HomeEconomiaL’AI non è solo una tecnologia, ma un banco...

L’AI non è solo una tecnologia, ma un banco di prova per la democrazia

di
Gabriele Cicerchia

Nel mondo post-pandemico, l’Intelligenza Artificiale (AI) non è più una promessa futuribile, ma un’infrastruttura invisibile che permea l’economia, il lavoro, la sicurezza, la salute e persino la politica. Oggi più che mai l’AI è al tempo stesso opportunità e rischio, fattore di crescita e vettore di disuguaglianza. E, soprattutto, è una questione che riguarda da vicino l’Italia, spesso fanalino di coda nelle classifiche internazionali sull’innovazione. Secondo un report Goldman Sachs, entro il 2033, circa 300 milioni di posti di lavoro nel mondo potrebbero essere sostituiti o trasformati dall’AI. Un dato preoccupante, ma che va bilanciato con un altro: l’impatto potenziale sul Pil globale, stimato in un +7% nello stesso arco temporale. Non si tratta dunque di respingere l’innovazione, ma di governarla.

Secondo Eurostat, l’Italia investe meno dell’1,5% del Pil in ricerca e sviluppo, al di sotto della media Ue del 2,3%

L’Italia può giocare una partita decisiva a patto che sappia unire visione strategica e coerenza politica. Il punto, infatti, non è solo tecnologico: è politico, culturale, istituzionale. Come ha mostrato il caso del blocco temporaneo di ChatGPT da parte del Garante per la Privacy nel marzo 2023 – unico caso in Europa – l’Italia si muove in ordine sparso: da un lato tutela giustamente i diritti dei cittadini, dall’altro fatica a costruire un ecosistema innovativo competitivo. Il rischio è quello di una regolazione reattiva che blocca, anziché orientare. Il ritardo è strutturale: secondo Eurostat, l’Italia investe meno dell’1,5% del Pil in ricerca e sviluppo, ben al di sotto della media Ue (2,3%) e ancor più distante da Germania, Francia e Paesi Bassi. In termini di laureati STEM, il nostro Paese si colloca stabilmente tra gli ultimi in Europa. E nel campo dell’AI, nonostante la pubblicazione della “Strategia Nazionale per l’Intelligenza Artificiale”, da parte del MISE, nel 2021, l’attuazione resta debole, priva di una regia forte e continuativa. Eppure, le potenzialità non mancano. L’Italia vanta competenze accademiche di alto profilo, centri di eccellenza nell’automazione, nel calcolo ad alte prestazioni e nell’intelligenza collettiva. La vera sfida è quella di mettere in rete questi asset frammentati e costruire una filiera nazionale dell’AI capace di attrarre investimenti, trattenere talenti e generare valore.

Sull’AI l’Unione europea propone un approccio basato sulla classificazione dei rischi e sulla centralità della persona

Il pluralismo economico invita a superare le visioni monolitiche e i determinismi tecnologici. L’AI non va subita, né idolatrata, bensì inserita in una cornice democratica, fatta di etica pubblica, coesione sociale e giustizia ridistributiva. In questo senso, l’Europa offre un modello alternativo rispetto a USA e Cina: con il Regolamento sull’AI Act, approvato nel 2024, l’Ue propone un approccio basato sulla classificazione dei rischi e sulla centralità della persona. È una strada che può favorire la fiducia dei cittadini, ma richiede anche coraggio politico e investimenti pubblici all’altezza. Secondo il Piano Coordinato sull’AI, pubblicato dalla Commissione Europea, l’obiettivo è raggiungere 20 miliardi di euro l’anno in investimenti pubblici e privati. Ma i numeri raccontano altro: la Germania ha stanziato 3 miliardi in 7 anni, la Francia 1,5 in 5. L’Italia, ancora una volta, resta nel vago. La mancanza di una dotazione finanziaria coerente con le ambizioni strategiche è uno dei nodi da sciogliere, se non si vuole restare periferia dell’innovazione.

Nuove figure professionali sono in crescita come il data scientist, l’algorithm trainer, l’AI ethicist, il chief data officer

Il tema del lavoro è più che mai centrale. L’automazione avanzata sta già modificando profondamente la struttura occupazionale. Secondo il McKinsey Global Institute, quasi il 50% delle attività lavorative è oggi suscettibile di automazione parziale o totale. Ma per ogni mestiere che scompare, ne emergono altri. Altre figure professionali, invece, appaiono in crescita come il data scientist, l’algorithm trainer, l’AI ethicist, il chief data officer. Ruoli nuovi, per i quali l’Italia non ha ancora sistemi formativi adeguati. Qui si apre un terreno decisivo: l’istruzione. L’Italia investe poco in educazione digitale, sia nella scuola che nell’università. Eppure, senza “lifelong learning” non si può affrontare una rivoluzione tecnologica esponenziale. Servono nuove alleanze tra pubblico e privato, tra scuola e impresa, per colmare il gap di competenze che rischia di creare una frattura sociale permanente.

l’AI non è solo una tecnologia, ma un banco di prova per la democrazia e la capacità dell’Italia di affrontarla dipenderà dalla lungimiranza delle sue classi dirigenti

Un’altra obiettività che sta sempre più prendendo piede è quella del reddito di base universale, come risposta redistributiva alla disoccupazione tecnologica. Un’idea che, pur essendo ancora marginale nel dibattito italiano, è presa in seria considerazione in altri paesi europei. Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, adottato nel 2017, prevede forme di sostegno minimo garantito per ogni cittadino. L’AI potrebbe accelerare questa trasformazione, obbligandoci a ripensare il rapporto tra lavoro, reddito e cittadinanza. In definitiva, l’AI non è solo una tecnologia, ma un banco di prova per la democrazia. La capacità dell’Italia di affrontarla non dipenderà dalla velocità degli algoritmi, ma dalla lungimiranza delle sue classi dirigenti, dalla solidità delle sue istituzioni e dalla coesione della sua società. Siamo ancora in tempo per scegliere se essere utenti passivi di piattaforme progettate altrove o protagonisti consapevoli di un nuovo umanesimo tecnologico, ma il tempo stringe.

Leggi anche

Per rimanere aggiornato sulle nostre ultime notizie iscriviti alla nostra newsletter inserendo il tuo indirizzo email: