Da I 400 colpi di Truffaut a L’attimo fuggente di Peter Weir e Lady Bird di Greta Gerwig, sono tante e celebri le pellicole che immortalano il mondo della scuola negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Il binomio cinema-scuola si è non di rado rivelato vantaggioso per entrambi: per il cinema, perché fare della scuola un set e un soggetto è spesso garanzia di buoni introiti al botteghino; per la scuola e il suo intrigante e problematico universo di storie, passioni e malesseri, perché, specchiandosi sul grande schermo, ha avuto l’occasione di vedersi riflessa e potersi conoscere meglio. Che il cinema possa dire molto sulla scuola, costituendo un privilegiato punto di osservazione, è, del resto, convinzione di molti. Per quanto riguarda l’Italia, diversi studi dimostrerebbero, ad esempio, come il cinema, sorta di stetoscopio del sociale sommerso, sia in grado di rappresentare la scuola meglio di tante altre forme di arte e di comunicazione. Un merito che può essergli conteso dalla sola letteratura, che, guarda caso, al cinema ha consegnato molte sceneggiature ispirate al mondo della scuola. Tuttavia, non si tratta mai di uno strumento neutrale, perché «in qualche modo la riproduzione cinematografica si alimenta delle idee provenienti dalla società, concorrendo contemporaneamente alla diffusione di quei luoghi comuni che le accompagnano»[1]. Vale a dire che nella misura in cui il cinema si propone di ritrarre in profondità la scuola (e non è detto che sempre ci riesca), nello stesso tempo può amplificare la portata di fenomeni che possono generare nuovi pregiudizi o rafforzarne di vecchi.
La scuola che “premia” il cinema
Il mondo della scuola è un soggetto cinematografico più che raccomandabile sotto più punti di vista: la prospettiva del profitto, che ci ricorda che alla base della produzione di un film c’è sempre comunque un non trascurabile rischio d’impresa; la capacità di fornire rappresentazioni del reale che altrimenti molti ignorerebbero (la scuola è pur sempre un mondo a sé, un concentrato di vissuti e aspettative la cui complessità potrebbe sfuggire anche agli addetti ai lavori); la possibilità per niente rara che dal racconto cinematografico della scuola vengano fuori pellicole di grande qualità. Il cinema che racconta la scuola è non a caso tra i più premiati. Basterebbe qui ricordare film come Non uno di meno del cinese Zhang Yimou premiato a Venezia nel 1999 con il “Leone d’oro”, o Elephant di Gus Van Sant e La classe del regista francese Laurent Cantet, vincitori nel 2003 e nel 2008 della “Palma d’oro” al Festival di Cannes. Insomma, quando vuole, cioè quando dimostra di saper raccontare il magmatico e convulso mondo della scuola, crocevia di più generazioni di studenti e insegnanti costrette a un’inevitabile coabitazione, il cinema può fare incetta di titoli e statuette[2].
Tanti titoli per le superiori
Ci sono modi diversi di raccontare cinematograficamente la scuola. Ne dà una chiara dimostrazione il cinema italiano. La varietà è attribuibile innanzitutto all’identità del protagonista che cade sotto lo sguardo interessato del regista. Si può trattare del variegato mondo dei professori, che non si esaurisce solo all’interno di un’aula docenti, o di quello non meno adattabile a caricature o ritratti d’autore di bambini e adolescenti, che ha trovato un primo prototipo di monelleria made in Italy nel Gian Burrasca di Vamba e Pingitore. Tuttavia, il segmento generazionale preferito dal cinema italiano è quello delle scuole superiori. Il numero di pellicole dedicate al mondo dell’infanzia è un’esiguità rispetto a quello dei film che si occupano invece delle superiori. La scuola del primo ciclo avrebbe goduto di una minore attenzione, forse perché si è concepito questo elemento del mondo dell’istruzione come «un immaginario troppo lontano nella mente degli spettatori e meno spettacolarizzabile (vicende adolescenziali che possono intrecciare indissolubili amicizie, primi amori e scontro generazionale hanno un maggior impatto emotivo rispetto alla forte connotazione pedagogica dell’educazione infantile)»[3]. La grande assente, eccezione fatta per pochi titoli (Chiedo asilo di Marco Ferreri e Sotto il celio azzurro di Edoardo Winspeare), sarebbe però la scuola dell’infanzia.
