Giudici politicizzati, l’esempio americano a confronto con il modello italiano

La scomparsa del giudice (la funzione è al maschile, indipendente dal genere) Ruth Bader Ginsburg, la seconda donna nella storia americana a ricoprire il ruolo, ha aperto uno scontro tra repubblicani e democratici, innescando un intenso dibattito.

Nominata da Bill Clinton nel 1993, giurista di grande competenza, conosciuta per le sue posizioni a difesa dell’uguaglianza razziale, e sul diritto di famiglia (sì all’aborto e ai matrimoni gay), figura iconica della sinistra liberale americana, la Ginsburg sarà probabilmente sostituita da un giudice di tutt’altro orientamento, se Donald Trump riuscirà a farlo prima del 3 novembre prossimo, scadenza del mandato presidenziale. Per quella data, dovranno esserci le “audizioni” davanti alla commissione parlamentare, e il voto conclusivo del Senato.

La candidata, Amy Coney Barrett, 48 anni, anche lei di solida formazione giuridica, è cattolica (la Ginsburg era ebrea) e iperconservatrice, contraria all’aborto nonostante la sentenza della Corte suprema Roe vs Wade del 1973, e ai diritti degli omosessuali, seguace della “dottrina originalista” di un altro giudice, Antonin Scalia, di cui fu assistente per un anno (la Costituzione va interpretata alla lettera senza adeguamenti allo spirito del tempo).

Una filosofia del diritto coltivata dalla Barrett, oltre che nell’insegnamento universitario, fuori dalle aule (di studio e giudiziarie), nella collaborazione con The people of praise, un gruppo pro-life impegnato a limitare il più possibile l’interruzione della gravidanza e a difendere la famiglia tradizionale.

Ma anche la Ginsburg non ha mai fatto mistero dei convincimenti personali: come avvocato ha lavorato con l’American Civil Liberties Union contro le discriminazioni di genere, a difesa delle donne e delle minoranze, sostenendo il diritto all’aborto depenalizzato. Persino in punto di morte non ha mancato di formulare un auspicio “politico” («il desiderio maggiore è che io non venga sostituita fino a quando non sarà insediato un nuovo presidente»), augurandosi, con la possibile sconfitta di Trump, che fosse un progressista a prenderne il posto.

I repubblicani premono per una successione immediata, prima della scadenza del mandato Trump, mentre i democratici vorrebbero rinviare la nomina, in modo che sia il prossimo presidente (sperano sia Biden) a decidere. Una contrapposizione che mescola grandi princìpi (Stato laico, diritti civili, fede religiosa) e calcolo politico su tanti aspetti della vita politica interna.

La posta in palio è l’equilibrio all’interno della Corte, ora a favore dei conservatori (cinque a tre, e Trump ne ha già nominati due): in caso di nomina della Barrett il rapporto risulterebbe di 6 a 3, ancor più sbilanciato. La composizione può risultare decisiva per la vita giudiziaria e politica del paese.

La Corte suprema ha il ruolo di giudice della costituzionalità delle leggi statali e federali, e si pronuncia su questioni di enorme portata: pena di morte, controversie elettorali, diritti individuali, razzismo, costituzionalità delle singole norme. A questo riguardo, per quanto le norme incostituzionali possano essere direttamente disapplicate dai singoli giudici territoriali (da noi si deve sollevare questione di costituzionalità), la Corte ha invece il potere di abrogarle del tutto: è l’arbitro finale delle controversie.

A parte la tempesta sociale che investe in questa fase l’America (razzismo, diseguaglianze, uso della forza da parte della polizia), la Corte potrebbe essere chiamata in tempi brevi a svolgere un ruolo decisivo nella tornata elettorale, qualora Donald Trump contestasse la regolarità di un’eventuale sconfitta dando seguito alla minaccia di «non poter garantire una pacifica transizione dei poteri».

Se ordinasse per esempio l’intervento dei militari, e a maggior ragione se costoro rifiutassero di agire contro i cittadini, si aprirebbe una crisi senza precedenti, che proprio la Corte dovrebbe affrontare: in che modo, davanti ad uno scenario da una guerra civile? L’edificio neoclassico accanto al Campidoglio, che ospita a New York la Corte suprema, sarebbe la sede incandescente nella quale verrebbe giocato il destino della più importante democrazia mondiale.

In un dibattito così acceso, rimane nell’ombra l’aspetto più eclatante, almeno dal punto di vista europeo, cioè la forte politicizzazione della procedura di nomina dei giudici. Si è scelti per la loro partigianeria. Tutti considerano legittimo che essi manifestino esplicite posizioni già a partire dalla vita antecedente, professionale oltre che personale. Prima di giudicare nelle stesse materie. Del resto, tutti i nove giudici sono di nomina “politica” perché indicati dal presidente il quale sceglie secondo i propri, ed altrui (dei candidati), convincimenti.

