Una delle facce della contemporaneità, perlomeno in quella parte di pianeta che si riconosce nei canoni della cultura occidentale, è la tendenza a misurare col metro del denaro pressocché ogni cosa. Un calciatore ha una stagione particolarmente brillante? Il suo valore di mercato crescerà – e diverrà tema di discussione universale, dall’ultimo tifoso al primo giornalista sportivo. Come capire se un film è valido o meno? Andiamo a vedere quanto ha incassato appena uscito nelle sale e avremo una risposta “oggettiva” del suo valore culturale. A quale corso di studi universitari iscrivere un figlio? Il dilemma, di quelli che contano, si semplifica spesso nella selezione fra atenei a pagamento per davvero (ossia quelli privati) e gli altri (cioè, i “poveri” atenei statali). Il denaro, insomma, pare essere andato ben oltre le proprie funzioni naturali (a proposito, se passate a Roma, fino ad aprile 2024, c’è un’interessante mostra sulla moneta, al Palazzo delle Esposizioni). Da metro di misura del valore delle merci, strumento di scambio e costruzione della ricchezza, infatti, il soldo sembra essersi erto a ben altri uffici, ponendosi (a seconda della prospettiva adottata) come spiegazione, causa ed effetto di ogni cosa, argomento o fenomeno che sia. Politica, sport, cultura, relazioni internazionali e via dicendo, non sembra quasi esservi più alcun campo dell’umana avventura che sia rimasto immune dai soldoni.
In Italia i nuovi nati sono 393.333, e il numero medio figli per donna è calato da 1,44 a 1,24 in 12 anni
Tutto questo dovrebbe aver fine appena passato l’uscio di casa, quando cioè si passi dalla dimensione collettiva della vita a quella privata. E invece parrebbe di no: anche lì dentro, non si sfugge alla tentazione di spiegare i fenomeni con il metro del denaro. È il caso della denatalità. L’Italia non fa più figli come un tempo – lo sappiamo tutti ormai – l’Istat ce lo certifica ogni anno con il riconoscimento, ogni volta, del raggiungimento di un record negativo rispetto al passato. Confrontiamo il 2022 con il 2010: i neonati sono passati dai 561.944 ai 393.333; il numero medio figli per donna è calato da 1,44 a 1,24; le famiglie con un figlio sono passate dal 33,1% al 28,4%. L’aumento dell’età della madre al primo figlio (31,6 anni) e il calo delle nuove nate femmine – 190.493 nel 2022 – pongono dubbi intorno alla possibilità di inversione della tendenza.
Denatalità, un fenomeno non solo economico
Ebbene, di fronte a questo fenomeno, la spiegazione non si attarda quasi mai ad esplorare la profondità del tema ma segue il costume prima richiamato: la denatalità si spiega e misura in soldoni. Cioè: “i figli costano”, “se fai figli ti impoverisci”. Effettivamente le pressioni sul bilancio familiare esercitate dall’arrivo di uno (o più figli) sono molteplici e di varia natura: (i) costi diretti, legati all’accudimento nelle stagioni della crescita (es. vestiario), all’istruzione, alle attività formative (es. sport) e via dicendo; (ii) possibile riduzione immediata delle entrate, legate alla redistribuzione del tempo di coppia fra famiglia e lavoro a danno di quest’ultimo (il che, ancora troppo spesso, si traduce nella rinuncia totale al lavoro da parte della donna); (iii) costi indiretti, legati alla necessità di avere casa, mezzi di trasporto e altro, di maggiori dimensioni per soddisfare le esigenze dell’accresciuto nucleo familiare; (iv) potenziale riduzione prospettica delle entrate, dovute alla perdita di opportunità di carriera negli anni del maggiore impegno richiesto dalle creature.
In qualità di genitori gli individui sembrano sacrificare la sfera del tempo libero e delle relazioni amicali
Ma è tutto qui? Davvero non si fanno figli essenzialmente per ragioni di soldi? Oppure si tratta di un riduzionismo interpretativo che andrebbe superato – e magari in primis dal sistema della comunicazione (e poi dai politici?)? I risultati di una recente indagine condotta dal nostro Istituto, nell’ambito di quella ponderosa riflessione sul paese che è Rapporto Italia, suggeriscono di focalizzare l’attenzione sul concetto di “impoverimento”, dandogli, però, una prospettiva di senso ben più ampia. In altre parole, i risultati dell’indagine Eurispes evidenziano che fare figli impoverisce, ma non solo nel senso di svuotare il portafoglio. In qualità di genitori gli individui sembrano sacrificare, infatti, la sfera del tempo libero e delle relazioni amicali, la cura personale e il mantenimento di un equilibrio nel rapporto di coppia. Ad impoverirsi, insomma, sarebbe la dimensione sociale dell’io, il suo spessore, la sua solidità e sostenibilità nel tempo. Nulla veramente di nuovo – si penserà – non foss’altro che gli studi di sociologia hanno esplorato in lungo e in largo il fenomeno della genitorialità – mi sembra con una certa propensione (forse naturale) a mettere soprattutto in evidenza l’amplificazione delle disparità di genere che la condizione inneschi e, più in generale, i molti patimenti delle madri (pater, come noto, non solo incertus ma anche neglectus est).
Denatalità, una narrazione innanzitutto squilibrata sul piano concettuale
Ciò che a una persona di formazione economica salta agli occhi, però, non è questo, e nemmeno la pretesa di spiegare col denaro un fenomeno complesso come la denatalità. Ciò che salta agli occhi è la parzialità della lettura del fenomeno, che conduce a una valutazione squilibrata. L’analisi economica, infatti, si svolge sempre su un duplice binario parallelo, costituito dagli oneri, da un lato e dai benefici, dall’altro. Un costo, cioè, non è elevato né basso se non in relazione ai proventi alla cui generazione è destinato. Spiegare una scelta (fare figli o meno) solo sulla base dei suoi costi (i maggiori oneri a carico della coppia) e non dei benefici connessi (l’arricchimento della vita familiare, il completamento esistenziale della persona, l’investimento per il proprio futuro) è, nella prospettiva dell’economista, semplicemente errato – sul piano concettuale, non valoriale.
Per invertire la rotta bisogna smettere di rappresentare i figli in chiave di impoverimento economico
Ma non è tutto qui. Gli economisti sono avvezzi al concetto di self-fulfilling prophecy ovvero, a quel fenomeno per cui le credenze o le aspettative di una persona su di sé stessa o sugli altri possano influenzarne il comportamento, in modo che le previsioni iniziali diventino realtà. In altre parole, ciò che ci aspettiamo o crediamo su una situazione, può influenzare il modo in cui agiamo, portando a una conferma proprio delle nostre aspettative iniziali. E allora viene il dubbio che, a forza di rappresentare la scelta di fare figli solo nella sua dimensione di “impoverimento”, si inneschino le condizioni favorevoli al perpetuarsi e diffondersi proprio di quel comportamento – il non fare figli – che con la sua analisi, in ultima istanza, si vorrebbe curare. Insomma, per farla semplice, viene da farsi una domanda: non è che un primo passo per contrastare la denatalità e invertire questa triste tendenza, possa essere quello di smettere di rappresentarla e descriverla soprattutto in negativo? I figli, gente, sono meravigliosi – e pure divertenti (e poi ci pagheranno la pensione, no?).
*Alberto Mattiacci, Presidente del Comitato Scientifico dell’Eurispes.