Insularità e perifericità: costi e correttivi nell’intervista al Prof. Francesco Pigliaru

insularità

Nel dibattito dedicato al tema dell’insularità per l’Osservatorio sull’insularità dell’Istituto Eurispes, pubblichiamo l’intervista al Prof. Francesco Pigliaru, Ordinario di Economia Politica all’Università di Cagliari. Nel dialogo col Prof. Pigliaru emerge una diversificazione delle caratteristiche legate all’insularità come di “prima natura” e di “seconda natura”. Sono problematiche legate alla geografia, e quindi immutabili nel primo caso, e di condizioni politiche, economiche e sociali del territorio nel secondo caso, dunque modificabili attraverso l’azione umana. 

«Bad geography cannot be overcome, whereas the condition of isolation can». Lo ha affermato nel suo studio “Insularity and economies of density: analyzing the efficiency of a logistic network using an econometric simulation-based approach” (co-autori L. Cocco, M. Deidda, M. Marchesi). Che cosa intende? Significa che la condizione insulare può trovare correttivi? Si tratta di compensazioni economiche o che cos’altro?

Questa domanda è particolarmente importante perché spesso si fa confusione nell’analizzare conseguenze e costi dell’insularità, con una tendenza diffusa a chiedere generiche “compensazioni”. Nella geografia economica, si usano i concetti di “prima natura” e “seconda natura”, che aiutano a evitare quelle confusioni. La “Prima Natura” (PN) si riferisce alle caratteristiche geografiche naturali di un luogo. La distanza geografica di un’isola dal “continente” è ovviamente una caratteristica di “prima natura” di ogni isola. La “Seconda Natura” (SN) si riferisce ai modi in cui le condizioni iniziali di un luogo sono modificate dall’azione umana, per esempio dalle politiche pubbliche adottate. Queste includono infrastrutture (come strade, ponti, porti), sviluppo urbano, confini politici e aspetti culturali che sono stati sviluppati nel tempo attraverso l’intervento umano. Gli elementi della seconda natura influenzano ulteriormente le attività economiche, comprese le decisioni di localizzazione delle imprese e altri importanti fattori di sviluppo di un territorio. Ora, le condizioni della PN non sono modificabili, quelle della SN sì. Non si può avvicinare un’isola al continente, ma è possibile organizzare mezzi di trasporto per rendere i collegamenti il più simile possibile a quelli dei territori non insulari. Questa distinzione non è banale come sembra.

Il costo dell’insularità: lo hanno stimato alcuni istituti di ricerca per la Sicilia e la Sardegna. Lei condivide la loro analisi? Oppure essa potrebbe essere aggiornata ed eventualmente integrata con altri fattori e considerazioni?

Molte analisi confondono i due livelli di cui dicevo prima. Per esempio, si attribuiscono all’insularità problemi che sono presenti anche in regioni non insulari. Prendiamo la disoccupazione: le cause sono ovviamente molte. Un problema noto è, per esempio, la carenza di capitale umano, che rende poco competitivo sia chi cerca lavoro sia chi vuol fare impresa. È un problema irrisolvibile, di PN, per il quale è giusto chiedere compensazioni? O è un problema di SN, risolvibile attraverso politiche migliori di quelle adottate in precedenza? La risposta è ovvia: è un problema di SN, risolvibile nel merito: si studiano le politiche adatte e le si adottano. Non ci sono compensazioni da chiedere, ci sono politiche di qualità, precisamente definite, da pretendere. Tuttavia, nell’insularità esistono anche i problemi associati alla PN. Un esempio è stato analizzato nel lavoro citato. Lo sviluppo economico è basato anche su ciò che l’economista Thomas J. Holmes ha chiamato “economie di densità”. Nel nostro lavoro dimostriamo che economie di densità definiscono uno svantaggio specifico associato alla PN delle isole. Un esempio è questo. La capacità di essere innovativi in una regione piccola dipende anche dalla frequenza di scambi di idee ed esperienze con aree circostanti. La PN di una regione come l’Umbria è da questo punto di vista diversa e certamente più capace di quella sarda di favorire questa “densità” di scambi che a sua volta favorisce lo sviluppo economico. La SN può consentire notevoli miglioramenti nei trasporti da e verso un’isola, ma non può colmare interamente questa differenza dovuta a condizioni geografiche immutabili. La conseguenza è questa, per semplificare. Bisogna elencare con la massima precisione gli interventi, le politiche che possono risolvere i problemi che non sono di “prima natura”. Se la formazione professionale non funziona, o se i treni sono un disastro, non ha senso chiedere una compensazione generica, ha senso chiedere politiche efficaci. Ma anche quando tutti i problemi affrontabili con politiche pubbliche adeguate sono stati risolti, rimangono i problemi legati alla PN. Il fatto che essi non siano risolvibili con politiche specifiche non significa che non debbano essere individuati e misurati con la massima precisione. È una cosa che può essere fatta, ed è quello che abbiamo cercato di dimostrare con il nostro articolo, a mo’ di esempio. Solo dopo un lavoro rigoroso di questo tipo si possono pretendere con serietà compensazioni adeguate. Compensazioni giustificate dal fatto che in quei casi appunto non esistono interventi specifici in grado di ridurre gli svantaggi economici generati dai problemi individuati.

