno eccezione, invece, nel mondo arabo, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che, a dicembre 2017, hanno, tra l’altro, annunciato di lavorare ad una nuova moneta digitale per le transazioni di confine. Perché, comunque, in generale, questa avversione da parte del mondo islamico all’evoluzione delle criptovalute? Probabilmente perché, dato che le Banche Centrali, naturalmente, non possono coprire il valore dei bitcoin (la cui caratteristica è proprio quella di non avere un ente emittente), commerciare con questa valuta, secondo i precetti islamici, non è dissimile dal praticare l’usura, o comunque dal praticare attività finanziarie puramente speculative, finalizzate ad ottenere un mero interesse, laddove, però, nel Corano vige proprio il divieto di interesse (ribā), dato che il denaro non può creare denaro. Per tale motivo, a ben vedere, Goldx, comunque “garantita” dall’oro custodito a Singapore, potrebbe aprire le porte a nuove, più benevole, valutazioni.