Ha fondato la sua azienda di robotica a 16 anni, subito dopo uno stage al Mit, il prestigioso Massachusets Institute of Technology di Boston. Quasi subito ha deciso che in due era meglio, scegliendo, dopo un accurato colloquio, il suo socio venticinquenne, Francesco. Adesso che di anni ne ha 17, Valeria Cagnina insegna a costruire robot ai bambini piccoli, ai ragazzi delle medie, agli insegnanti con corsi certificati dal Miur, e persino a imprese del calibro di Cisco e Ibm. “Play make learn”, giocando s’impara, è il motto della loro azienda di S.Michele, vicino ad Alessandria, con il logo di un robottino che separa queste tre parole. È invitata ad eventi internazionali del settore, è stata premiata in tanti festival e… non ha ancora il diploma delle superiori.
Che scuola frequenti, Valeria?
L’Istituto Tecnico Alessandro Volta di Alessandria. Meglio dire: l’ho frequentato, sino alla quarta superiore. Perché alla preside non andava bene che avessi contemporaneamente un’azienda, e allora mi sono dovuta ritirare. Mi presenterò da privatista alla maturità, a giugno del 2019.
E come è nata la passione per i robot?
Ero piccola, avevo 11 anni e facevo la prima media, quando andai a Milano al “CoderDojo”, una community globale no profit, che in varie città europee crea eventi per avvicinare i bambini e i ragazzi all’informatica. Lì vidi una pianta digitale che sullo schermo interagiva con dei sensori, calcolava umidità e temperatura, e addirittura si mostrava più aperta e più contenta se qualcuno entrava nella stanza. Questa esperienza mi è piaciuta molto, e quando sono tornata a casa mi sono fatta regalare il kit base di Arduino Progetti e ho costruito il mio primo robot, che andava in giro per la casa evitando gli ostacoli.
E poi?
Non volevo più fermarmi, la robotica mi appassionava, scrivevo mail dappertutto per stringere contatti e avere nuove informazioni. E così, a 15 anni, riuscii ad andare al Mit di Boston, che stava realizzando un progetto chiamato Duckietown, la città delle papere. Si trattava di costruire un robot autonomo che potesse girare per le vie di una città simulata, rispettando la segnaletica ed evitando gli ostacoli. Venni presa come senior tester. Dovevo migliorare i tutorial universitari, e renderli fruibili ai ragazzi delle superiori. Missione compiuta. Ho passato a Boston un’intera estate, fantastica. Ed è lì, in quei palazzi rivestiti da splendide vetrate, che ho capito che si può imparare, e lavorare, giocando.
Dopo l’estate il ritorno in Italia. E a scuola…
Sì, ma ho deciso di dedicare tutto il mio tempo libero all’insegnamento della robotica. Ho iniziato con i bambini di tre anni, andando a casa loro. Con altri facevo lezioni a distanza, via Skype. La cosa funzionava e così un anno e mezzo fa nella mia San Michele, frazione di Alessandria, ho deciso di aprire una scuola di robotica. Ma ho capito subito che avevo bisogno di un socio. E sulla mia strada ho incontrato Francesco Baldassarre, otto anni più grande di me, laureato in informatica. E’ stato lui a leggere di me e a cercarmi. Io l’ho intervistato, e lui ha deciso di licenziarsi da un lavoro molto ben retribuito ma frustrante. È così che siamo diventati soci.
Siete rimasti in due?
Noi siamo soci, ma con i collaboratori, in tutto, saremo una decina. Lavoriamo come matti, insegniamo robotica e coding, e cioè come si fa la stesura di un programma. A persone di tutte le età. Abbiamo come allievi anche gli insegnanti, con tanto di certificazione del Ministero dei nostri corsi. Siamo entrati anche nelle aziende, come Cisco e Ibm e la cosa è destinata a crescere. Quando lavoriamo chiediamo a tutti di togliersi le scarpe e mettersi seduti per terra con noi. All’inizio qualche manager era perplesso, ma poi si sono adattati tutti. Quando non facciamo scuola, partecipiamo ad eventi “techno” in Italia e nel mondo.
A proposito di aziende, un mesetto fa avete portato una relazione a un convegno di Fondirigenti, il Fondo per la formazione dirigenti promosso da Confindustria, e lì hai scritto di essere una “whynotter”. Che cosa intendi con questo?
È il nostro motto. Nella vita si può essere “Yesbutter”, campioni di incertezza, ancorati al “sì, ma…” o “Whynotter”, ovvero, testimoni positivi del “perché no?”, aperti a nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi viaggi, nuove contaminazioni. E noi siamo questo. Quanto a quella relazione, è stato buffo che chiedessero a me, che ho solo 17 anni, come vedevo il manager del futuro. Che poi è già quello di oggi. Ho risposto che deve essere una persona positiva e propositiva, con grande predisposizione al cambiamento. Dovrà sottoporsi a formazione continua per tutto l’arco della sua vita, perché le “soft skills” non si imparano a scuola. Dovrà avere flessibilità, apertura mentale e grande attenzione ai bisogni degli altri, viaggiare e contaminarsi, come diciamo noi, operando assieme a persone di altri mondi e di altre professioni.
Ma come la mettiamo con questa passione per i robot, che poi ci toglieranno il posto di lavoro?
No, no! Saranno sempre più diffusi, certo, ma si occuperanno delle attività più noiose, faticose e ripetitive. Lasceranno a noi i lavori creativi: ci divertiremo un sacco!
Per informazioni www.valeriacagnina.tech