Benedetta Cosmi, coordinatrice del Laboratorio dell’Eurispes sul Capitale umano, dialoga con Donatella Sciuto, Rettrice del Politecnico di Milano dal 2023.
Benedetta Cosmi: “Perottina” e la nostalgia dell’Italia che saremmo potuti essere. L’importanza di non guardare indietro, ma di pensare al futuro. Il soprannome dato al P101 – il primo calcolatore da tavolo programmabile, ritenuto il primo computer della storia, sviluppato dalla Olivetti tra il 1962 e il 1965 – fa per lo meno sorridere, viene in mente l’immagine di una piccola pera al posto della mela. Apple ha il sapore dolce e amaro, chissà un piccolo omaggio a Pier Giorgio Perotto, un rimando al passato che sapeva di futuro. Ne parlo con Donatella Sciuto, in un momento del tutto unico, in cui sta per fare il passaggio di consegne. Vuol dire confrontarsi con le proprie paure, speranze, e “immaginare”. La società guarda in quei momenti a loro come “le donne al potere”. Il suo rettorato al Politecnico di Milano arriva dopo 160 anni di rettori. Ho incontrato cinque rettrici negli ultimi anni. Ricordo la prima intervista a Cristina Messa; era il 2013, e sono cambiate varie cose da allora. Ma intanto fa storia l’ingresso di Donatella Sciuto al Politecnico di Milano, lì dove già le studentesse (ai suoi tempi) erano pochissime. All’epoca il Paese, che adesso raccontiamo con nostalgia – per certe grandi personalità che si faticano a identificare ai giorni nostri – non era perfetto. Avrei voluto incontrare l’ingegner Perotto, progettista della Olivetti. Avrei voluto un Paese diverso nelle fasi tumultuose del passaggio di potere tra Olivetti e General Electric. Avrei voluto che nel 1965 la “Perottina”, presentata al BEMA di New York, catalizzando l’attenzione dell’industria a livello mondiale, ci fosse riuscita anche nel mio Paese.
Donatella Sciuto: Perotto ci riporta, non senza nostalgia, ai tempi dell’Olivetti, azienda storica nella tradizione industriale italiana. Ricorderei poi un’altra figura altrettanto importante, quella di Luigi Dadda e del Crc 102A. Siamo agli albori dell’informatica italiana. Si trattava di un calcolatore grande come un armadio a tre ante. Era il primo calcolatore elettronico nell’Europa continentale e stava proprio al Politecnico di Milano. Parliamo dei primi anni Cinquanta. Oggi, nel giro di poco più di mezzo secolo, siamo passati dalla risoluzione di equazioni algebriche lineari al quantum computing. L’informatica ha fatto passi da gigante. Oggi ragioniamo sul Metaverso, anche insieme a grandi aziende come Luxottica, sui big data, sull’auto a guida autonoma, sulla stampa 3d di tessuti vascolarizzati… Non abbiamo nostalgia del passato. La nostra è una ricerca di frontiera, impegnata nelle grandi trasformazioni del futuro: lo spazio, dove presto lanceremo mini satelliti; le biotecnologie, dove stiamo lavorando alla replica della progressione tumorale in laboratorio, e ancora le tecnologie quantistiche e l’Intelligenza Artificiale. Insieme alle imprese abbiamo poi avviato laboratori all’avanguardia: POLIfab, centro di microtecnologia con ST Microelectronics; i laboratori di robotica con Camozzi; il laboratorio con Nhoa Group per l’energia pulita; il Simulatore di guida; il Centro congiunto con Eni su economia circolare e sostenibilità. Abbiamo attivato 67 Joint Research Center, Centri di ricerca congiunti… Ci sono tante realtà che si avvicinano alla ricerca. Il paradigma è molto diverso rispetto agli anni d’oro di Ivrea, ma non per questo meno promettente.
