Pubblichiamo il dialogo avvenuto con Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale Università Cattolica di Milano, nel corso della realizzazione del 2° Rapporto su Scuola e Università dell’Eurispes.
Come valuta la spesa pubblica destinata in Italia all’Istruzione? Per quale ragione la “dissennata” politica dei tagli sembra avere sempre come maggiore bersaglio proprio la scuola da cui dipende il nostro futuro?
Il nostro è un Paese che ha scarsa lungimiranza. Da troppo tempo non sappiamo e non vogliamo investire sulle nuove generazioni. La classe politica italiana, in maniera più accentuata che in altri paesi, tende a limitare lo sguardo in funzione delle scadenze elettorali. Ne consegue che le politiche sono fortemente condizionate da questo atteggiamento. La trascuratezza della scuola è diretta conseguenza di questa miopia. La formazione delle nuove generazioni ha bisogno di investimenti mirati e generosi, in mancanza dei quali il Sistema Paese nel suo complesso diventa fragile. Le conseguenze le possiamo constatare: troppi giovani non riescono a inserirsi nel percorso lavorativo e non riescono nemmeno a raggiungere livelli adeguati di preparazione. Fatto ancora più grave, in molti casi non maturano competenze spendibili, in un Paese, come il nostro, che fatalmente sta invecchiando, fenomeno che aggrava il quadro già critico. La popolazione che presenta un’età media elevata tende a spostare legittimamente l’attenzione del dibattito pubblico, sul tema dei servizi in età avanzata welfare e delle pensioni.
Si crea insomma una sorta di circolo vizioso, dagli esiti nefasti. Come se ne esce?
Difficile uscirne, perché in questa dinamica si perde di vista il focus sulla scuola e si allenta la capacità di investire sul futuro; il Paese non può crescere a queste condizioni. Quando parlo di investimento sulle nuove generazioni mi riferisco alle ricadute che possono avere su questioni molto delicate come le diseguaglianze crescenti, la ricerca e quindi l’innovazione, il diritto allo studio, componenti in assenza delle quali non ci può essere progresso economico e civile. Le possibilità di accesso alla società da parte dei giovani dipendono fortemente dalla concatenazione di tutti questi elementi che ho ricordato, ecco perché serve un cambio culturale per ridare slancio e delle chances reali di ripresa.
Il tema ha a che fare con la formazione delle classi dirigenti. Aspetto sul quale siamo carenti. Qual è il suo giudizio in merito?
Il problema esiste in Europa e non solo in Italia, anche se da noi si manifesta in una forma probabilmente più grave. Dirigere non vuol dire comandare, ma dare una direzione al Paese, che sia lungimirante, capace cioè di vedere cosa servirà nei prossimi dieci, quindici anni non guardando solo all’immediato. Purtroppo queste ragioni emergono solo nei convegni, nella pratica politica riflessioni di questa natura non appassionano molto.
Rivolgendo lo sguardo alle passate riforme dell’Istruzione, qualcuna ha lasciato il segno?
In generale, tutte le riforme hanno avuto degli obiettivi ben mirati che le hanno ispirate. L’autonomia della scuola, per citare quella che forse ha più inciso sull’evoluzione del sistema, presenta aspetti importanti e utili che ne giustificano la ratio. Quello che ci è mancato e che ci manca è la capacità di realizzare in senso pieno il disegno riformista con il risultato che la scuola è diventata un cantiere aperto, che non dà solidità, perdendo quella funzione di orientamento rispetto alla società che cambia, di cui gli studenti hanno assoluto bisogno. Bisogna dare alla scuola strumenti per evolvere nel dialogo e nel confronto con la società. L’autonomia ha introdotto un principio che va bilanciato con la responsabilità, se non vogliamo creare diseguaglianze territoriali. Tanti limiti strutturali non sono però stati superati, proprio perché le riforme rimangono sempre nel guado. Se non si riconnette la scuola al mondo che cambia, non faremo molta strada.
Uno dei punti cruciali del dibattito sul sistema dell’Istruzione nel nostro Paese è quello relativo alla formazione dei docenti scolastici e universitari. È possibile che non si riesca a mettere in campo un modello di sistema che non basi la qualità dell’offerta formativa unicamente sulla capacità e sulla buona volontà del singolo docente?
Il tema della formazione dei docenti dovrebbe essere centrale. Non si può pensare che il metodo di insegnamento nella società complessa non si evolva in metodo e in linguaggi. Le nuove generazioni hanno esigenze di rapportarsi con tutto quello che avviene ogni giorno, maturando sensibilità sempre nuove. Chiedono competenze diverse, di cittadinanza, di intercultura, che vanno al di là della strumentazione pure necessaria da spendere nell’universo del lavoro. I docenti devono sentirsi sollecitati dal divenire sociale di questo cambiamento d’epoca. Il processo della loro formazione deve essere continuo e mirato. Esiste un cambiamento antropologico che sta modificando i profili e le identità di tutti noi. Non mutano solo i giovani, si stanno trasformando le nostre città, gli ambienti che abitiamo e frequentiamo. Anche le tecnologie hanno il loro peso in questa metamorfosi, per questo vanno tenute in massima considerazione.
Un mix di componenti, che rende il quadro ricco di implicazioni. Da dove bisogna partire per orientarsi?