La scuola di Luchetti
A raccontare la scuola ci hanno provato molti dei registi più celebri del panorama nazionale: fra i tanti, Gianni Amelio, Elio Petri, Gabriele Muccino e Lina Wertmüller. Ma c’è un film al quale, a distanza di trent’anni dalla sua uscita nei cinema italiani, viene attribuito un valore quasi profetico per la sua capacità di esplorare e rappresentare la scuola, prevedendo e facendo emergere in superficie le dinamiche che l’avrebbero inesorabilmente trasformata, tanto da renderla quello che è diventata oggi. Il film in questione è La scuola di Daniele Luchetti, ritratto impietoso, ma non per questo cinico e irriguardoso, del microcosmo scolastico. Nel film, destinatario oggi di nuove e meritate attenzioni, Luchetti concentra la sua visione della scuola italiana nel racconto di una sola giornata. Quella dello scrutinio finale, in cui non sempre tutto, per varie ragioni, fila liscio come si vorrebbe. L’occhio acuto del regista aveva indagato in quell’occasione il mondo dei professori, spazialmente racchiuso tra le pareti anguste e gli arredi polverosi di una palestra, un luogo simbolo, ma non tanto indicato, per dare voti, compilare pagelle e – compito sempre ingrato per un insegnante – bocciare. L’accordo tra i prof non è facile, perché ognuno, a modo suo, è portatore di una diversa visione del ruolo che esercita e della scuola in cui opera. C’è l’insegnante rassegnato, che si adegua alla forma della burocrazia, e c’è l’insegnante che “dimentica” la mission educativa che deve assolvere; c’è poi quello che conta i giorni che lo separano dalla pensione e c’è, infine (e chi conosce la scuola sa che non si tratta di pochi esemplari in via di estinzione), l’idealista che lamentosamente va avanti, sempre più disilluso, ma non ancora rassegnato. Un piccolo miracolo di resilienza, per impiegare una parola del cui uso oggi si abusa non poco.
Il cinema racconta una scuola camaleontica
La scuola di Luchetti è, in effetti, un mondo alla deriva, e i suoi personaggi sono simili all’equipaggio di una nave in avaria che rischia il naufragio. Le falle che si aprono di continuo sono tante. Tamponata una, subito se ne aprono di nuove, e la nave, che comunque va, continua a imbarcare acqua. È ciò che accade nel film e che trova puntuale riscontro dentro le aule, dove la relazione studente-insegnante (in fin dei conti, il vero nocciolo della questione, quando si parla seriamente di scuola ed educazione) è gravata da variabili di difficile gestione. Nei trent’anni trascorsi dalla prima proiezione del film, la scuola italiana ha dato prova di grande camaleontismo. Si è adeguata ai cambiamenti, sulla carta e nelle intenzioni, ma è mutata meno di quanto si possa credere. La prova? Basterebbe rivedere la pellicola di Luchetti, che, va detto, non ha ottenuto consensi unanimi[4], e chiedersi se quella del 1995 non sia ancora la scuola di oggi, interrogandosi nello stesso tempo sulla quanto meno dubbia incisività di tante proposte di riforma.
[1] Davide Boero, Storia cinematografica della scuola italiana, Lindau, Torino 2022, p. 7.
[2] Cfr. Alessio Turazza, La scuola al cinema in 12 film, “La ricerca”, 8 febbraio 2021 (La scuola al cinema in 12 film – La ricerca ).
[3] Boero, Op. cit., p. 9.
[4] Cfr. https://www.commissionefilmcei.it/film/la-scuola/