La Scuola sia baluardo di conoscenza, tolleranza e spirito critico: intervista a Paolo Pagliaro

scuola italiana

La Scuola italiana del presente fa presagire sfide e opportunità per il futuro, nell’intervista a Paolo Pagliaro, Direttore agenzia giornalistica 9Colonne e autore televisivo. L’istruzione in Italia appare come un settore penalizzato nei bilanci dello Stato, che rischia un declino simile a quello della Sanità pubblica, ma che ha in sé molteplici risposte per il futuro. Tra queste, una maggiore attenzione agli Istituti professionali che forniscono competenze immediatamente spendibili nel mondo del lavoro, e che in Germania rappresentano un motore dell’economia.

Come valuta la spesa pubblica destinata all’istruzione in Italia? Per quale ragione la “dissennata” politica dei tagli sembra avere sempre come maggiore bersaglio proprio la scuola dalla quale dipende il nostro futuro?

L’ultima rilevazione Istat è relativa al 2021 e ci dice che in Italia la spesa pubblica per istruzione rappresenta il 4,1% del Pil, a fronte di una media Ue del 4,9%. La nostra quota è particolarmente bassa per quanto riguarda l’Università. Dal 2018 al 2020 la spesa è aumentata anche in Italia, ma meno che nei paesi con cui di solito ci confrontiamo. In generale mi pare stia accadendo ciò che accade nella Sanità, con una progressiva ritirata dello Stato da alcuni àmbiti di sua competenza: il fenomeno delle Università private telematiche, alcune assai scadenti, è allarmante.

Rivolgendo lo sguardo alle passate riforme dell’Istruzione, quali sono stati, a suo giudizio, i passaggi più rilevanti? L’autonomia scolastica, per citare uno snodo critico, è stata un bene o un male?

L’autonomia è stato un bene non sempre ben gestito. Ma ciò che davvero andrebbe ripensato è il ruolo che la riforma ha assegnato alle famiglie: un ruolo invasivo e spesso improprio, che alla fine indebolisce la scuola e danneggia soprattutto i ragazzi.

Quali sono, a suo avviso, i fattori che influiscono maggiormente sull’apprendimento e, più in generale, sui risultati positivi e negativi degli alunni?

L’estrazione sociale, la qualità dell’insegnamento, le personali attitudini. Non necessariamente in quest’ordine.

Uno dei punti cruciali del dibattito sul sistema dell’istruzione nel nostro Paese è quello relativo alla formazione dei docenti scolastici e universitari. È possibile che non si riesca a mettere in campo un modello di sistema che non basi la qualità dell’offerta formativa unicamente sulla capacità e sulla buona volontà del singolo docente?

A un buon insegnante si richiedono competenze culturali, pedagogiche, psicologiche, didattiche, valutative, organizzative, relazionali. Non sono molte le professioni che richiedono tante capacità (a fronte, tra l’altro, di uno stipendio modesto) La formazione degli insegnanti non dovrebbe sfuggire alla logica del life-long learning, che parte dall’Università e si sviluppa in una forte interazione con la scuola. In realtà questo non accade per varie ragioni: la prima è che le regole per l’abilitazione e l’assunzione cambiano a ogni Legislatura, insieme al nome del Ministero competente. L’ultima riforma è quella del 30 aprile 2022 concordata con l’Unione europea nell’ambito del Pnrr. Dovrebbe produrre il risultato auspicato dall’Eurispes. Dovrebbe.

Si parla spesso della necessità di ridurre il divario Nord/Sud anche nel campo della formazione. Non si tratta però solo di una profonda differenza geografica, ma di qualcosa di più complesso e articolato, che riguarda il centro e la periferia, i quartieri, i contesti urbani ed extraurbani, la sfera pubblica e la sfera privata, persino i modelli di vita adottati. Che cosa si può e si deve fare per “ricucire” un Paese troppo frammentato come il nostro?

