Nel corso del XXI secolo, il Mediterraneo ha cessato di essere un “mare tra le terre” per diventare il baricentro geopolitico, economico e strategico di un’area che ingloba l’Africa settentrionale, Medio Oriente, Sahel, Mar Nero e l’interfaccia atlantica del Maghreb. Il Mediterraneo allargato è oggi una delle chiavi di lettura più efficaci per comprendere le nuove dinamiche della competizione internazionale. “Un mondo complesso e interconnesso” – come lo definiva lo storico francese Fernand Braudel nell’opera La Méditerranée et le Monde Méditerranéen à l’époque de Philippe II (1949)[1] – il Mediterraneo si configura come uno spazio “di confluenza e frizione”, attraversato da crisi politiche, instabilità strutturali e processi migratori epocali. Ma è anche l’arena in cui si misurano le ambizioni di potenze globali e regionali, dagli Stati Uniti e dalla Cina fino a Turchia, Russia e Francia. L’area del Mediterraneo comprende alcuni dei teatri più instabili del mondo: la Libia post-Gheddafi, il Libano oramai economicamente collassato, la Siria frammentata, il Sahel attraversato da colpi di Stato militari e dalla propaganda jihadista. Secondo dati recenti, la sola regione saheliana ha registrato oltre 6.000 attacchi armati; un numero triplicato rispetto a cinque anni fa. L’instabilità non è tuttavia solo un fattore endogeno. La Russia, con la sua proiezione navale in Siria e Libia, ha consolidato una presenza che sfida il predominio tradizionale di Stati Uniti ed Europa. La Cina, invece, si insinua attraverso infrastrutture e debito: secondo la Banca Mondiale, tra il 2015 e il 2022 ha investito oltre 14 miliardi di dollari in progetti portuali nei paesi nordafricani[2].
Secondo la Banca Mondiale, tra il 2015 e il 2022 la Cina ha investito oltre 14 miliardi di dollari in progetti portuali nei paesi nordafricani
L’invasione russa dell’Ucraina ha ridisegnato la mappa dell’energia globale. L’Algeria è tornata a essere partner strategico per l’Europa, mentre l’Egitto si propone come snodo regionale per il gas liquefatto. L’Italia, tramite Eni, ha rafforzato la sua presenza in Libia, Mozambico e Angola, raddoppiando gli investimenti nella regione. Il TAP e il nuovo progetto EastMed rappresentano due cardini della rinnovata architettura energetica, concepita per ridurre la dipendenza europea dal gas russo. Nel 2023, l’area mediterranea ha rappresentato circa il 12% del commercio mondiale di gas naturale liquefatto (GNL), con previsioni di crescita superiori al 15% entro il 2026. A ciò si aggiunge il crescente interesse per le risorse offshore di Cipro (dove si registrano investimenti ingenti da parte di Israele) e Libano. Nonostante ciò, il Mediterraneo resta segnato da una marcata frammentazione e da forti diseguaglianze: paesi come Israele e Turchia ambiscono a diventare potenze autonome, mentre molti Stati arabi devono affrontare crisi economiche persistenti, regimi autoritari e dipendenze esterne. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, in Tunisia il Pil pro capite è sceso da 4.000 a 3.200 dollari tra il 2014 e il 2024, mentre la disoccupazione giovanile supera il 35% (IMF, Tunisia Country Report, 2024).
L’Occidente appare sempre più disorientato e privo di una strategia chiara per il Mediterraneo
L’Unione europea, pur direttamente interessata dalla prossimità geografica e dall’interdipendenza economica, fatica a elaborare un approccio unitario. Le missioni Frontex, IRINI e Sophia hanno evidenziato gravi limiti sia nella gestione dei flussi migratori sia nella proiezione marittima congiunta. L’Italia, isolata dai partner, ha alternato tentativi di cooperazione multilaterale a risposte emergenziali. Nel complesso, l’Occidente appare sempre più disorientato: privo di una strategia chiara, senza visione di lungo periodo, incapace di delineare una cornice di ordine multipolare. Prevale la logica del più forte; il pretesto dell’attacco preventivo viene impiegato per aggirare costantemente il diritto internazionale, alimentando un degrado geopolitico senza precedenti. In questo scenario, il Mediterraneo è teatro di un uso crescente della guerra ibrida: pratiche che combinano strumenti militari convenzionali con operazioni cibernetiche, campagne di disinformazione, pressioni economiche, manipolazione dei flussi migratori e sostegno occulto a gruppi armati. Una forma di competizione non dichiarata ma dagli effetti destabilizzanti concreti e immediati.
