Scuola, più fondi e voglia di futuro: intervista a Ivana Calabrese

Sul tema dell’Istruzione in Italia, oggetto di studio e indagine del recente Secondo Rapporto su Scuola e Università dell’Eurispes, pubblichiamo l’intervista a Ivana Calabrese, Changemaker per Ashoka, una organizzazione internazionale finalizzata alla mappatura degli innovatori sociali e presente da 40 anni in oltre 90 paesi. Con Ivana Calabrese parliamo di fondi e innovazione, del ruolo fondamentale degli insegnanti nel processo educativo ma dei numerosi ostacoli che si trovano ad affrontare in un sistema con troppe lacune e ritardi.

Per quale ragione la “dissennata” politica dei tagli sembra avere sempre come maggiore bersaglio proprio la scuola da cui dipende il nostro futuro?

Secondo l’Istat, nel 2021 la spesa pubblica per l’istruzione in Italia rappresentava il 4,1% del Pil, contro una media Ue del 4,9%. Esiti che non sorprendono più in un Paese ormai abituato al ruolo di fanalino di coda delle classifiche europee, avvezzo ad accaparrarsi quasi con prepotenza le ultime posizioni per poi custodirle gelosamente nel tempo. Allora grazie Italia, perché semplifichi la vita di chi studiando abitualmente le classifiche sa già di trovarti fissa in basso. Il perché dei tagli continui? Se fossi una delirante ottimista potrei raccontarle che la ratio dei tagli all’istruzione è sapientemente ispirata alle euristiche cognitive, che utilizzano scorciatoie di pensiero utili a rendere sostenibile l’impegno mentale: siccome gli esseri umani hanno risorse mentali finite, ridurre gli investimenti è una mossa che rispecchia e rispetta la loro natura di creature dall’intelletto limitato. Messo da parte il “sarcasmo isterico”, la vera risposta è che la scuola non è una priorità politica. Certamente non si presta alla strategia della preservazione della poltrona che dura da oggi a domani. La scuola non porta voti. È un’industria di cultura (prodotto che segue tempi di fabbricazione lenti e poco remunerativi in termini elettorali) la cui clientela è in larga parte minorenne, non può votare, non dà ritorno agli investimenti del governo di turno. Gli studenti restano invisibili anche dopo la maggiore età, come nel caso degli universitari ai tempi del Covid e non solo.

Rivolgendo lo sguardo alle passate riforme dell’istruzione, quali sono stati, a suo giudizio, i passaggi più rilevanti?

Mi chiedo che aspetto avrebbe avuto la scuola italiana se fossero passati i progetti di legge del ’59 dei ministri Donini e Luporini, con una scuola media unica dai 6 ai 14 anni. Saltando al Duemila, i primi passaggi fondamentali sono stati l’obbligatorietà fino ai sedici anni e l’introduzione delle lauree triennali e specialistiche. Fortunatamente non ho subìto la tagliente Riforma Gelmini del 2008, perché il maestro unico alle elementari mi avrebbe privata degli insegnanti migliori (e forse più determinanti per il futuro) che abbia mai incontrato lungo il percorso. Io e i miei compagni di liceo, classe ’99, siamo stati i primi delle superiori a sperimentare l’alternanza scuola-lavoro della Buona Scuola (2015). Quella che (spero) venne concepita come iniziativa per «consolidare le conoscenze acquisite a scuola e testare sul campo le attitudini di studentesse e studenti» è ricaduta su di noi come un’inutile e pesante obbligazione senza grandi fini, metodi o contenuti. Un’esperienza curriculare sostanzialmente imposta e con implicazioni successive estremamente limitate. A posteriori la vedo come l’ennesima trovata per costringere i giovani al lavoro gratuito, prestarli alle richieste più varie e insensate dei datori di lavoro che dimenticano la parola “formazione” e acquisiscono personale gratis. Non di certo un bene in un Paese in cui dopo svariate qualifiche, certificazioni ed esperienze, ti propongono tirocini non retribuiti, periodi di prova, stage e apprendistati anche a 25 anni. Il confronto con una dignitosa assunzione entry-level all’estero non regge, da qui è subito “fuga dei cervelli”. Concedo il beneficio del dubbio al valore della Buona Scuola perché, ripeto, sono stata tra i pionieri dell’alternanza scuola-lavoro, per di più in un liceo scientifico. Magari gli studenti che ci sono arrivati dopo, sono stati più fortunati (e soprattutto più formati) di me.