Non è scandaloso, dunque, che il giudice sia nominato perché repubblicano o democratico. E anzi non è nemmeno deprecabile esternare simpatia per l’uno o l’altro schieramento. Lo scontro verte su chi debba nominarlo, non sul diritto di scegliere un giudice politicamente gradito. L’argomento usato da entrambe le fazioni è ugualmente politico, non giuridico. È più legittimato chi detiene ora il potere ma è alla fine del mandato (Trump), o chi avrà davanti a sé l’intero periodo (il nuovo eletto)?

Sono molto diversi i sistemi di selezione dei giudici in America e in Europa, così come differenti sono gli ordinamenti, distinti tra la common law anglosassone (basata sul valore vincolante del precedente) e la civil law continentale (derivante dal diritto romano e fondata sulla codificazione gerarchica delle norme). Ci si confronta dunque con meccanismi differenti, che però in ciascuna società sono radicati e condivisi.

Il principio della eleggibilità dei giudici (piuttosto che la selezione mediante concorsi pubblici, o la nomina da parte di organismi indipendenti) è l’inevitabile corollario della legittima esposizione politica dei candidati. Se sono eleggibili (o nominabili dall’autorità politica), è naturale che si conoscano le opinioni e che siano scelti proprio per questo.

Al contrario, nei paesi europei, in Italia in particolare, il criterio della “neutralità” del giudice è affermato in modo rigoroso, e declinato in tutte le maniere, la sua inosservanza è sanzionabile: chi è chiamato ad applicare la legge è tenuto ad un doveroso riserbo sui propri convincimenti politici o sociali, salvo quanto può emergere dai contributi scientifici. Sono criticabili le posizioni espresse fuori dai contesti istituzionali, sconvenienti le “appartenenze” di qualunque tipo o le vicinanze al mondo politico: se emergono, destano scandalo e provocano conseguenze, come da ultimo nel “caso Palamara”.

Le origini di simili differenze risalgono probabilmente al diverso approccio storico ai problemi dell’organizzazione statale. Differente è il valore attribuito alla prassi rispetto alla teoria. Il ruolo dell’esperienza rispetto a quello della formazione preventiva.

In America si dà maggiore importanza all’uso che del potere si faccia in concreto, non alle posizioni di partenza: si tollera quindi che ci sia un (pre)giudizio inevitabile dovuto alle proprie opinioni in attesa di vedere che cosa farà il prescelto una volta messo all’opera. È questo che conta, poi se farà male non sarà rieletto.

In Europa, si manifesta maggiore fiducia nella capacità delle norme codificate di selezionare la classe dirigente. Una scelta che sconta il pessimismo (o il realismo) maturato dopo tanti traumi provocati da eventi storici drammatici. Non si attende l’esperienza concreta, comunque incerta, si cerca di prevenire i rischi del cattivo operato o del malaffare.

Le numerose questioni che oggi lacerano le società – uguaglianza, diritti, lavoro, ordine pubblico – dimostrano le difficoltà nelle quali, a qualunque latitudine, si dibattono i sistemi giuridici. Il reclutamento dei giudici (ma anche degli altri funzionari pubblici) rimane un problema controverso e senza un orizzonte operativo sicuro.

L’appartenenza (di qualunque tipo) sembra incompatibile con il concetto di giustizia. Stona pensare che l’applicazione della legge possa essere contigua alla ricerca del consenso, che è l’obiettivo della politica. Però dobbiamo riconoscere che anche il diritto codificato ha maglie molto larghe che lasciano inaccettabili spiragli al degrado.

Il principio di trasparenza comunque articolato, che giustifica la pubblicizzazione degli orientamenti politici e che pure ispira in Europa rigide procedure, alla fine non è sufficiente da solo a garantire scelte oculate ed efficaci. Rimane sempre scoperto il tema della credibilità della persona, come individuo ed esponente dell’Istituzione, un profilo complesso che unisce competenza professionale e qualità umana.

 

*Giurista, è stato pubblico ministero e giudice. Cura percorsi professionali formativi, si interessa prevalentemente di diritto penale, politiche per la giustizia, diritti civili e gestione delle Istituzioni. Autore di saggi, articoli e monografie. Ha collaborato e collabora con testate cartacee (La Nazione, Il Tirreno) e on line (La Voce di New York, Critica Liberale). Ha fondato e dirige Pagine letterarie, rivista on line di cultura, arte, fotografia.

 

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