Mosca agisce attraverso il supporto a regimi autoritari e la manipolazione dell’opinione pubblica
La Federazione Russa ha elaborato una sofisticata dottrina di “guerra non lineare”, già sperimentata in Crimea, nel Donbass, in Siria e, più recentemente, nel Sahel e nella fascia sahelo-sahariana. Le sue modalità operative comprendono l’impiego di forze paramilitari – come il Gruppo Wagner, oggi riorganizzato sotto nuove sigle – il supporto a regimi autoritari e la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso reti mediatiche e digitali. Le basi militari russe in Siria e Cirenaica costituiscono piattaforme strategiche per l’espansione dell’influenza moscovita, anche attraverso canali non convenzionali. La Repubblica Popolare Cinese, pur evitando approcci apertamente coercitivi, esercita una proiezione di potere prevalentemente indiretta e di lungo periodo. Pechino sfrutta strumenti economici, tecnologici e infrastrutturali per rafforzare la propria presenza nell’area: dalla gestione dei porti strategici (Il Pireo, Haifa, Algeri) alla diffusione di sistemi di sorveglianza, fino alla creazione di reti accademiche e culturali. Sebbene presentato come un modello win-win, questo approccio genera un graduale condizionamento delle scelte politiche ed economiche dei paesi coinvolti, con effetti significativi sulla loro sovranità. Queste due modalità di influenza – quella russa, reattiva e destabilizzante, e quella cinese, sistemica e graduale – trasformano il Mediterraneo allargato in uno spazio di competizione strategica ad alta intensità. Di fronte a ciò, l’Unione europea e i suoi membri appaiono ancora privi di risposte adeguate: oscillano tra tentativi timidi di deterrenza, posizioni diplomatiche ambigue e strumenti operativi inadatti a fronteggiare minacce ibride.
Il Mediterraneo allargato è un sistema integrato di tensioni in cui ogni crisi locale genera onde d’urto a livello regionale e globale
Gli eventi degli ultimi mesi confermano che il Mediterraneo allargato non è più una semplice entità geografica, ma un sistema integrato di tensioni in cui ogni crisi locale genera onde d’urto a livello regionale e globale. L’eliminazione mirata, da parte di Israele, di Saeed Izadi – comandante della Forza Quds iraniana e figura chiave del coordinamento tra Teheran, Hamas e Hezbollah – si inserisce in una dinamica di conflitto non dichiarato, ma strutturale. Le incursioni aeree israeliane in Iran, soprattutto nel sud-ovest del paese, aprono scenari inediti di confronto diretto tra due potenze che finora si erano affrontate per procura. Le reazioni sono state immediate: Ankara, tramite il Ministro degli Esteri Hakan Fidan, ha accusato Tel Aviv di trascinare la regione verso un “disastro totale”. L’Iran, a sua volta, ha rinsaldato l’asse con Mosca, ricevendo non solo appoggio politico ma anche offerte di cooperazione sul nucleare civile, come confermato dal presidente Putin. Intanto, negli Stati Uniti, il capo dell’intelligence ha ammesso che Teheran dispone delle capacità tecniche per completare un’arma atomica in poche settimane, alimentando il timore di una soglia nucleare imminente.
Il 40,7% dell’import energetico italiano proviene da paesi coinvolti in crisi o guerre
L’Italia, nel frattempo, rimodula tatticamente il proprio contingente in Iraq e Kuwait, mantenendo costante la presenza di circa 1.100 unità operative. Crescono, parallelamente, le preoccupazioni per le ripercussioni economiche dei conflitti in corso. Secondo Confartigianato, il 40,7% dell’import energetico italiano proviene da paesi coinvolti in crisi o guerre, mentre le esportazioni verso queste aree valgono oltre 61 miliardi di euro all’anno[3]. Ne risulta una vulnerabilità sistemica, in cui la tenuta del Made in Italy è subordinata non solo alla competitività interna, ma anche alla stabilità geopolitica del contesto euro-mediterraneo. A tale quadro si aggiunge un’ulteriore chiave interpretativa di natura macroeconomica, che consente di collegare le dinamiche regionali del Mediterraneo allargato alle trasformazioni del potere globale. In un recente contributo, l’economista Emiliano Brancaccio ha descritto l’attuale fase della politica statunitense come quella di un “impero indebitato”, nel quale la crescente esposizione fiscale degli Stati Uniti – oggi prossima ai 35.000 miliardi di dollari – non rappresenta soltanto un rischio economico, ma un fattore geopolitico strategico di prima grandezza[4]. Secondo questa prospettiva, la gestione del debito americano potrebbe tradursi in una pressione crescente sugli alleati, chiamati a contribuire in modo sempre più esplicito alla tenuta sistemica della leadership a stelle e strisce: attraverso tagli alla spesa sociale, incrementi delle forniture militari e partecipazione a missioni funzionali al contenimento dei competitor globali. Il Mediterraneo allargato, da questo punto di vista, si configura come uno dei principali teatri di sperimentazione di tale strategia imperiale di redistribuzione dei costi. Le politiche di riarmo, i partenariati operativi, il rafforzamento della presenza NATO, la gestione securitaria dei flussi migratori e le pressioni sui Paesi rivieraschi ne sono manifestazioni evidenti.
