Quando l’eccellenza si scontra con la burocrazia: il caso Fondazione Santa Lucia

Come si fa a tagliare le spese senza ridurre i bonus e l’auto finanziamento di chi gestisce la sanità? Semplice, riducendo il personale e la qualità del materiale nelle strutture pubbliche, e quindi direttamente gestite, e non riconoscendo le prestazioni d’eccellenza più costose a quelle strutture che, non facendo parte del circuito delle Aziende Ospedaliere a gestione pubblica, non possono essere controllate direttamente dal sistema politico e sono, pertanto, poco o nulla funzionali al sistema delle clientele. Nel Lazio almeno si fa così. Da anni negli ospedali pubblici ci si lamenta di guanti chirurgici che si rompono, di bisturi che non tagliano, di una cronica carenza di medicinali, di mancanza di personale, di turni massacranti del personale in servizio e sempre più ridotto grazie al blocco del turnover, mentre la Corte dei Conti, ogni anno, contesta sprechi, spese per appalti incongrui, corruzione. Ciò su cui si sorvola allegramente nel pubblico, qualità e quantità degli strumenti (nel senso più ampio), adeguatezza degli spazi, corretto rapporto tra personale sanitario complessivamente inteso e posti letto, anche, se non soprattutto, in relazione al tipo di patologie trattate, per i privati diventa conditio sine qua non (ma non sufficiente, ma questa è un’altra storia) per potere accedere all’accreditamento con il SSN e vedersi riconoscere rimborsi adeguati. Già questo semplice e lampante fatto, basterebbe per affermare che esiste un chiaro sistema di concorrenza sleale all’interno di un sistema sanitario nel quale, il raggiungimento dell’eccellenza, prevedeva la concorrenza tra strutture a gestione pubblica e strutture a gestione privata.

Nonostante ciò, in questo Paese, ai primi posti per la qualità dell’assistenza si collocano ospedali gestiti dai privati, e quindi in grado anche di generare profitti, quali il gruppo San Donato, il gruppo Humanitas, il gruppo Villa Maria, l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) per citarne alcuni. Nel Lazio, piccolo per la sua peculiare specializzazione, ma di grandissima rilevanza nazionale e internazionale per l’eccellenza dei trattamenti, è presente la Fondazione Santa Lucia, eccellenza assoluta nel trattamento delle grandi patologie neurologiche, sia nell’adulto che in età pediatrica; un tipo di patologie ad altissimo impatto sociale e che finiscono per sconvolgere per anni non solo la vita dei pazienti ma la vita di interi nuclei familiari. Eppure, da anni, periodicamente, l’ospedale Santa Lucia è al centro di polemiche e proteste dei pazienti e dei loro parenti e a rischio chiusura. Per quale motivo? Semplice, i rimborsi riconosciuti non riescono a coprire i costi della struttura, peraltro sempre piena e per la quale le richieste di ricovero superano spesso la disponibilità. La legge per questo tipo di strutture che si occupano di pazienti estremamente gravi, con gravi lesioni cerebrali e conseguenti disabilità fino al coma, prevede una serie di vincoli precisi e definiti che vanno dall’ampiezza dei locali di degenza e di raccordo all’ampiezza delle palestre e il tipo di attrezzature al numero e alla competenza del personale medico e paramedico che deve provvedere a garantire un tipo e un’intensità di cure riabilitative adeguate. Ovviamente, per tutti quei pazienti che rientrano nella categoria a maggior peso assistenziale, e in particolare per i pazienti in coma, è previsto un rimborso giornaliero più elevato rispetto a quello previsto per i pazienti meno impegnativi e che necessitano di una minore sorveglianza e di un livello inferiore di preparazione degli operatori sanitari.