Dalla consapevolezza che il futuro si gioca nella combinazione tra fattore umano- antropologico e tecno-scientifico. Metodi, strutture, strumentazioni vanno sintonizzati sui ritmi evolutivi della società in tutte le sue articolazioni. L’ultimo Rapporto dell’Istituto Toniolo ci dice che gli studenti non vogliono essere considerati come materia inerte. Non funziona più la didattica asimmetrica, passiva, verticale. Viene riconosciuta agli insegnanti un’alta competenza disciplinare, ma una scarsa capacità di coinvolgere, di stimolare. In Europa c’è maggiore attenzione per questo aspetto, che ha dei riflessi sulla dispersione scolastica esplicita e implicita. Ci si può fermare nel percorso scolastico a un livello inferiore rispetto alle potenzialità, non acquisire competenze solide pur arrivando a conseguire un titolo di studio, o lasciare le classi prima dell’obbligo come previsto dalla normativa. Aspetti diversi di un malessere troppo diffuso che va combattuto e superato, motivando gli studenti, coinvolgendoli, innovando sempre linguaggi e metodi della didattica.
Il confronto con l’Europa, che Lei segue con particolare attenzione, che indicazioni offre?
Una linea di progresso si registra anche in Italia in materia di istruzione, ma il divario con le altre nazioni non si colma, perché crescono e si evolvono con maggiore velocità rispetto a noi. Il problema, dalla nostra prospettiva per i dati demografici cui si faceva riferimento all’inizio, assume una estrema gravità. Abbiamo meno giovani, preparati in modo inadeguato rispetto alle sfide del proprio tempo, un incrocio nefasto. Se cambia il mondo, cambia anche all’interno delle classi ‒ non dimentichiamolo. Il tempo non si ferma dentro i cancelli della scuola. La diversità è un fattore decisivo nel mondo del lavoro, dove si cerca, non sempre con successo purtroppo, di mescolare esperienze, conoscenze, promuovendo il team all’interno delle organizzazioni produttive. Questa cultura del lavoro va valorizzata già mentre si è studenti. Ciascun ragazzo è portatore di una specificità, di una visione, di una tradizione, che arricchisce il gruppo dei pari non solo il corpo sociale di appartenenza. L’immigrazione è componente essenziale di questa diversità crescente che deve diventare una risorsa per l’attività didattica, non un problema in più da gestire.
Non crede che ci sia ancora molta strada da fare?
Non abbiamo alternative. Bisogna investire per sviluppare le competenze interculturali tra i banchi, rispettando le differenze, promuovendo più punti di vista, che non significa perdere la visione comune del futuro. Sono queste le sfide cruciali che ci portano al domani. I figli dei migranti devono vivere la scuola come ambiente che favorisce il senso di appartenenza alla comunità di cui si entra a far parte attiva. La scuola può rafforzare l’identità nel senso inclusivo del termine, soprattutto se lo studente avverte la volontà di investire perché ciascun attore possa muoversi con padronanza nel mondo che cambia. Pochi giovani, dunque meno investimenti sarebbe la ricetta peggiore, rispetto al quadro che abbiamo tratteggiato. Occorre innalzare la qualità, occupandosi della composizione multietnica delle classi, che può tramutarsi in un’opportunità per rafforzare le competenze interculturali delle nuove generazioni, che potranno dare realmente un indirizzo di autentico progresso al futuro che ci aspetta.
La scuola può favorire l’avvicinamento tra Nord e Sud in un Paese che vive questa storica dicotomia?
Una scuola capace di sintonizzarsi con la società, come ho cercato di spiegare prima, può di certo contribuire a ricucire l’Italia. Se, al contrario, l’istruzione e la formazione non diventano priorità nelle scelte della politica, vecchie e nuove fratture si sovrapporranno peggiorando il quadro; penso ad esempio alla divisione tra Nord e Sud e a quella tra immigrati di seconda generazione e giovani autoctoni. Le diversità devono poter dialogare in una scuola aperta, che torni ad essere leva di mobilità sociale. La scuola deve mettere le basi di un Paese che migliora con le nuove generazioni protagoniste. Servono omogeneità, dotazioni strutturali equilibrate e diffuse, una qualità dell’insegnamento senza sperequazioni territoriali, solo uno sforzo orientato a far crescere il capitale sociale può cambiare la storia del Paese. Se ne avvantaggerebbero anche le imprese che funzioneranno molto meglio nei territori in cui sviluppano il loro business. Oggi, se si parte da una classe sociale più svantaggiata, il destino appare segnato. Per credere in un divenire che appare negato, lo studio deve riappropriarsi della funzione che le è più propria, ovvero compensare i divari di partenza e sentirsi inclusi in un processo di miglioramento sociale. Essere figlio di migranti o di italiani, essere piemontese o siciliano, ricco o povero, si deve poter concorrere alla crescita culturale con uguali opportunità. Se faremo di tutto per far arrivare questo messaggio ai giovani, il Paese avrà un profilo migliore. Altrimenti il peso di rischi, quali: l’alto debito pubblico che grava sulle spalle dei giovani, gli squilibri demografici crescenti, i flussi migratori in espansione, unite alla incapacità a gestire società sempre più dense, ci porteranno al collasso. Aumenteranno i neet, i giovani che non lavorano e che non cercano nemmeno occupazione, altro fenomeno negativo di cui l’Italia vanta un triste primato in Europa.
Un ultimo aspetto vorrei richiamare alla sua attenzione. Nell’istruzione superiore la classica dicotomia fra pubblico e privato si è arricchita di nuovi soggetti (academy aziendali, società di consulenza, business school, start up digitali, piattaforme educative globali, eccetera) allargando lo spettro dell’offerta formativa. In prospettiva, questo fenomeno potrebbe finire con lo spiazzare le Istituzioni tradizionali, a cominciare dall’Università pubblica?
Bisogna, a mio giudizio, scongiurare la polarizzazione. La collaborazione tra pubblico e privato che aiuti a migliorare l’offerta in coerenza con i processi di valorizzazione nel territorio in cui si vive, può esser molto utile, va dunque per questo favorita.