L’autonomia scolastica ha segnato un innegabile cambio di passo. È stata un bene o un male alla luce della sua recente esperienza?

Sono nata nel 1999, un anno prima della sua entrata in vigore. Oggi lavoro con la voce, mi esprimo solo quando sento di avere voce in capitolo e so fare una cosa meravigliosa di cui nel 2023 si è sempre meno capaci (complice anche qui un sistema educativo inadeguato?): se non conosco, non parlo. Ascolto chi ne sa più di me.

Quali sono, a suo avviso, i fattori che influiscono maggiormente sull’apprendimento e, più in generale, sui risultati positivi e negativi degli alunni?

Continuo a pensare che un clima di sfida, stimoli e meritocrazia, un buon insegnante, uniti alla fondamentale motivazione nell’apprendimento da parte del singolo, siano fattori determinanti per incentivare risultati positivi nella formazione. Quando parlo di sfida non mi riferisco alla competitività dei ranking accademici o alla competizione tra studenti, ma alla difficoltà di concetti estranei che si trasforma in chiarezza. È sfidante la capacità di porsi domande, la percezione di utilità del sapere acquisito, la sensazione di aver superato un gradino e di trovarsi in un intorno in cui ciò che si impara può essere applicato.

Penso che il buon insegnante possa fare miracoli anche nelle situazioni più difficili, spalancare le prospettive di una comunità e instillare la fiamma della curiosità anche nell’alunno meno entusiasta. Sarà forse una conclusione viziata induttivamente dall’esperienza, ma credo molto nella logica della persona giusta al posto giusto. Peccato che la logica più vicina alla realtà sia spesso quella della persona stanca nel posto di riposo, considerata l’età media dei nostri insegnanti, la loro iper-burocratizzazione e la tortuosità dell’iter che devono seguire i più giovani per l’inserimento. Incidono negativamente le sterili trattazioni nozionistiche, novelle metodologie ispirate all’infotainment nella speranza di oscurare vuoti sostanziali, programmi e docenti complici della mediocrità che sopprimono il valore dell’impegno, genitori immaturi che giocano a fare i nemici degli insegnanti.

Uno dei punti cruciali del dibattito sul sistema dell’istruzione nel nostro Paese è quello relativo alla formazione dei docenti scolastici e universitari. È possibile che non si riesca a mettere in campo un modello di sistema che non basi la qualità dell’offerta formativa unicamente sulla capacità e la buona volontà del singolo docente?

Come accennavo, credo molto nell’insegnante come fattore cruciale della qualità dell’istruzione. L’insegnante è l’immediata personificazione della scuola di fronte agli studenti a partire dai primi passi che muovono nell’apprendimento quando sono bambini. Può essere la salvezza o la sciagura di intere classi a seconda che sia più o meno competente e motivato. Negarlo significa avere un contatto con la realtà a dir poco approssimativo. Da qui a investire il singolo insegnante di responsabilità e doti salvifiche passano fiumi. Membro di una categoria precaria e sottopagata, il buon docente da solo non può fare miracoli di fronte a carenze strutturali, tagli alla spesa e un progressivo declino sociale in termini morali e valoriali. Certo è che può però arginare l’effetto domino, evitando che i suoi alunni risentano di conseguenze negative smisurate e destinate a propagarsi tra le generazioni. In che modo? Preparando una bella lezione ogni giorno e scaricando le sue legittime frustrazioni su chi può effettivamente assorbirle. Sono molto grata a chi affronta il suo ruolo responsabilmente, devo tanto ai docenti che sedevano in cattedra con competenza ed entusiasmo.

Si parla spesso della necessità di ridurre il divario Nord/Sud anche nel campo della formazione. Non si tratta però solo di una profonda differenza geografica, ma di qualcosa di più complesso e articolato, che riguarda il centro e la periferia, i quartieri, i contesti urbani ed extraurbani, la sfera pubblica e la sfera privata, persino i modelli di vita adottati. Cosa si può e si deve fare per “ricucire” un Paese troppo frammentato come il nostro?