BC: “Dalla pera alla mela”: il passaggio Italia – USA, le politiche di innovazione, gli incubatori…
Giustamente lei ha citato gli Stati Uniti e tutti pensiamo alla Bay Area. Ma in Europa e in Italia, in particolare, le politiche di innovazione stentano a decollare. Manca la cultura del rischio, come prima cosa. Mancano grandi investitori. Mancano politiche comunitarie. Quest’ultimo aspetto, in particolare, lo conosciamo da vicino. Nonostante il Politecnico abbia aperto la strada al fondo di venture capital Polimi360 e all’ultimo nato Tech4Planet, con Cassa Depositi e Prestiti, non siamo riusciti a realizzare iniziative in chiave europea. Ci abbiamo provato con Teggwings, fondo avviato insieme a ETH, Aachen e Delft (alcune delle migliori università tecniche in Europa e al mondo), ma non è decollato. Continuiamo a credere che il nostro Paese e l’Europa debbano sviluppare una politica condivisa in materia di innovazione tecnologica e di creazione di impresa. Solo così potremmo essere competitivi rispetto alle realtà americane e cinesi, israeliane e giapponesi. Servono iniziative dotate di massa critica e finanziaria, di visione internazionale. C’è poi un secondo aspetto sul quale vorrei richiamare l’attenzione quando parliamo di incubatori. Ed è il ruolo che l’innovazione riveste nei piani di sviluppo delle grandi città. Vale anche per Milano. Sempre di più la nascita di parchi tecnologici, di “Innovation Hub”, trasforma le politiche urbane, definisce nuovi punti di attrazione e di sviluppo sul territorio. Da Station F a Parigi al Distretto 22@ di Barcellona, si tratta di progetti ambiziosi che ridisegnano interi quartieri, che indicano il passaggio da un vecchio a un nuovo modello di industrializzazione. In quest’ottica, il Politecnico avvierà tra poco i lavori per la riqualificazione dei Gasometri e dell’area della Goccia a Bovisa con 5 edifici per le startup: 30.000 metri quadri in chiave deep tech. Il tutto all’interno di un’iniziativa ambiziosa firmata dal maestro Renzo Piano, che prevede anche nuove aule e residenze universitarie. È l’immagine di una Milano che guarda al futuro.
Gli ingegneri che prevedono il futuro: il Technology foresight e le scommesse per il Paese.
DS: Pensare al futuro come all’ignoto ha molta presa. È un concetto affascinante. Ma il futuro è sempre una conseguenza delle nostre azioni. Per questo il Politecnico ha deciso, come molti atenei di punta, di dotarsi qualche anno fa di un Technology Foresight Center. L’intenzione è quella di anticipare i cambiamenti tecnologici in atto nella convinzione che sia meglio gestire le trasformazioni anziché subirle. Soprattutto quando abbiamo a che fare con un’evoluzione tecnologica che corre a ritmi mai visti prima. Abbiamo quindi messo in piedi un gruppo di lavoro interdisciplinare e iniziato ad indagare l’impatto che le innovazioni tecnologiche avranno nell’arco dei prossimi 10-20 anni. Lo abbiamo fatto in una direzione ben precisa, che è quella dello sviluppo sostenibile, esaminando 50 tecnologie dirompenti e mettendole a confronto con i 17 SDG. Questo ha dato origine a una vera e propria mappa utile per orientare non solo e non tanto la ricerca, ma soprattutto i nostri interlocutori: aziende e istituzioni.
Una storia personale: prima rettrice donna al Politecnico di Milano
La prima donna al Politecnico di Milano e la decima rettrice (al momento dell’elezione) in Italia… un risultato importante, ma c’è ancora molta strada da fare in termini di parità di genere. Devo però ammettere che, nella mia carriera al PoliMi, da studentessa e da docente, ho vissuto un ambiente aperto, fatto di persone che hanno sempre messo il merito, la competenza e la capacità al primo posto. Questo ha fatto sì che potessi tentare questa impresa e riuscirci. Ma non l’ho fatto da sola e non credo di essere stata votata in ragione del genere, ma per le mie idee. Mi concentrerei ora su come concretizzarle e sulle azioni dei prossimi sei anni.
Che mondo è quello in cui si lavora, si vive, si sceglie, si acquista, si vota, si ama. E ovviamente si studia e si fa ricerca… Quali sono i rischi per il futuro?
Rischio è una parola che, tendenzialmente, ha un’accezione negativa. Io guarderei al futuro in modo positivo, anche se mi rendo conto che le vicende degli ultimi anni non siano incoraggianti. Alcuni rischi sono sotto gli occhi di tutti. Meno evidenti sono le soluzioni e le opportunità che questi portano con sé. Faccio un esempio a me caro, considerato il mio ambito di studio, quello dell’Intelligenza Artificiale. Oggi si parla della “tirannia dell’algoritmo”. In effetti qualche rischio lo si intravede, ad esempio nel timore che si possa perdere una condizione necessaria per l’essere umano: la capacità di scegliere e di decidere. Detto questo, non possiamo fermare le lancette dell’orologio o rallentare il ritmo dell’innovazione tecnologica. Possiamo però dirigerla, tentando di governarla in modo responsabile e avendo cura di mantenere saldi alcuni principi etici. Penso, più che ai rischi, ai grandissimi vantaggi di un’accelerazione digitale ben gestita: dalle politiche pubbliche di precisione, ai servizi mirati alla persona, alla medicina e alle scienze della vita, agli aspetti di inclusività… Chi si occupa di innovazione ha una grande responsabilità, questo deve essere ben chiaro a tutti. La ricerca ha ricadute sempre più evidenti a livello sociale, con le quali è necessario venire a patti ex ante e non ex post. Ecco perché l’etica della ricerca è un tema di primo piano al quale tengo particolarmente. La consapevolezza delle barriere che andremo a infrangere deve essere accompagnata dal pensiero critico, frutto della formazione, in primo luogo, e poi del dialogo, dello scambio di idee. Per questa ragione, sono certa che il peggior rischio per il futuro sia l’isolamento. Lo evidenziano alcune vicende del nostro tempo, dalla Brexit, alla pandemia, al conflitto russo-ucraino.
