“Cara, vecchia generazione Z”. Così, con un incipit vecchia maniera, potrebbe iniziare la lettera di commiato dalla generazione che, con il suo avvento, ha accelerato il processo di invecchiamento di quelle che l’hanno preceduta: i baby-boomers, in particolare, che si sono visti trasformare in inquieti vegliardi, e i millennials, naturalmente, che in termini temporali sono la generazione più prossima a quella che, avendo visto la luce tra la metà degli anni ‘90 e il 2010, è stata etichettata come la generazione Z. I primi “esemplari” di quella generazione hanno già compiuto trent’anni. Un’enormità per chi ritiene che oggi i passaggi da una generazione all’altra siano molto più rapidi rispetto al passato, oltre che sempre più accelerati. Così definita per il suo rapporto privilegiato con le nuove tecnologie – la generazione dei Post-millennials è, infatti, la prima ad aver vissuto in un mondo che aveva già fatto la sua rivoluzione digitale – la Z deve oggi cedere il passo all’ingresso nella scena storico-tecnologica di nuove aitanti generazioni: l’Alpha, costituita dai veri nativi digitali, e la Beta, che, ancor più giovane (fin troppo, forse), ha emesso i primi vagiti nell’anno corrente.[1]
L’identikit della generazione Z
Si certifica la nascita di nuove generazioni, ma ancora si deve definire l’identikit di chi appartiene alla Z. Identikit che va prendendo forma, ritraendo un mondo giovanile – quello di chi oggi può avere un’età compresa tra i 15 e i 30 anni – inquieto, sfiduciato ed esitante. In un’indagine del 2020 Eurispes aveva constatato un preoccupante allontanamento dei giovani da valori etici quali l’onestà, la giustizia e la libertà, diventati meno attraenti rispetto ad altre generazioni. Quasi un intervistato su quattro (23,3%) aveva, inoltre, ammesso di non avere punti di riferimento, si trattasse pure di popstar, grandi atleti o stelle del cinema. Della generazione Z veniva fatto emergere anche il ritratto di un mondo giovanile scontento delle politiche pubbliche (69%), ritenute poco attente nell’assicurare il necessario benessere sociale. L’Intelligenza Artificiale non era motivo di particolari ansie, se non per il timore di venire sostituiti da robot o altri dispositivi tecnologici. Paura, questa, che potrebbe accomunare più generazioni. L’AI può addirittura diventare il consulente personale che non ti aspetti. Secondo una rilevazione di Skuola.net condotta su 2000 giovani, a rivolgersi a un chatbot per ricevere consigli e anche conforto sarebbe il 15% del campione esaminato.
Gli “eletti” della generazione Beta
Altro discorso andrebbe invece fatto per la next generation, la generazione del futuro. Ancora nella culla e già immersa nell’amniotica virtualità di un mondo destinato a veder crescere il ruolo e il potere dell’Intelligenza Artificiale, la Beta è, in un certo senso, la generazione degli eletti. Quel che di questa “imberbe” generazione bisognerà capire, è come saprà interpretare il grande cambiamento di cui tutti siamo testimoni. Vaticini e sinistre prefigurazioni, pregne di apocalittico complottismo, vorrebbero anticipare la narrazione di un destino già scritto: un mondo dominato da macchine pensanti capaci di mettere fuori gioco l’ingegno umano. Come dire che là dove i padri hanno fallito, i figli, o in questo caso i nipoti, non potranno far di meglio. Un sostenitore del post-umano potrebbe avere qui buon gioco e perorare la causa di un “nobile” e “vantaggioso” compromesso tra l’uomo del futuro e quel che sarà dell’Intelligenza Artificiale. Un patto di cui il futuro campione della generazione Beta potrà essere estensore e firmatario.
“Un nome è più di un nome”
La domanda che ci poniamo non ha, tuttavia, a che fare con la possibilità di scenari tanto futuribili quanto inquietanti. La questione è un’altra e chiama in causa la legittimità delle etichette con le quali definiamo le generazioni del presente e persino quelle che devono ancora vedere la luce. Con i nomi, e, quindi, con le etichette, bisognerebbe andarci cauti, perché, come farebbe presente Derrida, «Quando un nome viene, esso dice subito più del nome, l’altro del nome e l’altro come tale, di cui annuncia appunto l’irruzione».[2] Insomma, non si può impunemente tenere a battesimo qualcuno o qualcosa e poi non curarsi di quello che sarà. I nomi marchiano e marcano distanze e differenze – dicono “l’altro del nome”, ricorderebbe Derrida – e, aspetto non trascurabile, definiscono e generano appartenenze. Oggi, più che in passato, i nomi funzionano come marchi e brand. Ai nomi – anche quando a essi si tenta di sfuggire – in qualche misura si appartiene, soprattutto se designano insiemi, collettività e, ancor più, generazioni. Non poteva esserne all’oscuro Mark McCrindle, il demografo australiano che, coniandone il nome, ha di fatto certificato la nascita della generazione Beta.[3] Contro il dilagare di questi termini e gli effetti della loro applicazione, nemmeno il più intransigente dei misoneisti potrebbe sentirsi al riparo.
La (presunta) missione generazionale dei Beta
Se è vero (e non c’è dubbio che lo sia) che arriva sempre il giorno in cui i figli chiedono conto ai padri di scelte e azioni di cui loro, i figli, non sono diretti responsabili, non è da escludere che nel lungo elenco delle questioni sospese possa esserci anche quella del nome con il quale la loro generazione è stata battezzata. Non tanto per il nome in sé – questione fin troppo filosofica – quanto, piuttosto, per il fatto di averne ricevuto uno in dote. Senza un nome, privi di un’etichetta che li definisca e differenzi, sarebbero stati un tutt’uno con la generazione dei loro fratelli maggiori, gli Alpha, e non sarebbero costretti (perché così sarà) ad avvertire come incolmabile la distanza che, non solo in termini cronologici, li separa dai Z. Ai Beta toccherebbe così in eredità un mondo il cui futuro è stato già prefigurato da altre generazioni. Spetterebbe a loro, pronipoti della crisi climatica e di tanti altri disastri, vedersela con gli esiti inimmaginabili dell’Intelligenza Artificiale, di cui, poco argutamente, le generazioni del presente – boomers disillusi, Millennials precocemente invecchiati, disorientati Zeta e ignari Alpha – ritengono di poter dire più di quanto effettivamente sia dato loro sapere.
[1] Cfr. https://www.independent.co.uk/life-style/gen-beta-gen-alpha-2025-transition-years-when-b2670860.html.
[2] Jacques Derrida, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 1984, p. 45. «Il nome: che cosa si evoca con esso? Come si può pensare il nome del nome? E che cosa accade quando si dà un nome? Che cosa si dà dunque? Non si offre una cosa, non si consegna nulla e tuttavia qualcosa accade che riporta al dare ciò che non si ha» (Derrida, Salvo il nome, Jaka Book, Milano 2020).
[3] Cfr. https://mccrindle.com.au/article/generation-beta-defined/