Il nostro Paese registra da alcuni decenni un fenomeno di denatalità più marcato rispetto anche alla maggior parte dei paesi occidentali. Nel dibattito pubblico il fenomeno viene messo in relazione alle difficoltà economiche e all’insicurezza che condizionano i giovani in età riproduttiva e che certo non incentivano l’opzione di metter su famiglia. Questi elementi hanno sicuramente il loro peso. Considerando però che la serie storica della progressiva denatalità prende l’avvio nella seconda metà degli anni Settanta e si approfondisce negli anni Novanta, è evidente che alla base della riduzione dei tassi di riproduzione non c’è soltanto l’insicurezza economica o la precarietà lavorativa delle giovani generazioni. È proprio nei decenni di quella che Galbraith definiva “la società opulenta” che comincia a manifestarsi una tendenza per la quale formare una famiglia non è più la risposta a ciò che la società richiedeva e considerava come una dimensione quasi obbligata.
La crisi della famiglia, di cui la denatalità è la massima manifestazione, è figlia di un’economia del benessere diffuso
Così come suggerisce Engelhardt la crisi della famiglia, di cui la denatalità è la massima manifestazione, è figlia di un’economia depressa ma piuttosto del benessere mediamente sempre più diffuso. Ciò sembrerebbe essere confermato dal fatto che i tassi riproduttivi nel nostro Paese sono più elevati seppur di poco per le fasce sociali più deboli e nelle aree geografiche meno sviluppate. Le dinamiche all’origine del fenomeno, in Italia come nelle altre nazioni in profonda crisi demografica, sono complesse, articolate, talvolta persino contraddittorie. Il primo fattore chiamato in causa è tradizionalmente quello economico. Le pressioni sul bilancio familiare esercitate dall’arrivo di uno o più figli sono rilevanti e di varia natura: costi diretti, legati all’accudimento nelle stagioni della crescita, all’istruzione, alle attività formative; possibile riduzione immediata delle entrate, legate alla redistribuzione del tempo di coppia fra famiglia e lavoro a danno di quest’ultimo (il che, ancora troppo spesso, si traduce nella rinuncia totale al lavoro da parte della donna); costi indiretti, legati alla necessità di avere una abitazione e mezzi di trasporto adeguati a soddisfare le esigenze dell’accresciuto nucleo familiare; potenziale riduzione prospettica delle entrate, dovute alla perdita di opportunità di carriera negli anni del maggiore impegno richiesto dai figli.
Il costo dei figli è inteso non solo in senso economico ma anche in termini di cambiamento degli stili di vita, di frammentazione del tempo, di investimento emotivo
In tal senso uno dei temi principali di questo dibattito è riconducibile alla relazione esistente tra il tasso di natalità e l’ammontare delle spese necessarie per soddisfare i bisogni dell’intero nucleo familiare. Il costo dei figli è infatti una delle variabili fondamentali dei fenomeni di denatalità. Costo inteso non solo in senso meramente economico ma anche in termini di cambiamento degli stili di vita, di frammentazione del tempo a disposizione, di investimento emotivo. In quest’ottica, l’Eurispes ha svolto indagini sul costo dei figli, volte alla quantificazione e composizione delle spese sostenute dalle famiglie italiane. I nostri studi hanno messo in luce come la spesa familiare non adotti un andamento strettamente crescente in relazione al numero dei figli. Questo fenomeno può essere spiegato attraverso l’adozione e il cambiamento di alcuni comportamenti all’interno del nucleo familiare come, per esempio, il riciclo e riutilizzo di indumenti, oggetti, libri, ecc. Inoltre, la maggiore esperienza gioca un ruolo chiave nell’apportare modifiche visibili nei profili di consumo delle famiglie, nello specifico aumentando l’oculatezza della spesa in situazioni eccezionali (rispetto alle condizioni di salute dei figli) e ordinarie (quali consumi alimentari). Emerge, in particolare, come le famiglie sostengano gli investimenti più rilevanti alla nascita dei primi due figli; l’investimento affrontato per il secondogenito permette di ammortizzare i costi per l’allevamento del terzogenito: tra le categorie di spesa in questione spiccano quelle destinate ai trasporti, all’abitazione, agli elettrodomestici, ai mobili e ai servizi per la casa.