Le scelte che l’Europa dovrà affrontare saranno decisive non solo per il proprio futuro, ma per la definizione stessa del nuovo ordine mondiale
L’interconnessione tra crisi locali e dinamiche sistemiche risulta così sempre più diretta: la guerra ibrida, la cooptazione delle classi dirigenti locali e l’erosione della sovranità economica costituiscono effetti concreti di questa nuova “pax americana” finanziata su scala multilaterale. Non si tratta di una lettura isolata. Due premi Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz e Paul Krugman, hanno evidenziato – da prospettive distinte ma convergenti – il rischio che il debito federale venga strumentalizzato come leva per giustificare politiche aggressive e regressioni sociali[5]. In tale contesto, comprendere la logica economica dell’impero significa anche comprendere le scelte strategiche che incidono direttamente sugli equilibri del Mediterraneo allargato. Le scelte che l’Europa si troverà ad affrontare – tra subalternità e autonomia – saranno decisive non solo per il proprio futuro, ma per la definizione stessa del nuovo ordine mondiale. In questo scenario fluido e denso di tensioni, il Mediterraneo allargato si configura come un moltiplicatore strategico: ogni conflitto può tradursi rapidamente in pressione migratoria, shock energetico, turbolenza finanziaria e crisi diplomatica. Comprenderne le dinamiche non è solo un’esercitazione analitica: è condizione necessaria per esercitare sovranità e autonomia nell’Europa meridionale.
Nel Mediterraneo i BRICS hanno già costruito una presenza robusta, seppur disarticolata
Anche l’Africa occidentale è divenuta un nuovo teatro di confronto. Francia, Russia e Cina si contendono spazi di influenza, mentre l’Italia tenta di ritagliarsi un ruolo autonomo con iniziative come il Piano Mattei. Tuttavia, l’instabilità istituzionale e la diffusione del jihadismo rendono ogni intervento altamente rischioso. Nel Mediterraneo, i BRICS hanno già costruito una presenza robusta, seppur disarticolata. Come documentato dal Rapporto BRICS e Mediterraneo dell’Eurispes (2017), Cina e Russia hanno firmato accordi di partenariato strategico con Algeria, Marocco, Tunisia, Egitto e Turchia. La Cina è protagonista di investimenti logistici e portuali (Cherchell, Suez, Pireo), mentre la Russia è attiva nel settore energetico e nucleare. Anche Brasile, India e Sudafrica agiscono tramite piattaforme multilaterali e accordi bilaterali selettivi (ASPA, FOCAC, IBSA). Tuttavia, nei documenti ufficiali dei vertici BRICS non compare alcun riferimento esplicito all’area mediterranea. È una contraddizione evidente: forte attivismo nazionale, ma assenza di visione comune.
Chi controlla il Mediterraneo allargato non controlla più il mondo, ma può decidere chi lo controllerà
Eppure il Mediterraneo potrebbe diventare cerniera di interconnessione strategica tra blocchi: infrastrutture, conoscenza, energia e gestione dei flussi migratori sono ambiti ideali per un laboratorio di co-sviluppo tra Ue e BRICS. Ma serve una visione che superi la logica dei blocchi e sappia leggere la fluidità policentrica del nuovo ordine. Il Mediterraneo allargato non è più un confine. È un sistema complesso dove convergono transizioni energetiche, conflitti a bassa intensità, migrazioni forzate e nuove architetture geopolitiche. Chi saprà interpretarne i segnali, sarà in grado di anticipare le trasformazioni dell’ordine mondiale. Come afferma il politologo Karim Mezran: «Chi controlla il Mediterraneo allargato non controlla più il mondo, ma può decidere chi lo controllerà[6]».
[1] Fernand Braudel, La Méditerranée et le Monde Méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, Armand Colin, 1949.
[2] World Bank, Belt and Road Economics, 2023.
[3] Confartigianato, “Export e vulnerabilità energetica: il rischio geopolitico”, 2024.
[4] Emiliano Brancaccio, L’imperatore non è pazzo, è indebitato, il manifesto, 22 giugno 2025.
[5] Joseph E. Stiglitz, People, Power, and Profits: Progressive Capitalism for an Age of Discontent, W. W. Norton & Company, New York, 2019. Paul Krugman, “The Phantom Menace of the Debt Crisis”, The New York Times, 2023.
[6] Mezran, Karim, intervento alla conferenza ISPI, Milano 2023.

