Le isole rappresentano un’entità non solo economica, come affermato dal ritrovato “principio di insularità” nella nostra Costituzione. Le isole sono luoghi isolati per condizioni geomorfologiche, che implicano limitazioni anche sul piano economico e sociale. Anche storicamente ciò ha plasmato l’immaginario sia a livello sociologico che culturale, ma si va affermando la volontà di creare, attraverso le isole, ponti e non muri con le sponde opposte del Mare Nostrum. Nello spazio della nostra rivista online curato dall’Osservatorio Eurispes sull’Insularità ed aree interne, l’intervista al Prof. Orazio Licciardello, Ordinario di Psicologia Sociale, presso l’Università di Catania, un excursus storico-sociale in merito a un territorio dove vivono circa 7 milioni di italiani.
Nel suo contributo “Insularità come dato e come costrutto: ricadute
psico-sociali”, lei distingue fra insularità e isolanità. Che differenze individua? E quale termine si attaglia meglio a chi abita le isole?
Si tratta di una distinzione rintracciabile nella letteratura specialistica. In generale, secondo quanto emerge dal dibattito tra gli studiosi che hanno trattato la questione, potremmo definire “isolanità” come una sorta di “dato di fatto”, relativo all’isolamento derivante dagli aspetti geomorfologici ed alle solitamente conseguenti limitazioni economico-sociali. Il concetto di “insularità” è più complesso poiché investe i processi psicosociali che nel loro insieme concorrono alla costruzione: 1) sia delle dimensioni identitarie, ovvero dell’Identità personale (relativa ai vissuti individualmente soggettivi) e dell’Identità sociale (relativa al senso ed al significato dell’appartenenza al gruppo, in termini di consapevolezza e di investimento simbolico ed emozionale); 2) sia delle rappresentazioni sociali, che sono alla base delle prese di posizione (come atteggiamenti) e dell’agire (come comportamenti) che ne possono derivare con riguardo alla prassi del quotidiano ed alla progettualità di vita, spesso immaginata (seppure con molte ambivalenze) in un “altrove” percepito come più funzionale al proprio futuro rispetto al contesto di vita nel quale ci si è formati (con le conseguenziali ricadute in termini di impegno per lo sviluppo dello stesso e nell’interpretazione della “Cittadinanza attiva”. Tuttavia, atteso che si tratta dimensioni di natura psico-sociale, occorre evitare il rischio di generalizzare – non è detto che tutti gli isolani ne partecipino alla stessa maniera ed in egual misura – e soprattutto di “reificare”, ovvero di considerarli come qualcosa di fatalisticamente immutabile: per quanto profonde e stratificate nel tempo possano essere le specifiche radici nella storia e nella cultura, non va dimenticato che si tratta, appunto, di processi (e condizioni) che è possibile modificare attraverso interventi adeguati.
Nella nostra Costituzione è stato reintrodotto il cosiddetto “principio di insularità”. Che ricadute sociali può generare?
Direi che (come già per l’Autonomia) si tratta di un’opportunità potenziale, le cui valenze, però, dipendono dal fatto che venga percepita come tale e che ci si adoperi per utilizzarla al meglio. Non si tratta, ad esempio, solamente di ottenere maggiori risorse economiche, che pur sono importanti e necessarie, ma va considerata la destinazione delle stesse in termini di funzionalità ai fini dello sviluppo economico-sociale, il modo in cui vengono spese, i tempi per la realizzazione degli obiettivi, la qualità di ciò che è stato prodotto, etc.
Nel Manifesto delle isole del Mediterraneo Occidentale (1995) si parla di un “ponte naturale tra le due rive del Mediterraneo”. Le isole sono dunque luoghi di incontro tra culture? E come possono esprimere al meglio questa loro caratteristica? Possono divenire, ad esempio, luoghi di sperimentazione linguistica, artistica e culturale?
Il ruolo delle Isole, soprattutto le maggiori, come “ponte naturale tra le due rive del Mediterraneo” può costituire un tassello fondamentale per concorrere alla realizzazione di un possibile futuro di cooperazione e sviluppo economico e sociale di tutta l’area Euro-Mediterranea. Tale ruolo può contribuire agli obiettivi, sino ad ora mancati, del progetto “Barcellona 2010”, in relazione al quale l’Europa ha investito notevoli risorse economiche, ipotizzando che la costruzione di un’area di libero scambio potesse risultare funzionale alla costruzione di un avvenire di pace e cooperazione. Nel merito, appare importante approfondire alcune questioni ancora aperte e che vanno risolte, per evitare che le stesse, come già per Barcellona 2010, possano diventare ostative rispetto al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
In base alla loro collocazione sulle rotte nautiche, le isole del Mediterraneo nel corso dei millenni sono state e sono luogo di incontro tra culture, il cui lascito costituisce un patrimonio culturale di inestimabile valore, ma si è trattato spesso di scontri anche cruenti, magari lungamente protratti nel tempo e dagli effetti complessi e non univoci, dei quali probabilmente risentiamo ancora oggi: ad esempio, le interpretazioni sottese al “Mare Nostrum” di romana memoria, le scorrerie barbaresche, gli approcci culturali fortemente razzisti connessi alle politiche coloniali italiane (Gabriele d’Annunzio esplicitamente de-umanizza i popoli aggrediti, incitando alla loro eliminazione fisica) e soprattutto francesi, dall’altra, (cfr. ad es., “La psychiatrie coloniale française en Algérie et au Sénégal”), è probabile che abbiano lasciato segni profondi alla base di possibili riserve relative alla rappresentazione di un futuro di pace e cooperazione tra i popoli nordafricani ed europei.
I popoli del Mediterraneo presentano similarità e differenze, di natura culturale (usi e costumi) e psico-sociali (sistemi valoriali, identità, pregiudizi e stereotipi) che occorre considerare, esplorandoli a fondo e individuando le modalità più adeguate per creare le condizioni maggiormente adatte alla compatibilità. In tale quadro, le Isole possono certamente divenire luoghi di sperimentazione (linguistica, culturale artistica, etc.) ai fini di favorire la civile convivenza e, in tal senso, qualcosa è stato anche fatto, occorre tuttavia avviare dei progetti di tipo sistematico e di lunga durata partendo da ciò che accomuna, per costruire sulle similarità, e individuare le ragioni delle differenze, per comprendere come renderle compatibili con la civile e pacifica convivenza.
Come vede il crescente spopolamento di molte isole? Qualcuno pensa agli immigrati come bacino da cui attingere per ripopolarle, Le sembra una buona idea?
Lo spopolamento delle isole è un problema che occorre affrontare alla radice per evitare la desertificazione delle stesse. Prima ancora degli interventi di natura economica e strutturale, ovviamente importanti, e per evitare il fallimento degli stessi, è indispensabile avviare progetti educativi, in senso lato, mirati a cambiare quella sorta di fatalismo profondamente istituito nella cultura, ad esempio della Sicilia (ma non solo) che indirizza le giovani generazioni verso le scelte migratorie, impoverendo i loro contesti di vita, invece che focalizzare le loro energie verso la valorizzazione di quanto le isole offrono. Gli immigrati possono costituire una risorsa importante e, peraltro in alcune isole costituiscono già una discreta parte della popolazione residente (in alcune città della Sicilia sono quasi più numerosi dei nativi). Credo, però, che non si tratti tanto di pensare a loro come sostituti degli isolani che scelgono a loro volta la via dell’emigrazione, quanto di creare le condizioni economico-sociali perché i giovani possano costruire in loco il loro futuro invece di sentirsi costretti a farlo altrove.