Quali speranze vede accendersi negli occhi dei suoi studenti?
Negli occhi dei miei studenti e delle mie studentesse vedo quello che appartiene alla loro età: la curiosità e la voglia di osare. Al Politecnico di Milano ho la fortuna di potermi confrontare con generazioni di giovani sempre più preparate, cosmopolite e aperte. Generazioni che sono stimolate positivamente dal contesto: da una Milano che ha la marcia innestata, da un ateneo che è riuscito a guadagnare credibilità in Europa, da un tessuto economico e industriale favorevole. Ma guai ad accontentarsi. Del resto, nei loro occhi c’è sempre la voglia di qualcosa di più grande. Ed è giusto che sia così. Vedo in particolare ragazze motivate, tenaci, pronte a giocarsi il tutto per tutto. Giovani donne consapevoli del loro valore e dei propri mezzi. Seppur coscienti dei limiti che condizionano alcune scelte, prime fra tutte la carriera nelle materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), appaiono decise nel portare avanti i loro sogni e le proprie posizioni. Nei loro occhi vedo il futuro di una società inclusiva in cui prevale il merito anziché il genere. Nel nostro ateneo stiamo facendo tanto perché questo accada.
Qual è la cosa più difficile del suo lavoro?
Da neo rettrice della prima università tecnica in Italia, la cosa più difficile è quella di aver ricevuto un’eredità importante, quella di un’università con 160 anni di storia. Sento una grande responsabilità, soprattutto nei confronti dei tanti ragazzi e delle tante ragazze che investono il loro tempo e le loro energie in una formazione che deve essere di qualità, che deve aprire loro nuove porte. Una responsabilità che sento anche nei confronti dei ricercatori e delle ricercatrici per i quali il percorso non è sempre facile. L’Italia investe ancora troppo poco. I segnali a riguardo che arrivano dal PNRR sono buoni, ma dobbiamo garantire al Paese il domani, un domani successivo al 2026. Non ultima, sento una grande responsabilità anche nei confronti delle imprese che investono in laboratori di ricerca per sviluppare prodotti all’avanguardia e che hanno “fame” di competenze adeguate.
Quali aziende le hanno permesso di conoscere storie di eccellenza, capitale umano, innovazione, e dove avete fatto la differenza o intenderete farla?
Il Politecnico nasce nel 1863 dalla Milano industriale. Storie di successo ne abbiamo avute tante. Da poco sono stati celebrati i 150 anni della Pirelli. Non tutti sanno che per noi è stata la prima startup. Nel 1872 Giovanni Battista Pirelli, brillante laureato all’allora Regio Istituto Tecnico Superiore, si lancia in un’iniziativa inedita in Italia: l’industria del caucciù. Nel tempo abbiamo avviato tante collaborazioni, pensiamo al rapporto tra Natta e la Montecatini: dal Nobel alla produzione industriale del polipropilene… Il resto della storia, lo raccontano la diffusione della plastica prima e l’impegno oggi per lo sviluppo di nuovi materiali e sul fronte del riuso e della sostenibilità. Questo è un tema sul quale vogliamo fare la differenza. In tempi più recenti abbiamo avviato dei veri e propri centri di ricerca congiunti. I Joint Research Center sono passati da 6 nel 2017 a 67 nel 2022, le startup di PoliHub da 16 a 120… Se poi parliamo di capitale umano, sono estremamente orgogliosa della crescita dei nostri Alumni che si sono distinti come capitani d’impresa: Mazzoncini, Gori, Cattaneo, Starace, Reich, Bottinelli e potrei andare avanti. Anzi, mi scuso con quanti, per brevità, non ho nominato. Sono convinta che le persone siano il motore di grandi cambiamenti. Solo così possiamo fare la differenza.
Chi sono i ricercatori oggi in Italia e all’estero? C’è un identikit, un’immagine, un oggetto, un ambiente, un luogo dove si passano giorno e notte? O comunque come si crea una comunità dove si porta fuori dal cassetto un sogno? Molte università vedono andare via gli studenti che hanno questi grandi sogni che poi diventano reali.