Questa situazione assume risvolti drammatici per i giovani. Tra quelli con meno di 35 anni il tasso di disoccupazione è del 33,8%, 19 punti percentuali in più che al Centro-Nord. Circa 1.700.000 giovani meridionali non lavorano né accumulano conoscenze (partecipando a un percorso scolastico o formativo): si tratta del 36,6% del totale, un valore tra i più elevati d’Europa e persistente nel tempo, con effetti che condizionano negativamente l’intera vita lavorativa delle persone. Mentre al Nord gran parte dei nuclei familiari può contare sul reddito da lavoro di due o più componenti, al Sud prevalgono le famiglie con un solo occupato o senza alcun occupato stabile. Per quanto riguarda le strategie di “ricucitura” sono convincenti queste considerazioni di Fabio Panetta, prossimo governatore della Banca d’Italia: «La presenza di strumenti di Welfare volti a contrastare la povertà e la disuguaglianza, fornendo assistenza e sostegno alle famiglie in difficoltà, è doverosa e il Paese vi ha provveduto in ritardo. Ma una riduzione duratura della povertà e delle disuguaglianze, la creazione di opportunità di progresso economico e civile possono derivare soltanto dalla crescita dell’economia. La via maestra per sostenere l’occupazione è una riduzione del costo del lavoro da attuare nel rispetto degli equilibri delle finanze pubbliche. È possibile prevedere duraturi sgravi fiscali e contributivi per le categorie di lavoratori deboli e marginalizzate, come giovani e donne, e per i salari bassi, diffusi al Sud. Tuttavia, nel caso del Mezzogiorno pare necessario modificare la convenienza del fare impresa abbassando l’intera struttura dei costi invece di operare con misure che incentivino soltanto nuove assunzioni».

In che misura, ed in che modo, dobbiamo preparaci ai cambiamenti demografici? Si tratta di un fattore che, a suo giudizio, inciderà sul sistema scolastico italiano?

Quarant’anni fa in Italia vivevano 15 milioni di bambini e adolescenti. Adesso sono 10 milioni. I pensionati, che erano un quarto della popolazione, adesso sono un terzo. In questa forbice che tende ad al­largarsi c’è l’emergenza demografica, minaccia più insidiosa di qualsiasi crisi economica perché ne promette una strutturale e irrimediabile. Ma non è detto che il declino demografico coincida con il declino – la “desertificazione” ‒ della scuola. Molto dipenderà dalle politiche pubbliche. Le risorse risparmiate con il calo degli alunni potrebbero essere utilizzate per il rafforzamento della scuola del pomeriggio e del tempo pieno; oppure per aumentare il numero medio di insegnanti per classe. La qualità dell’istruzione se ne gioverebbe. 

La scuola primaria e secondaria di primo grado sono adeguate per strutture e qualità formativa a fornire basi solide nelle diverse discipline per preparare gli alunni a compiere il “salto” alle scuole superiori? Le superiori, a loro volta, preparano gli allievi per l’Università?

Secondo le rilevazioni Iea, in quarta elementare i bambini e le bambine italiane hanno competenze mediamente più alte della media Ocse. Ma poi a 15 anni, le graduatorie Ocse Pisa ci collocano in posizioni medio-basse rispetto ai paesi rilevati. Questo significa che nella staffetta è andato perso il testimone.  Per quanto riguarda il passaggio dalle superiori all’Università, i dati Invalsi sono sconfortanti: in italiano e matematica la metà degli studenti non raggiunge il livello base, il 48% dei maturandi non arriva al livello 3. 

L’Italia si segnala per elevati tassi di abbandono e di dispersione scolastica. Quali sono le principali cause del fenomeno, quali le strategie più urgenti da adottare?

Come sappiamo, il dato nazionale sull’abbandono scolastico (11,5%) è la sintesi di situazioni regionali molto diverse. In Sicilia, Puglia e Campania lascia la scuola prima del tempo oltre il 15% dei giovani. In Sicilia il dato supera addirittura il 21%. Ma in Basilicata e nella Marche la percentuale scende al 5%. Peraltro non è un problema solo italiano. Nel 2022 il 9,6% degli europei tra 18 e 24 anni aveva lasciato la scuola con al massimo la licenza media, e questo ha indotto l’Unione a rivedere il target da raggiungere a livello continentale portandolo al 9%. Ma ci sono Paesi dove le cose vanno peggio che da noi: in Germania il tasso di abbandono è del 12,2%, in Spagna del 13,9%. La differenza è che dove l’economia tira – come in Germania ‒ chi lascia la scuola prima del tempo trova comunque un lavoro, mentre da noi non è così. Da noi i neet (chi non lavora, non studia, non è in un percorso di formazione, n.d.r.) si vedono. Va detto che se tra gli alunni di cittadinanza italiana è l’11,5% ad abbandonare gli studi precocemente, tra quelli di cittadinanza straniera la quota sale al 36,5%. e questo pesa non poco sul dato aggregato. Direi quindi che la strategia più urgente da adottare si chiama integrazione. Si tratta di impedire che i figli degli immigrati scivolino in una condizione di povertà educativa. Molto possono fare le agenzie educative diverse dalla scuola, penso ad esempio all’associazionismo e allo sport. Per tutti – italiani e stranieri – le scuole dovrebbero poi organizzare corsi di recupero, tutoraggio degli studenti più fragili, attività pomeridiane.