Tecnicamente, ogni condizione patologica ha assegnato un codice del così detto nomenclatore, e a ogni codice corrisponde un diverso rimborso. Senza dilungarsi in tecnicismi, la condizione più grave, che dovrebbe riguardare la maggior parte dei pazienti dell’ospedale Santa Lucia, è il codice 75, codice che prevede un rimborso per giornata di degenza di 470 euro a fronte dei 272,70 dei ricoveri meno impegnativi.

Ebbene, per il 2015, a fronte di 1.475 pazienti dimessi, sapete quante giornate di ricovero con questo codice la regione Lazio ha riconosciuto alla Santa Lucia? Uno, si avete letto bene, un solo giorno di ricovero a un solo paziente in un intero anno. Questo fatto da solo denuncia un evidente dolo. Delle due l’una, o la clinica non ricovera pazienti con gravi patologie neurologiche fino al coma (ma basta fare un giro nei suoi reparti per capirlo), o in coma c’è andata, da tempo, l’intelligenza dei funzionari regionali.

Le cose sembrano migliorate, si fa per dire, nel corso di quest’anno. Nel periodo gennaio-maggio, infatti, la regione ha riconosciuto il codice 75 a 22 pazienti per un totale di 1.309 giornate di ricovero su 529 dimessi per 38.154 giornate. Però un dubbio viene: c’entrerà qualcosa il fatto che a febbraio il Presidente della Repubblica Mattarella si è recato in visita alla Fondazione lasciandosi andare a dichiarazione di lode e ammirazione per la struttura e il lavoro svolto, dopo essersi reso conto personalmente dei fatti?

La Fondazione denuncia di lavorare da troppo tempo indebitandosi. Per mantenere gli standard qualitativi e quantitativi previsti per le cure ad alta intensità riabilitativa, senza che venga riconosciuta questa eccellenza ma vengano riconosciuti solo rimborsi più bassi, ovvero i rimborsi riconosciuti per pazienti a bassa intensità di cura, i soli costi del personale rappresentano il 120% del totale del rimborso regionale. In sostanza, alla Fondazione viene richiesto, da una parte, uno standard elevatissimo e molto costoso per la cura dei pazienti, mentre dall’altra la Regione si limita a rimborsi pari a quelli erogati per chi effettua cure a bassa intensità (272,70 anziché 470 euro). Una sorta di comma 22, ricordate? Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo. Chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non può essere pazzo.

Certo una soluzione ci sarebbe, ridurre il personale, ridurre le ore di riabilitazione, trattare i pazienti gravi con le terapie standard previste per i pazienti meno gravi e così fare quadrare i conti. Cessare, in sostanza, di essere una struttura di eccellenza e adeguarsi ai desiderata della regione che rivede la spesa soprattutto su fronte dell’assistenza ai cittadini contribuenti.

Quello della Fondazione Santa Lucia è un esempio, anche se eclatante, di come nelle regioni col personale politico e amministrativo peggiore, più inadeguato e più indagato, si stia progressivamente smontando quello che di buono è ancora rimasto nella sanità pubblica. Purtroppo il danno che queste politiche dissennate e la burocratizzazione ottusa del sistema sanitario stanno causando è enorme. E non lo è solo per la salute di chi soffre di patologie tanto gravi e a che rischia di vedersi negata la speranza di una pur parziale ripresa, è enorme per tutti coloro che, in ambito familiare, si trovano a rischiare di dover gestire in solitudine e abbandonati dalle istituzioni situazioni devastanti e in grado di condizionare la loro vita presente e futura. Le strutture a più alta specializzazione si occupano delle patologie a più alto impatto sociale e proprio per questo a maggior costo; provocarne la chiusura o anche solo il declassamento finisce inevitabilmente per ricadere emotivamente ed economicamente sulle famiglie. Se non è la fine di un sistema sanitario nato (e pagato dai contribuenti) per essere universalista e solidale, non vedo cos’altro possa essere.

 

(Dichiarazione di conflitto di interessi: l’autore dichiara di essere consulente scientifico della Fondazione Santa Lucia).

 

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