Il divario Nord/Sud persisterà in tutte le sue dimensioni finché al Sud resteranno dei complici compiacenti. In troppi sono ormai così abituati ad accettare la loro cittadinanza italiana “di serie B”, quasi come se esistesse una netta linea di separazione da Roma in giù, che il divario evidente non lo percepiscono, salvo che qualcuno glielo ricordi. Perciò qualsiasi ulteriore disservizio, problema, lacuna diventa presumibile e non desta scalpore. La verità è che si possono fare mille proposte per “ricucire” i frammenti dispersi di territori marginali, mi viene in mente la SNAI (Strategia Nazionale per le Aree Interne). Ma fino a quando i rappresentanti (e cittadini) meridionali continueranno ad aspettare speranzosi che qualcuno li salvi dall’alto, ignorando gli spettri dello spopolamento e dell’arretratezza con cui convivono da tempo, per il Sud non ci sarà nessun miglioramento reale. Un contesto sofferente e in emergenza si adopera per salvarsi da solo, a partire dalla spinta propulsiva della sua educazione. Il Sud continua a precludersi opportunità estremamente accessibili e dimostrarsi respingente rispetto ai suoi talenti migliori.

Faccio un piccolo esempio: molti centri a Sud disconoscono l’importanza di un luogo essenziale come la biblioteca, che può tranquillamente restare chiusa per anni senza che nessuno se ne accorga. Un centro di poche anime in Veneto ha protestato contro voci di una presunta chiusura della sua biblioteca, efficacemente impedita anche solo nella fantasia dei locali. Al Sud manca un po’ di sana indignazione rispetto alle barbarie che subisce e occasiona. Manca l’autocritica di fronte alle opportunità di intervento che, se ben pianificate, passano necessariamente attraverso una preliminare analisi dei problemi esistenti. Mancano reazioni sensate, intellettualmente oneste, quando si evidenziano le criticità: il campanilismo autocelebrativo non ripaga. Dico tutto questo nel modo più imparziale e obiettivo possibile, con gli occhi di una ricercatrice. Mi creda, sono meridionale. Le “aree rurali”, “sottosviluppate”, “svantaggiate”, per usare il lessico dei bandi europei, godono sempre di un’attenzione maggiore nell’allocazione dei finanziamenti disponibili. Purtroppo però un contesto territoriale e socio-economico non si riabilita scaricandoci sopra montagne di soldi. Non lo dico io, ma gli studi sugli ecosistemi dell’innovazione, secondo cui la crescita di un’area passa attraverso lo sviluppo delle interazioni tra gli attori presenti (scuola, imprese, politica e società civile) nelle date condizioni di contesto (“sistemiche”). In quest’ambito, il modello di misurazione dello sviluppo ecosistemico di Cukier e Kon (2018) considera la “disponibilità finanziaria” come un fattore “non essenziale” per gli esiti delle rilevazioni di qualità e funzionamento. Significa che, tutto sommato, il benessere evolutivo di un contesto territoriale non dipende essenzialmente da quanti soldi ci sono. Sono invece “essenziali” fattori come la presenza di Università e startup, la creazione di eventi di networking, la mentalità imprenditoriale, l’apertura internazionale, la disponibilità di dati e ricerche, la permanenza di mentori sul territorio (“ecosystem generations”).

In che misura ed in che modo, dobbiamo preparaci ai cambiamenti demografici? Si tratta di un fattore che a suo giudizio inciderà sul sistema scolastico italiano?

Il fenomeno migratorio procede in entrata e in uscita dal Paese. Temo che questa domanda abbia bisogno di un’indagine autonoma, qui posso solo riconoscere che indubbiamente questo avrà ricadute sulla scuola. Le classi sono sempre più eterogenee e ciò comporta da un lato ricchezza e pluralità, dall’altro maggiori difficoltà linguistiche e frammentazione disciplinare, in un’Italia che ancora non mastica bene le lingue straniere e sembra far fatica addirittura con la propria, visti gli alti tassi di analfabetismo funzionale e il progressivo impoverimento lessicale a cui stiamo assistendo.