Ritiene che i modelli di Continuità territoriale (CT) adottati in Italia siano soddisfacenti? Nel caso, quali correttivi apportare?

Penso siano del tutto insoddisfacente. Ne ho scritto recentemente e rimando chi è interessato a quell’articolo per una analisi approfondita del problema. Qui sintetizzo i punti principali. L’attuale modello sardo di CT è il risultato di un faticoso accordo tra la giunta Solinas e la Commissione Europea (CE). Ne è venuto fuori un pasticcio. La CT funziona così. Si sottraggono alcune rotte “strategiche” al libero mercato (ad esempio, Cagliari-Linate) e le si assegnano alle compagnie che vincono un bando concordato tra Regione e CE. Il bando definisce frequenze e orario per ogni singola rotta, e impone prezzi massimi da far pagare ai passeggeri. Siccome questi prezzi sono per definizione inferiori ai prezzi “industriali”, la Regione integra il bando offrendo un sussidio che copre la differenza. Le compagnie che prevalgono ottengono una concessione temporanea di monopolio sulle rotte che si aggiudicano.

I problemi nascono quando si tratta di definire le condizioni per i passeggeri non residenti. Mentre la tariffa per i residenti è “calmierata” dal bando, quella per i non residenti è decisa liberamente, senza vincoli, dalle compagnie che hanno ottenuto il monopolio delle singole tratte. È la prima volta che la Regione accetta una regola così punitiva per una categoria di viaggiatori essenziale per l’economia della Sardegna. L’idea alla base di una regola così rigida voluta dalla CE è che quel prezzo deve determinarlo il “libero mercato”. Cosa ragionevole nelle situazioni in cui c’è un alto livello di concorrenza, condizione che non è soddisfatta nel caso delle isole. In più non si capisce proprio come il meccanismo del libero mercato potrebbe funzionare nel contesto normativo definito dalla CT. Le compagnie a cui sono state assegnate le rotte in esclusiva hanno enormi margini per imporre prezzi alti senza doversi preoccupare troppo della reazione dei concorrenti: i pochi vettori che operano in Sardegna sono obbligati a competere da una posizione sfavorevole.

Dunque, l’attuale CT consente che l’onere delle tariffe basse che si applicano ai residenti venga scaricato su chi viene in Sardegna per turismo o lavoro, con tariffe che raggiungono i livelli assurdi di cui spesso leggiamo nelle prime pagine dei nostri quotidiani. “È il libero mercato”, dice qualcuno. Sbagliato: è la conseguenza del “monopolio non vincolato” creato da un modello incoerente di CT. E quando si crea per legge una “posizione dominante” e poi non si dettano le regole per limitare la libertà di decidere i prezzi da parte di chi ricopre quella posizione, il rischio è di favorire abusi di posizione dominante che mirano a ingrossare i profitti a tutto svantaggio dei consumatori. Una situazione che nessun principio economico consolidato, tra quelli ai quali la CE dice di ispirarsi, potrebbe mai giustificare. Una situazione imposta in nome dei principi dell’economia di mercato che in realtà viola platealmente.

Gli accordi da Lei siglati con altre isole del Mediterraneo che ricadute hanno generato? Potrebbero essere eventualmente ripresi, estesi e rafforzati?

Baleari, Corsica e Sardegna hanno lavorato a lungo e bene per individuare le carenze della normativa UE sugli aiuti di stati in tema di diritto alla mobilità e all’accessibilità delle regioni insulari. La collaborazione ha prodotto documenti importanti, approvati sia dal Comitato europeo delle regioni che dal Parlamento europeo, documenti pieni di proposte dettagliate su come migliorare l’attuale normativa. L’esperienza di collaborazione è stata non solo molto bella ma anche molto importante. Non credo che le cose potranno mai cambiare senza una forte azione coordinata tra le isole maggiori del Mediterraneo. Sono loro che devono imporre ai propri governi nazionali di attivarsi a sostegno di questa importante battaglia a Bruxelles. E in più, solo loro possono garantire che i singoli governi nazionali si muovano insieme, su una piattaforma condivisa e perciò più forte, sia tecnicamente che politicamente, di fronte alla Commissione Europea.

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