Ma quando la smetteranno questi americani di cambiarci la vita? Quando la finiranno di prendere di mira le nostre (care, vecchie) abitudini? Quando la smetteranno di costringerci a nuovi modi di fare le cose di sempre? Da anni è un continuo: prima impara a usare Google, e poi Ebay, ora Amazon; … che fai? non ti apri un account Facebook, Linkedin, Twitter (e ora pure Instagram)? E vai su iTunes, usa Uber, AirBnB (altrimenti sei antico) e infarcisci lo smartphone di app e smetti di comprare il quotidiano di carta. Che fatica questi anni! – e ora, questo Netflix, che vuole da me?
Forse qualcuno ricorderà un vecchio film di Alberto Sordi – Il Vigile del 1960. Diverse scene si svolgevano dentro un bar. Era sempre molto frequentato, anche la sera, e la ragione era una: la televisione. Guardare la televisione, certi programmi che oggi diremmo “cult”, era una sorta di rito collettivo, aggregante e inevitabile. Per forza, si dirà: solo il 5% delle famiglie aveva la televisione in casa, in salotto per la precisione. Durerà poco: è la fine degli anni Settanta e i dati dicono che quell’elettrodomestico ingombrante è entrato ormai in tutte le abitazioni. I suoi tempi di programmazione scandiscono quelli della vita familiare: dal famigerato “a letto dopo il Carosello”, si passa alla cena organizzata intorno alla trasmissione del TG; e poi i film: prime visioni infarcite di pubblicità; programmi sempre più targettizzati che aggregano generazioni (Le Iene), opinioni (L’Ottavo Nano) e via dicendo. Aumenta il numero di canali, si moltiplica quello dei programmi e tutto cambia: l’aggregazione di persone di fronte al televisore diviene l’eccezione piuttosto che la norma. I tecnici del marketing la chiamano “segmentazione della massa”: si guarda l’insieme dei telespettatori, vi si cercano differenze rilevanti e a quelle ci si rivolge con un prodotto specifico.
Poi, un bel giorno, arriva una cosa nuova, che inizia a cambiare il nostro rapporto con la televisione (e con il mondo): la tecnologia. Era il 1991 – un anno importante per la tecnologia (e non solo): c’è il lancio del GSM radiomobile, quello che consente l’invio degli sms; Tim Berners-Lee mette online il primo sito web, segnando la nascita del World Wide Web. Bene, in quel 1991, in Italia – mentre muore Freddie Mercury, imperversa la Guerra del Golfo, l’USSR si sfalda e gli U2 tirano fuori Achtung Baby, uno dei più bei dischi rock della storia – arriva la televisione via satellite: si chiamava Telepiù, due anni dopo seguita da Stream. Si fa strada un’idea che agli esperti di televisione all’epoca sembrava eretica: pagare un prezzo per usufruire di programmi televisivi. Gli italiani, è vero, conoscevano il canone Rai ma quella era ed è una tassa, non un prezzo. La differenza è abissale: il prezzo fa di me un cliente, la tassa un cittadino (o suddito?). È il calcio a infrangere la barriera: pagare per vedere giocare in diretta la propria squadra del cuore in campionato (quasi) non ha prezzo, no?
E ora Netflix. Un nome che non si capisce. Cioè, capiamo “net”, che significa rete: allora intuiamo subito che anche questa nuova diavoleria americana ha a che fare con Internet. Toccherà forse imparare anche questa? I numeri di questo pezzo di 2018 dicono di sì: 136 milioni di famiglie nel mondo (6 volte l’Italia, per intenderci) guardano la televisione, due ore al giorno in media, mediante un abbonamento a Netflix. Questa li attrae investendo come nessuno: 80 film (più di quanto realizzato da tutta Hollywood messa assieme); 13 miliardi – sì, miliardi – di dollari investiti nella produzione di film e serie, ovvero 4 miliardi più dell’anno precedente, ovvero l’intero budget della mitica BBC.
Ma, anche se i numeri fanno impressione, non è questo a far capire che forse, mediante Netflix, Internet cambierà anche la televisione – dopo aver cambiato il telefono, la mobilità, gli acquisti, i viaggi, eccetera. Wikipedia (eccone un’altra!) dice che “nel 2006 Netflix ha lanciato un premio di un milione di dollari per chi fosse in grado di migliorare del 10% almeno le performance dell’algoritmo di suggerimento dei film”. Algoritmo: qui si accende una lampadina. E che cosa mostra? Che se mi iscrivo a Netflix le mie scelte di visione lasciano traccia; che iscrivendomi devo dare alcune informazioni di base su me stesso; che le prime e le seconde sono messe assieme e formano un abbozzo di profilo della mia persona che, poi, viene costantemente aggiornato e arricchito di particolari; che questo mio profilo viene confrontato e ricondotto a migliaia (o milioni?) di altri in giro per il mondo; che su questa base le macchine di elaborazione dati di Netflix, quando scelgo un bel film da vedere, mi presentano altri (molti, troppi) film e/o serie alternative.
Fantascienza? No. Reed Hastings, il fondatore di Netflix, sostiene che entro breve “televisione” significherà qualsiasi schermo – tv, smartphone, tablet, pc – ciascuno popolato di piccole icone – le app dei brand media – e che la vedremo così: a volte da soli, a volte assieme; e quando in compagnia, saremo spesso un solitario connesso ad altri, distanti fisicamente ma vicini sulla rete; a volte (sempre meno) saremo un assieme che condivide il medesimo divano. Ma, soprattutto, Hastings dice che Netflix apprenderà e conoscerà i nostri gusti meglio di noi stessi. Se vi sembra fantascienza considerate che, già oggi, maneggiando dati di varia natura, Netflix ha disegnato oltre 2000 profili di persone e che tratta ciascuno di essi come un cliente.
Entusiasmo o paura? A ciascuno la propria emozione. Di certo c’è che gli anni a venire manderanno in onda una nuova, profonda, trasformazione di quello che, un tempo, chiamavamo televisione.