La scuola primaria e secondaria di primo grado sono adeguate per strutture e qualità formativa a fornire basi solide nelle diverse discipline per preparare gli alunni a compiere il “salto” alle scuole superiori? Le superiori, a loro volta, preparano gli allievi per l’Università?

Nutro dubbi maggiori sull’anello di congiunzione: la scuola secondaria di primo grado o “scuola media”. È quella che ritengo più visibilmente inadeguata per diversi motivi, strutturali e congiunturali. Strutturali perché non credo abbia una solida impalcatura formativa vigorosamente autonoma e distinta dalle elementari e dalle superiori. Nel mio caso, ad esempio, i programmi delle medie sono stati solo un gran rimpasto delle elementari, con avanzamenti deboli e incerti di natura puramente anticipatoria. Congiunturali perché la scuola secondaria di primo grado corrisponde alla pre-adolescenza, una delle fasi più delicate e confuse della crescita di un giovane. Una transizione di tre anni in cui le trasformazioni fisiche, emotive, identitarie e cognitive ti rendono la persona meno adatta a capire quale scelta, spendibile nei futuri cinque anni, possa avvicinarti all’adulto che pensi di voler essere. Non mi sorprende che in Francia la scuola media non esista, sostituita piuttosto dal Collège quadriennale per ragazzi dagli 11 ai 15 anni. Ho un ricordo di me a 13 anni come una bimba sicura di amare le lingue straniere, ma dubbiosa su quanto volerci lavorare da grande. Anche per questo alle superiori scelsi il liceo scientifico, per assicurarmi la conoscenza di discipline che mi sembravano meno interessanti, quindi più esposte al rischio di “lacune” successive. Banalmente, confidavo che se un domani avessi voluto imparare una nuova lingua l’avrei fatto anche da sola, ma per fisica e chimica questo discorso suonava più falso delle promesse di voto agli italiani fuorisede. Ho una visione positiva delle superiori. Sono arrivata alla scelta dell’Università con la certezza di poter intraprendere qualsiasi percorso senza problemi e la storia ha dato ragione alle mie intuizioni adolescenziali: lo spagnolo l’ho imparato da sola, i composti chimici li riconosco solo grazie alle memorie del liceo.

La nota dolente è la persistente mancanza di innovatività e praticità nelle scuole, una continua chiusura rispetto al mondo. A qualsiasi livello, nella scuola dell’obbligo italiana ho sempre dovuto sgomitare da sola per trovare àmbiti di sperimentazione reali delle “competenze professionalizzanti”. Per diventare più capace ho attivamente cercato, per conto mio, alternative pratiche tenute rigorosamente lontane dalle aule. Con il volontariato ho imparato a organizzare eventi, presentare progetti, addirittura scrivere per bandi europei e gestire fondi. Ma quando ne parlavo in classe o chiedevo di appendere volantini per nuove iniziative, mi accorgevo che molti docenti pensavano che stessi “perdendo tempo”. Opinione che nutrivano anche per le attività extracurriculari offerte dagli Istituti stessi.

L’Italia si segnala per elevati tassi di abbandono e di dispersione scolastica. Quali sono le principali cause del fenomeno, quali le strategie più urgenti da adottare?

Penso che la radice del problema sia una questione intima: la mancanza di fiducia nel valore dell’istruzione da parte dello studente e/o della sua famiglia. Nel 2023 chi abbandona di sua iniziativa (e non per cause di forza maggiore), lo fa perché tutto sommato non pensa che la scuola sia poi così importante nella vita. Già 40 anni fa, il giornalista Jesús Quintero diceva che gli analfabeti di oggi sono i peggiori, perché nella maggior parte dei casi hanno avuto accesso all’educazione, sanno leggere e scrivere ma non “esercitano” (il pensiero). «Ogni giorno aumentano e ogni giorno il mercato si occupa di più di loro e pensa di più a loro. La televisione diventa sempre più su misura per loro, fa a gara nell’offrire programmi pensati per persone che non leggono, che non capiscono, che non si interessano di cultura, che vogliono essere intrattenute o distratte».