L’idea che la ricerca sia “cool” è un po’ naif. È l’immagine patinata che ci ha regalato la Silicon Valley e che, di fatto, ha poco a che vedere con quello che accade realmente nei nostri laboratori e nelle nostre spin off. I ricercatori e le ricercatrici non hanno solo sogni, ma idee e obiettivi molto concreti. Per questo spesso “scappano”, perché hanno bisogno di ambienti più stimolanti. Cercano laboratori attrezzati e fondi per le loro ricerche. In questo, siamo migliorati molto in Europa: il Politecnico, per esempio, ha un tasso di successo del 20% sulle ultime call di Horizon Europe, rispetto a una media del 15%. Oggi al Politecnico abbiamo 34 ERC che si sono distinti per i meriti scientifici. Negli ultimi dieci anni abbiamo raddoppiato il numero di PhD. Credo poi che nell’identikit del ricercatore non ci sia tanto il sogno, quanto piuttosto l’intuito, la curiosità e la capacità di scorgere alcuni segnali in anteprima. Capire quali siano i trend dominanti. Il foresight tecnologico, al quale abbiamo dedicato un centro di ricerca ad hoc, è una sorta di lente di ingrandimento sul presente.
Vedo sempre le università, italiane e del mondo, come una sorta di ambasciata a cui appoggiarsi e tornare, con un proprio giornale, una radio, una biblioteca accogliente.
Se potesse finanziare uno spazio del genere per “il capitale umano”, lo metterebbe a disposizione durante il suo mandato da Rettrice al Politecnico di Milano? Uno spazio dove far passare anche sociologi, comunicatori, filosofi, (assomiglierebbe al Mit?), artisti, aperto a tutti gli alumni e studenti del mondo in visita nella nostra città.
Il Politecnico di Milano spero sia già così (temo di dover trovare altri obiettivi: lo dico con il sorriso). Le nostre porte sono aperte a filosofi, sociologi e artisti. Per questo qualche anno fa abbiamo attivato Meta, Unità di Studi Umanistici e Sociali su Scienza e Tecnologia; introdotto insegnamenti di etica e filosofia all’interno delle lauree magistrali e del Dottorato di Ricerca; reclutato giovani filosofi all’interno di gruppi di ricerca dell’ingegneria.
Periodicamente organizziamo incontri con gli alumni che sono di fatto i nostri ambasciatori nel mondo. Con loro discutiamo di nuovi progetti, condividiamo stimoli per il futuro; ci portano la loro esperienza e per noi questo legame è una ricchezza. Purtroppo però il Politecnico sconta ancora la fama di un’università da “nerd”. Non è così. Sfatiamo questo mito. Lo chiedo a voi comunicatori. Aiutateci a svecchiare un’immagine che non ci rappresenta.
Qual è stata la scintilla che l’ha portata verso le materie STEM e che dobbiamo essere in grado di riconoscere anche noi, da genitori, nei nostri figli? E quali fattori condizionano le scelte?
“Che lavoro vuoi fare da grande” è una domanda antica, superata da tante condizioni del mondo reale. Che domanda dobbiamo fare alle future ingegnere, ricercatrici, rettrici? Il compito di noi genitori, non facile, è quello di assecondare le inclinazioni dei figli. Spesso però riteniamo di sapere cosa sia giusto per loro senza prestare davvero attenzione alle loro parole e richieste. Un peccato mortale. Io ho avuto la fortuna di poter scegliere liberamente il mio percorso di studi, che è diventato chiaro solo verso la fine del liceo. Pensare che il talento sia una sorta di illuminazione è banale e lontano dal vero. Alle volte ci vuole tempo per riconoscerlo e per esserne consapevoli. Mio padre era ingegnere. Fin da bambina abbiamo progettato oggetti insieme, smontato e rimontato piccole invenzioni. Io ho sempre avuto la curiosità di vedere “come fossero fatte le cose”. Chiedere a un ragazzino o a una ragazzina quale lavoro vuoi fare da grande è una domanda mal posta. A quel tempo nemmeno io avrei saputo rispondere. Tanto più che il mondo del lavoro sta subendo un’accelerazione vertiginosa. Non sappiamo quali saranno le professioni dei prossimi vent’anni. E allora penso che il regalo più bello che possiamo fare ai nostri figli e alle nostre figlie sia quello di mantenerli curiosi, attenti e fiduciosi. Bisogna esporli a tutte le strade che si possono aprire, puntando sulla loro apertura mentale. Soprattutto quando intravediamo qualche inclinazione per le materie scientifiche, che le ragazze tendono ad avere alla scuola media, per poi abbandonarle progressivamente.