La quantità di ore settimanali dedicate alle attività extra lavorative sono ancora fortemente disomogenee tra uomini e donne
Oltre ai costi diretti, vi è poi la grande questione del lavoro, in un contesto sociale in cui, rispetto al passato, anche la componente femminile aspira alla giusta affermazione professionale e all’indipendenza. Eppure non si fa ancora abbastanza per rimediare a disparità come quella ben illustrata dai numeri relativi al mercato del lavoro nazionale ed alla mancanza di adeguati ed efficaci strumenti per la conciliazione tra impegni domestici ed extradomestici. Carenze che troppo spesso si traducono nella rinuncia o nell’estromissione forzata delle donne italiane dal mondo lavorativo. La quantità di ore settimanali dedicate alle attività extra lavorative sono ancora fortemente disomogenee tra uomini e donne. È proprio in questa ottica che negli anni sono stati introdotti il congedo di paternità e una serie di facilitazioni per adeguare le norme a una organizzazione familiare che, soprattutto nelle nuove generazioni, tende a essere più flessibile ed equa.
Sono soprattutto le donne a lavorare part-time, ad utilizzare i congedi e a ridimensionare percorsi lavorativi in presenza di figli
Tali iniziative, è importante ricordarlo, dovrebbero comunque coincidere con strutture in grado di supportare la maternità anche al di fuori dell’ambiente domestico, come la reale accessibilità degli asili, ma anche disponibilità di asili nido aziendali per i dipendenti. Affinché la sostenibilità della scelta genitoriale non rimanga affidata soltanto o soprattutto, per chi può, al Welfare famigliare dei nonni. Benché gli uomini italiani siano sempre più abituati a dividere con le donne il carico di lavoro domestico e, ancora più, a prendersi cura dei figli, con grande naturalezza, le donne continuano a farsi carico di pesi maggiori, affrontando sacrifici per colmare le carenze strutturali del Paese. L’Eurispes le definì alla fine degli anni Novanta le “acrobate”, perennemente in bilico tra lavoro, cura familiare e perdita dei propri spazi sociali ed esistenziali. Sono soprattutto loro a lavorare part-time, ad utilizzare i congedi, a ridimensionare percorsi lavorativi già penalizzati da retribuzioni più basse e minori opportunità di carriera.
La denatalità e il diffondersi capillare di modelli familiari senza figli o, al massimo, con un figlio unico
D’altra parte, indipendentemente dai fattori economici, lavorativi e abitativi, molte coppie non hanno figli per scelta, perché non sentono più la procreazione come un imperativo biologico o sociale cui dare una concreta risposta entro i trent’anni di vita. Solo recentemente, infatti, si è cominciato ad annoverare fra le cause dell’inverno demografico questa assenza di desiderio di prole, legata a mutamenti culturali delle società evolute – secolarizzazione, individualismo, emancipazione femminile, affermazione di nuovi modelli di vita e di famiglia. Le ragioni della bassa fecondità nel nostro Paese sono state storicamente ricercate in fattori strutturali (ad esempio, un mercato del lavoro disfunzionale, politiche per la famiglia inadeguate, scarsità di misure e servizi per conciliare la famiglia e il lavoro) e congiunturali (come, ad esempio, la recessione economica); oggi, tuttavia, appare evidente come siano anche ragioni culturali ad orientare la volontà delle donne (e degli uomini). Il diffondersi capillare di modelli familiari senza figli o, al massimo, con un figlio unico, stanno a poco a poco diventando la nuova norma sociale.
Sulla denatalità incidono fattori come lo spostamento in avanti del percorso di vita e l’inquinamento ambientale
Per coloro che contemplano, nel proprio percorso di vita, anche la genitorialità, d’altra parte, sempre più spesso rispetto al passato il desiderio risulta non realizzabile per ragioni come la crescita dell’instabilità familiare ed il calo della fertilità. Fattore, quest’ultimo, accresciuto anche dal fatto che moltissime donne possono o scelgono di diventare madri in età più avanzata, distante dal periodo di massima fertilità, conseguenza dello spostamento in avanti del percorso di vita: allungamento del percorso formativo, accesso ritardato al mondo del lavoro, alla stabilità occupazionale e all’indipendenza abitativa ed economica, aumento dell’età media al momento del matrimonio/unione di coppia e della scelta di avere figli. Sempre la fertilità, è un dato acclarato, viene minacciata sempre di più dall’inquinamento ambientale e in particolare dalle conseguenze di questo inquinamento sul cibo di cui ci nutriamo.
I risultati delle indagini dell’Eurispes evidenziano che fare figli comporta costi elevati, ma non solo in senso strettamente economico
I risultati delle nostre indagini evidenziano che fare figli comporta costi elevati, ma non solo in senso strettamente economico. In qualità di genitori gli individui sembrano sacrificare, infatti, la sfera del tempo libero e delle relazioni amicali, la cura personale e talvolta il mantenimento di un equilibrio nel rapporto di coppia, in sintesi la dimensione sociale dell’io. Ciò che deve essere evitato è la parzialità della lettura del fenomeno, che conduce a una valutazione squilibrata, che sottovaluta ed appiattisce le dimensioni del coraggio, della speranza proiettata al futuro, insite nella scelta di avere figli.
*Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes.
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