Ho sentito eserciti di adulti difendere l’abbandono scolastico con la frase di rito “non è il pezzo di carta che dimostra la cultura di una persona”, ripetuta poi dagli studenti latitanti secondo necessità. Condivido che la qualifica in sé non sia garanzia di cultura e capacità, ma non serve una laurea per smascherare argomentazioni visibilmente instabili. Propagandare la svalutazione del titolo di studio in difesa propria è ridicolo, come l’atteggiamento dell’italiano medio che, interpellato sulle criticità del Paese, si affida agli stereotipi “buon cibo, bel mare, bei monumenti” per uscirne illeso. Perciò cerchiamo innanzitutto di veicolare messaggi più sani come società, senza giustificare il qualunquismo buonista di certe esternazioni avvilenti.

 

 

Come giudica impatti e conseguenze relative all’uso delle tecnologie nel sistema scolastico?

Stiamo assistendo ad avanzamenti tecnologici sorprendenti che si susseguono a ritmi vertiginosi: basti pensare all’AI. Inevitabilmente qualsiasi àmbito ne sarà impattato, istruzione compresa. L’Italia non ha mai brillato nella digitalizzazione, a scuola l’iniziativa più avventurosa nel settore era il conseguimento (opzionale e a prezzi agevolati) dell’ECDL, la patente europea del computer. Da nativa digitale ho sempre compilato la sezione “competenze digitali” del mio cv con un certo imbarazzo, pur non essendo tra i “principianti” meno attrezzati. Da studiosa del settore ho sincere preoccupazioni per l’impatto delle tecnologie come strumenti del cyberwarfare contemporaneo su cittadini impreparati a riconoscerne l’uso distorto. Un esempio è la disinformazione online. Non so quanto l’utente, che magari fa fatica anche nella comprensione del testo, sia oggi in grado di smascherare un deepfake. Ai tempi della DAD ero già in triennale, non credo sia stata un’esperienza trasformativa per gli Atenei considerando la quantità di seminari, conferenze e attività didattiche che si svolgevano da remoto. In più, le Università telematiche esistevano già da un po’. Lo è stata certamente per le scuole primarie e secondarie, per le quali ha imposto metodi nuovi e interazioni diverse tra docenti e discenti. Voglio sperare che abbia indotto i docenti a reinventarsi per mantenere vivo l’interesse degli studenti, i ragazzi a rivalutare l’importanza del contatto umano, della presenza fisica, quali elementi che il virtuale può supportare ma non soppiantare.

 

L’offerta universitaria del nostro sistema formativo le appare adeguata rispetto alle richieste del mercato del lavoro?

L’Università italiana è potenzialmente adatta alle richieste del mercato del lavoro, nel senso che in partenza si presta a una multidisciplinarietà propedeutica a un mercato sempre più esigente e desideroso di risorse multitasking. Le confesso che non apprezzo particolarmente l’idea di un’Università pensata per rispondere esattamente alle richieste del mondo del lavoro, in sé mutevoli e circostanziali. È tuttavia innegabile che nei fatti, l’Università italiana rimanga poco incline alla dimensione pratica, perciò lontana dallo sviluppo delle hard skills che sul campo fanno la differenza. Qualsiasi studente Erasmus lo confermerebbe. Mi sono sempre chiesta che senso avesse impostare quasi tutte le prove d’esame su domande di 8 libri da 500 pagine ognuno. Avrei preferito qualche libro in meno e progetti di gruppo o simulazioni empiriche in più che, contrariamente ai falsi miti, sono possibili anche in tutto il ramo umanistico. Quindi non mi stupisce chi, dopo il diploma, decide di cercare lavoro per maturare capacità concrete, non è una scelta che condivido ma certamente la comprendo. In tanti poi si iscrivono a un corso di laurea dopo aver fatto le prime esperienze lavorative.

Nell’istruzione superiore la classica dicotomia fra pubblico e privato si è arricchita di nuovi soggetti (academy aziendali, società di consulenza, business school, start up digitali, piattaforme educative globali, eccetera) allargando lo spettro dell’offerta formativa. In prospettiva, questo fenomeno potrebbe finire con lo spiazzare le Istituzioni tradizionali, a cominciare dall’Università pubblica? Con quali conseguenze?