Qual è e quale sarà, nell’immediato futuro, l’impatto delle tecnologie sul sistema scolastico? Il metodo di insegnamento, adottato diffusamente in Italia, viene spesso accusato di avere un impianto tradizionalista, di stampo nozionistico, scarsamente flessibile e aperto all’interazione, alla dialogicità, alla ricerca comune tra docenti e discenti. Altri paesi europei sembrano essere più avanti, sotto questo profilo. L’impatto delle tecnologie in un contesto non sempre permeabile all’innovazione che cosa comporterà? L’esperienza “forzata” della DAD, che ha permesso durante la pandemia di non spezzare la continuità dell’insegnamento, quali segnali ha dato a tutto il sistema dell’educazione italiano? 

Naturalmente c’è un prima e un dopo Covid. Il 2020 e il 2021 sono stati gli anni della cesura e le trasformazioni sono ancora in corso. La tecnologia digitale in una prima fase ha consentito alla scuola di sopravvivere nella sua missione didattica, ai danni però della sua dimensione socialmente formativa. Una scuola senza un compagno di banco non è una vera scuola. In seguito – conclusa la DAD – si è fatto in modo che la strumentazione digitale restasse protagonista nella normale attività scolastica. Anche la scuola sconta naturalmente il digital divide. Durante la DAD, uno studente su 10 è stato escluso dall’offerta formativa e la discriminazione tra chi può permettersi i device necessari e chi no permane ancora oggi. Mi pare sia aumentata la consapevolezza del fatto che il digitale ha un ruolo centrale per costruire un futuro realmente inclusivo

A suo giudizio, l’offerta universitaria in Italia è adeguata alle richieste del mercato del lavoro? Le nuove generazioni, almeno a giudicare dagli ultimi dati, sembra stiano disinvestendo sulla formazione universitaria, in un mercato globale che ha bisogno di cervelli, saperi e competenze per riprendere la via della crescita. Come va letto questo trend, di certo preoccupante?

Se da un paio d’anni le immatricolazioni sono in calo, non si tratta solo del prezzo che paghiamo all’inverno demografico. C’è una sostanziale sfiducia nello studio come strumento di emancipazione e di crescita professionale. I giovani pensano che per trovare un lavoro siano decisive non le competenze ma le amicizie, le conoscenze, le raccomandazioni. Vi sono al riguardo sondaggi drammatici. D’altra parte, il problema, prima che l’Università, riguarda l’istruzione tecnico-professionale. In Italia gli Istituti tecnici superiori – che offrono una formazione post-diploma immediatamente spendibile sul mercato del lavoro ‒ hanno 20mila studenti. In Germania le Fachhochschulen ‒ che offrono lo stesso servizio ‒ ne hanno 800mila e sono uno dei motori dell’economia.  

Nell’istruzione superiore la classica dicotomia fra pubblico e privato si è arricchita di nuovi soggetti (academy aziendali, società di consulenza, business school, start up digitali, piattaforme educative globali, ecc.) allargando lo spettro dell’offerta formativa. In prospettiva, questo fenomeno potrebbe finire con lo spiazzare le Istituzioni tradizionali, a cominciare dall’Università pubblica? Con quali conseguenze?

Wired ha pubblicato un’inchiesta molto documentata sulla ed-tech, la frazione “tecnologica” dell’educazione, che comprende lezioni al pc ma anche realtà virtuale e aumentata. Nel 2025 il business raggiungerà i 400 miliardi di dollari con un tasso di crescita medio del 16% annuo. Nel 2021 i venture capital, fiutando l’affare, hanno investito nell’ed-tech tre volte di più rispetto al periodo pre-pandemico. I nuovi soggetti sopra elencati sono nello stesso tempo la causa e l’effetto di un fenomeno che sicuramente mette a rischio l’istruzione come bene pubblico, protetto da una Costituzione che garantisce ai capaci e ai meritevoli il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

Quale sarà la principale sfida che la scuola italiana si troverà ad affrontare nei prossimi anni?

La scuola è rimasta l’ultima diga a protezione di valori come la conoscenza, la tolleranza, lo spirito critico. L’augurio è che sappia resistere alle intemperie.

*L’intervista è contenuta all’interno del 2°Rapporto Nazionale sulla Scuola e l’Università (Eurispes, 2024).

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