Non credo minimamente a un epilogo tanto estremo. C’è in gioco una componente che va spesso a braccetto con l’autorevolezza, che è la storicità delle nostre Istituzioni accademiche. L’Italia ha tra le Università più antiche del mondo (Bologna, Padova, Napoli, ecc.) e sono certa che la loro longevità sia destinata a durare ancora, perché inevitabilmente influisce sui criteri di scelta dei nuovi iscritti. Senza contare che i nuovi soggetti di formazione, citati solitamente, propongono percorsi ben più specializzati rispetto a un tradizionale corso di laurea, sono dunque portatori di un sapere settoriale che si presta strumentalmente a specifiche esigenze di mercato e capitale umano. Suppongo che questi soggetti siano i derivati di quelle esigenze, mentre le vecchie Istituzioni hanno contribuito a generarle. Il “primato” delle Istituzioni tradizionali non è certamente immutabile, ma almeno nel medio periodo resterà indiscusso. Prevedo futuri rapporti in cui le nuove entità cercheranno collaborazioni e contaminazioni con le Università, un esempio è il già consolidato Contamination Lab presente in molti Atenei. Horizon Europe, il nostro più vasto programma europeo di ricerca e innovazione, procede già secondo logiche di “quadrupla elica” (modello di cooperazione tra istruzione, cittadini e attori economici e politici) e finanzia azioni in cui appare centrale la contaminazione tra Università, enti di ricerca e imprese verso nuovi “flussi del sapere”. Sto lavorando su un’azione che ha a che fare con soggetti relativamente nuovi come le vocational schools, tra cui ci sono i nostri ITS. L’auspicio è che si affermino metodi e sistemi di conoscenza condivisi, più integrati e adatti a ricucire il gap dell’innovatività tra i territori con il supporto di policies adeguate.

Quale sarà la principale sfida che la scuola italiana dovrà affrontare nei prossimi anni?

Le sfide future saranno tante, mi limito ad evidenziarne due. Complessivamente la scuola ha “i conti in sospeso” con sé stessa. Da un lato, rispetto al corpo docenti. È necessario riservare un trattamento un po’più dignitoso a chi fabbrica le strade del nostro futuro. Non mi riferisco tanto ai livelli stipendiali, tra i più bassi in Europa, quanto alla precarietà che aleggia attorno alla figura dell’insegnante o aspirante tale. Ho un’amica dall’impeccabile preparazione che ha capito di voler insegnare lettere da ragazzina. Oggi ne parla come di “qualcosa di estremamente difficile e demotivante”. Dopo le lauree ‒ racconta ‒ ha investito in certificazioni informatiche e linguistiche per aumentare il punteggio nelle GPS (Graduatorie Provinciali Supplenze). «Arrivato settembre 2023, in Gazzetta viene pubblicato l’avviso del Percorso Abilitante da 60 cfu, che comprende corsi con obbligo di frequenza, esami, tirocini non pagati, prova scritta e prova orale alla modica cifra di 2.500 euro. Ovviamente ciò non basta, ci sono il concorso e l’anno di prova». Dall’altro lato, ci sono gli studenti. Alla fine di percorsi lunghi e spesso, come detto, carenti sul versante della praticità, gli studenti si scontrano con possibilità di inserimento lavorativo esigue e poco attraenti. I soli 26 miliardi spesi dall’Italia in Ricerca e Sviluppo sono una cifra ridicola. Tempo fa, il Presidente Mattarella invitava a parlare di “circolazione dei talenti” anziché “fuga dei cervelli”, incoraggiando sforzi maggiori da parte del Sistema-Italia per far sì che gli studenti qualificati vedano il trasferimento all’estero come una scelta realmente libera, un’opzione, non uno sbocco necessario. Parole piene di buoni auspici, povere di riscontri visibili. Credo sarà necessario per il futuro adottare prospettive lucide e lungimiranti, che restituiscano all’istruzione la centralità che merita nella crescita del Paese.

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